Per coltivare nuove speranze

Caro direttore,
mi chiedi di partecipare ad una discussione “a partire” dal libro di memorie di Rossana Rossanda. Proposta intelligente ma per me difficile. Da ogni libro importante, e quello di Rossana certamente lo è, ciascuno ricava emozioni diverse e una diversa lezione: e chi si sente personalmente coinvolto in una vicenda narrata si avvolge in un groviglio di sentimenti difficili da dipanare. Sarà interessante vedere quello che la lettura ha suggerito a coloro che non hanno vissuto quel tempo. Per quanto mi riguarda, essendo stato partecipe della storia politica del Pci più o meno dal momento in cui essa ebbe inizio per Rossana – e cioè dalla Resistenza – debbo sapere e confessare subito di essere un osservatore assai prevenuto. A favore dell’autrice, come è ovvio, e di molte delle sue tesi. Tuttavia è sempre differente per ciascuna persona il modo di vivere vicende pur simili. Certo, l’appartenenza al Pci costituiva da sola, nel tempo di cui tratta Rossana, un legame forte e un discrimine netto verso “gli altri”. E ci fu, in più, la comune partecipazione all’insegnamento di Antonio Banfi: un insegnamento durato per me assai a lungo perché, giunto precocemente all’università, mi laureai con lui assai tardi, travolto dalla Resistenza e dalla conseguente attività politica a tempo pieno. C’era stato per me, dopo la fondazione del Fronte della gioventù a Milano all’inizio del ’44, l’incarceramento, la fuga, l’invio a Genova per la ricostruzione dell’organizzazione giovanile decapitata dagli arresti: incominciò così la diversità dal percorso di Rossana. Mi trovai nel ’45, a diciannove anni, senza volerlo, nel gruppo dirigente di una grande organizzazione operaia del Pci come quella di Genova e tra i responsabili di una edizione dell’Uni – tà. Dire che non c’era tempo per pensare è eufemistico. Non ricordo un lavoro più assillante e senza respiro tra giornale e partito. Era a Genova il tempo di lotte durissime per la salvezza di un patrimonio industriale pubblico quasi tutto obsoleto e in smobilitazione. Salvammo i cantieri, parve un gran risultato ottenere una grande acciaieria, imporre ristrutturazioni che ressero a lungo. Ci si sentiva orgogliosi di “andare a scuola dalla classe operaia” – come si diceva – e diventammo “funzionari di partito” anche come giornalisti dell’Unità ritenendoci “rivoluzionari di professione” seppure queste espressioni appartennero presto ad un lessico impronunciabile. Con gli operai e i portuali, fuori della retorica, c’era veramente da scoprire un altro mondo per uno studente di origini borghesi. E non era facile conquistarsi la fiducia, e la stima, di quadri operai esperti nel loro lavoro e nella politica, occupati a raggiungere obiettivi visibili e vitali, diffidenti verso gli “intellettuali” conosciuti essenzialmente come agenti del padronato. La possibile egemonia di classe – per usare il linguaggio di partito – era concepita, per lunga esperienza, prima di qualsiasi indottrinamento, come risultato della compattezza di organizzazione: sindacato, partito, compagnia portuale, associazioni cooperativistiche e mutualistiche costituivano un insieme, rappresentavano una civiltà e una cultura. Le forme dure di una disciplina, dovuta anche alla lunga clandestinità, portavano talora a episodi grotteschi di culto di personalità inesistenti e, alla lunga, a un burocratismo esiziale. Ma poiché quella disciplina qualche volta cieca si installava inizialmente su una storia, su una tradizione, su un bisogno autentico di coesione che veniva dal basso, sembrava a un giovane studente – per di più moralisteggiante – il prezzo da pagare per l’incomparabile prova che i comunisti italiani avevano fornito nella Resistenza e che l’Urss guidata da Stalin aveva dato nella guerra. Al di là dell’errore di giudizio, ovvio col senno di poi, ci sarebbe anche da studiare attentamente quel che furono i dirigenti comunisti italiani di origine operaia formati nel tempo dello stalinismo e poi costruttori del “partito nuovo” sapientemente voluto e teorizzato da Togliatti: penso ad esempio al “mio” Agostino Novella, che sarà poi capo della CGIL. Rossana traccia un quadro secondo me profondamente sincero e veritiero della qualità umana e politica del partito ch’ella conobbe nelle sezioni di Milano. E dice giustamente molte cose che non solo lei ma tanti di noi non capimmo. Ma discutendo con l’intento di una riflessione volta a trasmettere l’esperienza che quella generazione ha compiuto, vi sarebbe, mi pare, da chiedersi se non vi fosse nel costituirsi medesimo della pur originale esperienza dei comunisti italiani una qualche mancanza, un qualche restringimento d’orizzonte diverso, opposto, da quello che abitualmente si indica da destra. Il libro di Rossanda fa giustizia di tante sciocchezze che si dicono sui comunisti italiani, sciocchezze largamente fondate sulla base – che andrebbe chiamata “teorica” se questo aggettivo non fosse fuori luogo – su cui si è venuto costituendo il partito della maggioranza del vecchio Pci. Questa base è data dall’abbandono integrale non solo del passato – considerato da ripudiare più o meno interamente – ma dal rifiuto di ogni idea di trasformazione sociale, vista come antistorica, velleitaria, fuori contesto, anzi dannosa per chi voglia assumersi compiti di governo. Giudicato da questo punto di vista l’esperienza del Pci diviene una insensatezza: e tutto il tema si riduce alla condanna del ritardo nella rottura con i sovietici e alla riprovazione della lentezza nella liquidazione di tutto ciò che non appartenesse alla linea della destra socialdemocratica. Rossana che, con il gruppo del Ma – nifesto, anticipò di un decennio la rottura con l’URSS e criticò da sinistra la politica del Pci, mostra bene, a me pare, quanto sia povera e sostanzialmente falsa una lettura della storia dei comunisti italiani considerata tutta a ricasco della linea sovietica – o, peggio, staliniana – una linea pericolosamente alternativista. Ed ella sa che la forza di quel nostro Partito derivò anche dai suoi difetti, tra cui era un metodo di vita interna che garantì a lungo una straordinaria compattezza ma anche tagliò drasticamente la capacità di evoluzione autonoma. Contro questo metodo si ribellerà il gruppo del Manifesto, per il fatto stesso di nascere, senza tuttavia avere revocato in dubbio le norme dello Statuto tese al divieto delle frazioni. L’autocritica per la radiazione del gruppo del Manifesto, dico in parentesi, avrebbe dovuto e dovrebbe piuttosto applicarsi non tanto alle conseguenze di quel patto costitutivo del Partito ma al suo procrastinarsi. Quel patto era stato innovatore poiché aveva stabilito come criterio per l’appartenenza al Partito quello dell’adesione al programma e non ad una ideologia: ma era fortemente datato al periodo clandestino – e alla pratica invalsa nel PCUS – per il metodo della vita interna. In realtà non fu veramente affrontato il tema del rapporto tra l’esigenza di una piena libertà di espressione e di organizzazione e l’esigenza unitaria. La stessa giusta richiesta avanzata da Ingrao della pubblicità del dissenso si muoveva ancora entro la cornice di un metodo che, nella versione italiana del centralismo democratico, pareva perfettibile. Questo tema oggi è stato risolto togliendo da ogni parte (meno che in qualche minore forza di sinistra) vincoli certamente intollerabili. Ma non si può dire che siano state non dico risolte ma neppure indagate con sincerità le condizioni in cui si svolge nella realtà economica e sociale attuale la lotta di idee e di potere entro le pur diverse soggettività politiche. I soldi e i mezzi d’informazione, come si sa, condizionano la gara tra i partiti, ma anche quella interna ai partiti e alle medesime associazioni in cui si riunisce per comunanza di interessi (economici o culturali) tanta parte – quella più attiva e influente – della società del nostro come di tutti gli altri paesi capitalisticamente sviluppati. E vi è da aggiungere che la scoperta dell’organizzazione, essenziale nella lotta delle classi subalterne, nasceva entro culture separate (quella operaia, innanzitutto) che in larga misura la garantiva: ma esse erano destinate ad essere spazzate via. Non poteva nascere un’altra cultura isolando nella lotta tra le classi il momento economico. Credo che sia stata proprio questa considerazione ad infervorare gli animi dapprima a favore di Cuba, che parve una rivoluzione diversa, e poi, ancor più a favore della “rivoluzione culturale” di origine maoista che avrà così gravi conseguenze. So che qui andiamo oltre il tempo descritto da Rossanda. Ma è inevitabile che venga naturale riflettere sul fatto che se l’isolamento del dato economico può spingere ad acconciarsi in un modesto rivendicazionismo, non minori guai nascono poggiando sopra di esso per dilatarne il significato oltre i suoi confini. Non a caso i movimenti capaci di mutare i modi di pensare vennero nascendo, verso la fine del ‘900, fuori, se non contro, le forze tradizionali della sinistra e del movimento operaio (il femminismo della differenza, e, su un altro piano, l’ecologismo) oppure mutandone profondamente l’asse (il terzomondismo, il nuovo pacifismo). Ancora oggi mi pare totalmente aperta, e talora elusa, la discussione sul rapporto tra l’esigenza dei nuovi fondamenti richiesti a chi voglia cimentarsi ancora con l’idea della trasformazione sociale e i tempi stretti della politica intesa come sforzo pur necessario per il governare (tanto più se si partecipa ad una maggioranza). Quel mondo in cui crebbe la generazione cui appartengo non esiste più. Ma chi cresce oggi ha certo il vantaggio, se lo vuole, di vivere ad occhi più aperti per coltivare nuove speranze. Una memoria come quella di Rossana che vede nobiltà e caducità delle speranze antiche rappresenta, mi pare, un incitamento di cui c’è bisogno.