Pensioni: i giochi sono finiti

Per capire bene cosa sta avvenendo sulle pensioni, le ragioni di fondo del continuo attacco al sistema pensionistico pubblico, ci è di grande aiuto il governatore della Banca d’Italia, Draghi. Egli, infatti, a differenza del suo predecessore, non è invischiato nei giochi di potere politico-finanziari che oggi compaiono, per fortuna, sulla stampa. Il nuovo governatore è una persona libera da questi legami, una pura espressione, si potrebbe dire, delle istanze della globalizzazione liberista e, da questo punto di vista, la sua funzione diventa tanto disinteressata rispetto alle singole parti della classe dominante, quanto profondamente legata agli interessi complessivi del capitalismo liberista. In un suo intervento al Forex di Torino, il governatore disse che bisognava sulle pensioni costruire la stessa concertazione che è stata messa in campo sulla scala mobile. Il paragone fa venire i brividi, visto che, dopo 12 anni di accordi concertativi, nel 1992 la scala mobile è scomparsa. Probabilmente il governatore non pensa di eliminare totalmente la pensione pubblica, ma certo crede nella necessità di ridimensionarla drasticamente. Lo dimostrano le sue ultime considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia, nelle quali propone di abbassare la contribuzione pubblica, che oggi sul salario pesa per il 33%, tra quello che versa il lavoratore e quello che versa l’azienda, in modo da creare un adeguato spazio per la contribuzione privata diretta del lavoratore. Così come nel passato si sosteneva che abolendo la scala mobile ci sarebbe stato più spazio per la contrattazione e i salari sarebbero aumentati, così oggi si sostiene che riducendo il peso della previdenza pubblica il lavoratore ha più soldi per investire nella previdenza privata e alla fine ci guadagna. Naturalmente assieme a tutto il sistema. Sulla scala mobile e sui salari sappiamo com’è andata davvero, siamo in fondo all’Europa. Se si seguirà l’impostazione di Draghi succederà la stessa cosa anche per le pensioni. Il governo di centrosinistra è maggioritariamente d’accordo con l’impostazione del governatore, che viene condivisa in primo luogo dal ministro dell’Economia. Tutta l’impostazione di politica economica del governo è di stampo liberista, salvo qualche attenuazione in più rispetto alla brutalità di Berlusconi. Lo dimostra il fatto che le leggi fondamentali del governo delle destre, da quelle sul mercato del lavoro a quelle sulle pensioni, sono ancora tutte lì e il governo sinora non ha certo pensato di abolirle ma, casomai, di correggerle o attenuarle di fronte magari al rischio di un conflitto sindacale. In questo contesto la campagna sui costi delle pensioni pubbliche è un segno preciso della direzione di marcia presa dalle forze economiche dominanti e dal governo che le segue. La propaganda sull’eccesso di costi del sistema pensionistico è priva di reali fondamenti. Se si scorpora minimamente l’assistenza dalla previdenza, se si considera che le pensioni da noi vengono conteggiate al lordo delle tasse, rispetto al Pil, mentre negli altri paesi al netto, se infine non si dimentica che il Trattamento di fine rapporto (Tfr) nella contabilità internazionale viene considerato spesa pensionistica, si capisce bene come gli allarmi sul costo della previdenza pubblica siano falsi e strumentali. D’altra parte gli stessi dati internazionali dimostrano che la spesa sociale nel nostro paese è inferiore di 2 punti rispetto alla media europea. Basterebbe, quindi, arrivare a questo obiettivo sociale europeo, che certo non è nelle priorità di un ministro come Padoa Schioppa, che segue rigidamente i dettami della cultura liberista, per migliorare la tutela sociale di tutti i cittadini senza tagliare le pensioni. Inoltre si può sempre aggiungere che se si vuole intervenire sui costi del sistema pensionistico, si dovrebbero affrontare i privilegi dei politici, dei manager, degli alti burocrati, e non certo colpire i metalmeccanici. In secondo luogo si lamenta l’aumento dell’aspettativa di vita. Questa disgrazia che ci è capitata ha un costo che dovrebbe essere pagato con l’aumento dell’età pensionabile. Nessuno, naturalmente, discute sul fatto che il miglioramento delle condizioni di vita è anche determinato dal fatto che non si lavora fino alla soglia della vecchiaia più estrema, perché, se così fosse, le aspettative medie di vita calerebbero e, forse, alcuni sarebbero contenti. Ma, soprattutto, questo dato non considera il lavoro, le sue reali condizioni, la durata effettiva del tempo di lavoro. L’aumento dell’età pensionabile non è un aumento del tempo di lavoro obbligatorio, ma è solo un modo per tagliare pensioni pubbliche e stato sociale. Infatti oggi tutte le aziende tendono a cacciare dal lavoro coloro che superano i 50 anni d’età. E questo non riguarda solo le fonderie o le catene di montaggio, ma anche l’informatica o i servizi, ove il logoramento di un’attività di lavoro sempre più stressante e competitiva consuma le persone. L’aumento dell’età pensionabile quindi non fa lavorare di più, ma semplicemente toglie la pensione a chi non può continuare a lavorare. Il suo risultato sarebbe che accanto al precariato giovanile crescerebbe anche il precariato di mezza età, di coloro che sono troppo vecchi per lavorare ma troppo giovani per andare in pensione. E’ quindi una colossale mistificazione quella dell’aumento delle aspettative di vita, come motivazione per mantenere la controriforma di Berlusconi. Così come lo è la pretesa di tagliare i coefficienti di calcolo delle pensioni contributive. Qui sfioriamo il paradosso. Ma come, si spiega che bisogna fare sacrifici per le pensioni in nome dei giovani, e poi si tagliano i coefficienti di calcolo proprio sulle future pensioni dei più giovani? E’ evidente che siamo di fronte, anche qui, a un’operazione ideologica che maschera il preciso interesse verso una privatizzazione complessiva del sistema pensionistico. La vicenda del Tfr è esemplare al riguardo. La grande maggioranza dei lavoratori non vuole versare la propria liquidazione sui fondi pensionistici integrativi e tantomeno su quelli aperti. Si è costruita allora una legislazione che li obbliga a versare la propria liquidazione nei fondi, attraverso il sistema iniquo del silenzio-assenso. Ciò nonostante il risultato vantato non c’è, perché chi paga già il 33% del proprio salario per avere una pensione, non considera conveniente versare un altro 8% della retribuzione (tanto è il peso del Tfr) per ottenere una rendita pensionistica complessiva che non tocca il 60%. L’operazione sul Tfr dimostra che non si vuole diminuire la spesa pensionistica, ma si vuole imporre ai lavoratori di pagare di più per avere di meno e, soprattutto, di versare più soldi alla finanza. Per questo oggi bisogna essere intransigenti. Se non vogliamo che la pensione pubblica faccia la fine della scala mobile, dobbiamo fermare qui ed ora il disegno che punta al suo progressivo logoramento. Attenzione: un accordo che oggi accetti lo scalone di Maroni, magari trasformandolo in scalini, o che si impegni nel futuro a rivedere i coefficienti, non conclude, ma apre una nuova fase di riduzione del sistema pensionistico pubblico. Un accordo di questo genere avrebbe infatti il significato di mettere le pensioni nella posizione di una variabile dipendente del mercato, periodicamente ricontrattabile al ribasso. Questo accordo non sarebbe l’ultimo, ma il primo di una lunga serie scandita dai diktat della Banca Europea e dei centri finanziari internazionali. Per questo bisogna dire di no alle finte mediazioni che salvano la sostanza delle controriforme liberiste sulle pensioni e, anzi, rivendicare con forza la redistribuzione del reddito a partire dalle pensioni, con l’aumento di quei trattamenti che da 15 anni sono falcidiati dall’inflazione. Sulle pensioni, come su altre scelte di politica economica, siamo a un bivio. I liberisti di governo e la Confindustria vogliono mantenere la sostanza delle scelte di Berlusconi, dalla Legge 30 allo scalone Maroni, perché con quella sostanza sono d’accordo. Lottare contro la loro posizione in nome della pensione pubblica, anche a costo di mettere in discussione la stessa sopravvivenza del governo, è una questione fondamentale per il futuro del lavoro e della sinistra nel nostro paese. Se sulle pensioni dovessero ripetersi i comportamenti tenuti dalla sinistra del governo e dai sindacati rispetto alla finanziaria dell’anno scorso, saremmo davvero alla catastrofe. A Mirafiori i fischi non basterebbero più, saremmo alla rottura totale tra il centrosinistra e la sua base sociale operaia e popolare. Siamo arrivati al nodo: i giochi della politica sono finiti, o si combatte la linea di Draghi e Padoa Schioppa, costi quello che costi per il governo, oppure la sinistra e il sindacato italiano si suicidano.