“Patto per l’italia“ e individualizzazione del rapporto di lavoro

Non vi è dubbio che volendo leggere quanto sta accadendo fuori dalla cronaca quotidiana e nel contesto della più generale situazione europea e internazionale, ciò che colpisce è l’insistenza sull’individualizzazione della relazione di lavoro come elemento di libertà, di rivincita dell’individuo contro una cultura collettivista o quanto meno di omologazione a dei comportamenti e regole standard, mediane, irrispettose della nostra unicità. È difficile leggere il libro bianco del governo senza giungere alla conclusione che questa idea costituisce non solo un ideologia, nel senso proprio del termine, ma il macro-obiettivo cui ricondurre una serie di proposte: dal contratto individuale alla liquidazione del contratto nazionale, la cifra interpretativa è localizzare, individualizzare, articolare,ecc..
Si dice che ciò discenderebbe da almeno due cause L’una più culturale – lo spirito del tempo –, l’altra più specifica e cioè il cambiamento profondo della natura del lavoro. Lo spirito del tempo – cioè la vittoria inequivocabile del capitalismo e della sua cultura – non necessita di commenti – almeno di commenti brevi – se non che quelli “stolidi”, impliciti nella progressione delle statistiche su come va il mondo: si potrebbe dire che quanto più il capitalismo si libera da ogni limite esterno ed interno tanto peggio va l’umanità nel suo insieme, sia al dettaglio che all’ingrosso, sia per la qualità sociale della vita che per quanto concerne la vita stessa.
Veniamo a quella specifica; essa consisterebbe nel fatto che la natura dei processi di produzione e delle attività ad esse collegate richiederebbero un peso crescente, quando non esclusivo, di competenze legate alla produzione e gestione di simboli e concetti, attraverso i quali si interverrebbe sul mondo materiale, quindi un diffuso e crescente sapere più elevato specialistico. Si andrebbe insomma velocemente alla liquidazione o alla segregazione ad attività economica marginale, tipica quindi di chi è socialmente marginale, delle vecchie attività manifatturiere. Insomma, prima è accaduto all’agricoltura ed ai contadini, ora alla manifattura ed agli operai di “perire” sulla strada della de-materializzazione della società. È ovvio che vi sarà ancora bisogno di produrre il cibo e “le cose”, ma lo si potrà fare impiegando pochissime persone, e dove non sarà possibile trovare una soluzione tecnologica allora vi saranno dei “residui”. Se questo è il futuro, allora la relazione di lavoro è sempre meno una relazione di lavoro subordinato in senso classico, ma viceversa la partecipazione, attraverso il capitale di rischio del proprio lavoro al capitalismo ubiquitario che, ironia della sorte, regredirebbe alla sua preistoria, in imprese individuali o in società di professionisti, senza più lavoratori dipendenti ma micro-capitalisti, che dominano una nuova razza di schiavi tecnologici – le macchine connesse dal software. Come si farà a valorizzare il capitale non si sa, ma forse la risposta sta nell’ideologia dei ritorni crescenti, fino al momento del tonfo naturalmente, della nuova economia. I capitalisti conservatori – come quelli interpretati dall’Economist – irridono a questi sogni utopici e, coi piedi piantati per terra ed una robusta dose di cinismo, calcolano quanto di buono si può capitalizzare dalle incursioni degli utopisti e quanto invece si corre il rischio di mettere a repentaglio.
Ciò che interessa è che questi “sogni” non vengono neppure sognati come “tendenze secolari”, scenari di riferimento, ecc., ma come realtà in essere che non riesce ad affermarsi per le resistenze conservatrici e reazionarie del vecchio mondo e di chi è condannato a farne parte. Di qui la nuova geografia politica che tanto sorprende alcuni; una parte della tradizionale sinistra, proprio in virtù della cultura giacobina, progressista, tecnocratica e minoritaria che la contraddistingueva è “naturalmente” scivolata, privata di un quadro culturale di riferimento e perciò “liberatasi” dal vincolo di una base sociale definita, verso un sogno iper-capitalistico che, essendo radicale, appare come il compito morale della nuova classe dirigente che deve illuminare le masse retrograde guidandole verso il paradiso. Naturalmente portare nella discussione analisi e dati che disconfermano quel quadro – ed orami ve ne sono a bizzeffe, sia di quelle più giornalistiche che di quelle più storico – analitiche – è del tutto inutile perché, come tutte le culture giacobine ed elitarie, il discorso è in continuo corto circuito tra il dover essere e l’analisi, cioè a dire il dover essere seleziona ciò che si può vedere.
Questa breve riflessione non vuole avventurarsi su questi temi interpretativi, vi sarà il tempo ed il luogo per questa lettura, ma rivisitare un topos di questo sogno: il rapporto individuale di lavoro – non la individualizzazione di un rapporto collettivo1 – come conquista di libertà contro il monopolio burocratico dei sindacati. Mi servirò in proposito della storia del movimento sindacale inglese, per svariate ragioni tra le quali: l’essere quella più autonoma dalla cultura socialdemocratica o anarchica del continente; l’essere la più antica e quella radicata nel paese capitalista per definizione.
Nel 1799 un atto legislativo – il Combination Act – fu considerato a tal punto un elemento critico per il regno d’Inghilterra che attraversò il parlamento a velocità supersonica e ricevette l’approvazione2 reale dopo 24 ore dalla sua approvazione. Che cosa doveva risolvere questo atto, poi rivisto e rimaneggiato fino alla sua parziale abrogazione nel 1825? Che cosa conteneva di così strategico da divenire parte essenziale della vita inglese per un quarto di secolo? Semplicemente la proibizione, per legge appunto, di ogni possibile unione/coalizione di operai generici e qualificati per negoziare le loro paghe e condizioni di lavoro, dato che una siffatta unione/coalizione era riconducibile ad una combination in restraint of trade, cioè ad una concentrazione per la limitazione dell’attività commerciale, insomma ad una distorsione monopolistica o oligopolistica del mercato. Ciò avveniva con il contemporaneo smantellamento di tutta la struttura amministrativa, di origine feudale, di intervento per la regolazione del lavoro e delle paghe. Cosa restava quindi? La libera contrattazione tra il capitalista ed i suoi lavoratori: un contratto realmente individuale, e nel quale certamente il capitale di rischio del lavoratore era ben evidente – il suo posto di lavoro – e pienamente esposto alla legge della domanda e dell’offerta.
Nella storia del movimento sindacale inglese, gli anni dal 1799 al 1825 sono considerati quelli della più costante ed assoluta repressione. Solo nel 1825 un atto del parlamento fissò il diritto alla contrattazione collettiva, compreso il diritto allo sciopero. Bisogna ricordare, per onor di storia, che il tentativo di reintrodurre il divieto di coalizione ritornò molte volte alla ribalta; il tentativo più aperto e pericoloso fu quello fatto nel 1831, sotto il regno di Guglielmo IV, governando i Whig, in base al rapporto di un professore – se ne trovano sempre – di Economia Politica di Oxford, Nassau Senior, che proponeva, tra l’altro, di punire severamente anche solo la pubblica richiesta di un lavoratore ad un altro di adesione al sindacato. I Whig si rifiutarono di passare il rapporto al Parlamento perché, nelle parole di Lord Merlbourne: “Appare del tutto impossibile fare qualcosa di efficace, a meno che noi non proponessimo misure tali che rappresenterebbero una seria violazione delle libertà costituzionali del paese e per le quali sarebbe impossibile ottenere il consenso del Parlamento”. (Sia lode al realismo di quei liberali che per altro fecero di tutto per perseguitare il movimento sindacale). Insomma, se davvero si volessero garantire gli interessi capitalistici, come richiesto dai loro rappresentanti, “in modo efficace”, si dovrebbero violare le libertà costituzionali.
Ci fu un nuovo tentativo nel 1867 basato sulla distinzione tra il carattere criminale dell’attività del sindacato e quello illegale. Secondo gli industriali, malgrado l’atto del 1825, era palese che il sindacato aveva come scopo l’agire in restraint of trade , violando così il carattere individuale del contratto e pretendendo di regolare collettivamente le condizioni di lavoro, il che era “un ingiustificabile intromissione nei loro diritti di industriali”. Purtroppo la storia non finì lì.
Se non si poteva più combattere il movimento sindacale direttamente alla radice – il diritto di coalizione per controbilanciare il potere del capitalista – allora, bisognava scegliere un altra fattispecie e la scelta che fu fatta è di qualche interesse. Vari furono i mezzi, ma quelli fondamentali furono due: il ricorso alle leggi sui rapporti tra masters and servants, cioè tra padroni e servitori cui i rapporti tra capitalista e lavoratori furono forzosamente ricondotti, e il ricorso ad uno degli atti, deliberati dopo l’ammutinamento del 1797, che proibiva a società non riconosciute dalla legge di chiedere di prestare un giuramento di adesione. Insomma, o servi o marinai.
Interessante notare che il problema dello status giuridico del sindacato fu sollevato ben dopo il riconoscimento del 1825 ed anche dopo il Trade Union Act del 1875, almeno sino al 1909. Il motivo era sempre lo stesso: lo sconfinamento dell’attività del sindacato dai compiti per i quali era stato riconosciuto il suo carattere associativo. Si argomentava infatti che il carattere associativo riconosciuto e regolato dal Parlamento, che aveva elencato nell’atto del 1875 che cosa il sindacato poteva fare, non implicava il riconoscimento della personalità giuridica. Quindi gli era proibito, ad esempio, di finanziare il Partito Laburista, dato che tale attività non era stata esplicitamente menzionata nell’atto del 1875.
Nel caso della loro riduzione a servitori, gli scioperanti venivano perseguiti non per aver fatto sciopero ma per non aver finito il loro lavoro, cosa che un servitore doveva fare per legge. Nell’altro caso, l’incerto statuto giuridico, si sfruttarono i cerimoniali di adesione di alcuni sindacati, alcuni molto elaborati e forse di origine massonica, per perseguire i sindacalisti: essi infatti non potevano chiedere un giuramento di fedeltà ad un’associazione che non era più un organizzazione criminale ma non per questo a piena titolarità di diritti. Il caso più celebre è quello dei “martiri di Dorchester” cioè i sette sindacalisti, probabilmente metodisti, che furono condannati a sette anni di deportazione in Australia – sentenced to Botany Bay, come nelle vecchie ballate popolari – per avere organizzato una cerimonia di adesione al sindacato basata su un cerimoniale di giuramento di fedeltà.
La situazione fu risolta solo con un atto del parlamento del 1875, dopo una sconfitta elettorale dei Whig che vi si opponevano strenuamente, grazie ad un governo Tory. L’atto del 1875 sostituì quello su “Padroni e Servitori” con uno dal titolo “Datori di lavoro e Lavoratori” che venivano concepiti come due parti eguali di un contratto privato e vi fu il pieno riconoscimento della contrattazione collettiva, con tutti gli annessi, dal picchetto all‘azione collettiva, se pacifica e legale.
Occorre ricordare che questa lotta durata un secolo non avvenne in una situazione socialmente omogenea e in uno sviluppo lineare del capitalismo inglese; al contrario siamo nel cuore della rivoluzione industriale, della trasformazione dell’industria tessile da manifattura a sistema industriale grazie all’incorporazione di una serie di innovazioni tecnologiche ed organizzative, siamo alla nascita della prima industria meccanica, alla rivoluzione dei rapporti sociali in agricoltura, il tutto mentre persistono le vecchie attività specializzate rigidamente organizzate. È utile altresì notare che gli aspetti più aggressivi del capitalismo venivano proprio dalle nuove industrie, che si muovevano, diremmo oggi, in base a principi puramente finanziari e di corto respiro. Dicono i coniugi Webb a proposito dell’industria tessile: “I loro padroni invece di essere, come nei vecchi mestieri artigianali, poco più che lavoratori esperti con funzioni direttive che riconoscono il tradizionale standard di vita dei loro lavoranti, erano spesso capitalisti entrepreneur, che dedicavano tutte le loro energie al lato commerciale della loro attività economica, e che lasciavano ai loro manager il compito di comprare il lavoro sul mercato al più basso prezzo possibile.3” Si trattava cioè dei settori avanzati, quelli che Marx rappresentava come “rivoluzionari” del vecchio ordine feudale. In questa esplosione di condizioni lavorative diverse, sia dal punto di vista dell’analisi sociale ed economica ad ogni stadio storico, che lungo tutto il percorso storico, l’unico elemento di unità fu il diffuso e crescente senso di solidarietà tra i salariati di fronte alla repressione.
Va inoltre notato che la crescita di un movimento sindacale che dà origine ad un Partito Laburista che lo deve difendere attraverso la Legislazione produsse trasformazioni epocali, ma dovette fronteggiare rapidamente un problema di autonomia politica e culturale che esplose come problema subito dopo la vittoria del 1875. Di fronte ad una nuova fase estremamente aggressiva di sviluppo del capitalismo inglese – si ebbe dal 1878 sino alla fine del secolo un alternarsi di periodi di depressione economica acuta e di espansione con il prevalere di una moderata stagnazione economica – il gruppo dirigente, auto definitosi la Giunta, non aveva nessun progetto di società da proporre se non il nudo contrattualismo, di cui, si noti, faceva parte la polemica contro l’interferenza pericolosa dello Stato nel turbamento della relazione di scambio sul mercato tra salariati e capitalisti. Essi abbracciarono l’unica ideologia che pareva loro in grado di sostenere la cultura contrattualista, e cioè il libero commercio e l’individualismo radicale del Partito Liberale, derivante dalla elaborazione di Bentham e James Mill. L’incapacità, da parte delle Trade Union e del Comitato Parlamentare a comprendere le trasformazioni in corso e i problemi che stavano maturando, con la conseguente sordità ad ogni problema di trasformazione sociale, furono macroscopiche, come divenne evidente al tempo del Factory Bill del 1878 – il primo atto legislativo organico di regolazione legale delle condizioni di lavoro – totalmente ideato e scritto dai Liberali. In quel contesto, malgrado le pressioni di alcuni sindacati, il sistema di lavoro a domicilio chiamato Sweating – letteralmente “sudore”, e traslatamente, da allora, sfruttamento – non venne contrastato e gli si consentì una vigorosa espansione. Essi consideravano il movimento socialista come una inconcludente e pericolosa deriva massimalista. Il livello di deriva elitista – il carattere di aristocrazia operaia – fu tale che così viene descritto dai Webb: “Dobbiamo considerare la loro incongruenza come l’evidenza lampante del pericolo che affronta un partito formato senza alcuna idea chiara dello stato sociale che vuole realizzare. Nelle lotte di quegli anni – sino al 1875, N.d.A. – possiamo vedere i sindacalisti inglesi spinti dalle loro aspirazioni utopiche ad un opportunismo inconsistente, dal quale essi si spostarono, nella generazione seguente, nel crudo contare sulle proprie forze di una aristocrazia del lavoro. Durante tutto questo processo non ci fu alcun momento nel quale l’incompatibilità tra le loro opinioni Individualiste e Collettiviste fosse percepita”4. La sordità e cecità ai problemi che stavano maturando fu tale, che una famosa inchiesta sulle condizioni di vita a Londra evidenziò, anche con una documentazione statistica, il grado di povertà, emarginazione sociale e degrado delle condizioni di vita di parti consistenti della popolazione di Londra, e fu una sorpresa ed uno choc, non nei circoli borghesi soltanto ma in quelli delle Trade Union che non potevano credere che quella fosse la società nella quale operavano. Di lì si arrivò alla lotta delle fiammiferaie di Londra – sostenuta da tutta l’opinione pubblica – e poi al grande sciopero dei docks che portò all’organizzazione sindacale lavoratori non specializzati, ma siamo già al nuovo sindacalismo di impronta socialista.
Da lì, cioè dalla vittoria del 1875 fino a quasi la fine del secolo, l’agenda parlamentare delle Trade Union ebbe successo solo nella misura in cui essa coincideva con quella liberale; insomma si ebbe una forte egemonia liberale sulle Trade Union che, per un lungo periodo, furono anche conquistate dall’ideologia del libero commercio e dell’individualismo radicale. Solo lo sviluppo del movimento socialista riuscì prima a contestare e poi a rovesciare questa tendenza.
Ci volle quindi quasi un secolo di lotte sociali e parlamentari affinché una delle radici del 20° secolo, il secolo breve di cui ci parla Hosbawm, si radicasse solidamente. Il sindacato esiste se esiste la contrattazione collettiva e se esistono tutte le condizioni istituzionali, legali e materiali, affinché essa possa essere esercitata; così fu, così è stato e così è. Esso ha bisogno di un’autonomia culturale politica, cioè di una esplicita visione della società che vuole contribuire a realizzare e di una capacità di lettura critica ed analitica dei processi economici e sociali. Ma sarà ancora così? Questa è la domanda/speranza degli innovatori di destra e di sinistra.
La domanda, opportunamente riformulata in modo analitico, dovrebbe suonare così: se le condizioni sociali vigenti sino ad ora – il capitalismo industriale – manifatturiero – va declinando come l’agricoltura, allora non è forse opportuno pensare che i problemi di inclusione sociale non hanno più un determinante lavoristico, ma sociale e di mercato? In altre parole, se non vi sarà più stabilità del lavoro e grande impresa ma estrema mobilità e medie e piccole imprese, in competizione ma anche cooperanti tra di loro, non è forse fuori dallo specifico ambiente lavorativo, nella società e nel mercato (del lavoro, ma non solo) che si determinano le condizioni dell’inclusione o segregazione sociale, cioè dell’ineguaglianza e della giustizia?
Coloro che oggi si autodefiniscono, a destra e a sinistra, riformisti, nutrono la convinzione che la risposta sia sì, e si dividono su come meglio organizzare la risposta. Si dividono tra statalisti, in modo prevalente la destra, e liberisti, in modo prevalente la sinistra; tra populisti, di più la destra, ed elitisti, di più la sinistra; tra tradizionalisti e tecno-maniaci, in parti uguali.
Si determinerebbe così una struttura sociale che si basa sulla trasformazione del lavoro in una merce non solo contrattata individualmente ma, questa è la vera novità, valorizzata dal singolo sulla base della sua personale responsabilità e abilità. Si tratterebbe di una merce del tutto rispondente alle leggi di mercato. Diversa la situazione dell’individuo che possiede come capitale individuale il suo lavoro: egli deve essere protetto dalle avversità, cioè da tutto ciò che non sia riconducibile ad una sua incuria o irresponsabilità, in una certa misura. Sul significato di questa “una certa misura” di nuovo si possono tracciare mappe degli schieramenti possibili – dal capitalismo compassionevole di Bush al volontariato cattolico – ma tutte le diverse configurazioni considerano il singolo, come cittadino, del tutto separato dall’essere un lavoratore; l’una cosa non fonda l’altra, anzi l’essere cittadino consente, a costi “accettabili”, di divenire integralmente una merce, in quanto lavoratore. Basterebbe rileggere quanto scriveva il sociologo Thomas Humphrey Marshall su due aspetti: la nascita dei diritti di cittadinanza civile per la classe operaia, e sull’ideale dell’altro Marshall (Alfred, l’economista il cui lavoro è alla base della costruzione teorica dei distretti industriali)di fare di ogni uomo un gentleman, cioè di essere ammesso a partecipare al retaggio sociale, alla cultura, alla qualità della vita. Sul primo aspetto egli, nel 1949, sottolineava il fatto che: “C’è quindi una differenza rilevante fra una vera e propria contrattazione collettiva, attraverso cui le forze economiche cercano di raggiungere l’equilibrio in un mercato libero, e l’impiego di diritti civili collettivi per affermare le pretese fondamentali agli elementi di giustizia sociale. Così l’accettazione della contrattazione collettiva non è stato solo un naturale ampliamento dei diritti civili; essa ha significato il passaggio di un importante processo dalla sfera politica a quella civile della cittadinanza.”5 Insomma, solo attraverso la contrattazione collettiva e la conquista del diritto a farla si è passati, come diritto civile, da servitori a operai e quindi a cittadini.
Rispetto all’altra, egli più volte ritorna sul fatto che, come osserva Maranini, “La seconda cosa che significa l’affermazione che si deve fare di ogni uomo un gentleman è che nelle condizioni di organizzazione del lavoro capitalistico l’operaio non può essere un gentleman”6. Non lo può essere, diceva T. H. Marshall, perché la vita lavorativa lo subordina quantitativamente e qualitativamente, quindi se essa viene degradata essa trascina con sé il resto. La contrattazione collettiva consentì di cambiare la condizione di lavoro, e quindi contribuì ad ampliare la cittadinanza.
Molta acqua è passata sotto i ponti, ma un altro grande sociologo di oggi, Richard Sennet, ci ripresenta il problema, non più nella stessa declinazione di Marshall, una vita assorbita da un posto di lavoro, ma già in quella che pensano i nostri riformisti, una vita spezzettata tra tanti posti di lavoro, e non pare che ciò abbia fondamentalmente spostato il problema: non si può essere cittadini nel senso di Alfred Marshall se il lavoro non è un principio di realizzazione di sé, parte della propria individualità e veicolo di partecipazione ai compiti della società. D’altronde di che cosa ci parlano l’economista Amartya Sen e la filosofa Martha Nussbaum quando ci parlano del concetto di capacità? Cioè della necessità che tutti gli esseri umani siano messi nelle condizioni di fatto di sviluppare, nel modo che vorranno, le loro specifiche potenzialità umane. Aristotele le chiamava virtù, oggi parliamo di capacità; Marhall pensava al gentleman e Marx alle nostra “natura generica”; ma il tema è sempre lo stesso: non si possono dividere gli esseri umani in due parti, l’una, per la quale si pretenderebbe la mobilitazione delle proprie risorse e capacità creative affidata al puro mercato e basata su una concezione degli esseri umani puramente utilitaristica, l’altra, nella quale siamo cittadini consapevoli e dediti al bene comune. Sono pure ubbie. Basta leggere una qualsiasi indagine sociologica sui giovani nei grandi centri urbani o nelle fabbriche7 per raccogliere risposte di questo tipo: “che ci faccio con la cultura e la specializzazione: arrostisco hamburger? O inforno pizze?”. Oppure ancora: “mi chiedono di essere creativa e di investire sul mio lavoro, ma mi inquadrano ad un livello che presuppone la pura esecutività”; ed ancora: “tutti lodano il lato informale del lavoro, il fatto che collaboriamo tra di noi facendoci carico delle incongruenze dell’organizzazione, ma tutti i criteri di valutazione sono costruiti ignorando questa parte; non lo dico solo per i soldi ma anche per un principio di giustizia”.
Di nuovo quindi si torna alle radici del movimento sindacale: o dispongo delle risorse per cambiare il lavoro e quindi posso contribuire a cambiare la mia vita – non si può più pensare ad una relazione causale tra lavoro e vita univoca e totalizzante – oppure sono un lavoratore – forse più probabile una lavoratrice – a chiamata, e questo solo fatto ingoia parte rilevante della mia vita e posso così esemplificare all’infinito. Non si tratta quindi di scrivere una carta dei diritti dei lavori – nel mercato – ma dei diritti per sostenere processi collettivi –, cioè risorse necessarie e sufficienti a controbilanciare il potere dispositivo dell’azienda – in grado di cambiare il lavoro anche attraverso strade e profili differenti ed articolati.
Occorre ora ritornare alle domande iniziali. Dove sta andando il capitalismo italiano nel contesto di una trasformazione internazionale? È indubbio infatti che stiamo assistendo ad una nuova e radicale fase di trasformazione dell’economia capitalistica su scala planetaria e che essa coinvolge anche l’Italia. Come ho avuto modo di osservare in altre circostanze:
«A diversità dalle previsioni classiche prima e dell’esperienza dell’industria di massa poi, oggi stiamo sperimentando mercati la cui natura è estremamente variabile e di difficile, se non impossibile, previsione; l’estensione del mercato non coincide più solo con la crescita di volumi omogenei di produzione da farsi. L’industria di massa ha prima sfruttando i mercati nazionali, cioè estendendo il mercato verticalmente, poi, raggiunta la saturazione, i mercati internazionali, cioè estendendo il mercato orizzontalmente. Da un certo momento in avanti l’estensione del mercato procede in una terza dimensione, la profondità, la capacità cioè di coprire dei mix estremamente compositi di domanda. La conseguenza più rilevante è che l’adeguamento non riguarda solo o principalmente i volumi di produzione e neppure solo e principalmente i costi ma una combinazione di costo-qualità/innovazione8. I sistemi produttivi devono quindi fare i conti, in modo più severo, quanto più ci si sposta su produzioni di qualità, il che, si badi bene, non significa necessariamente ad alta tecnologia. Quali conseguenze ciò comporta per l’organizzazione dei sistemi produttivi?(..)
L’industria di massa, che ha dominato più della metà del ‘900, si è sviluppata attraverso la rigidità, sistemi produttivi cioè con fasi omogenee organizzate in linea. Potendo contare, infatti, su volumi prevedibili e crescenti di prodotti omogenei, la produzione può essere suddivisa in fasi omogenee che, l’una dopo l’altra, in linea, appunto, realizzano il risultato massimizzando le economie di scala. Il Taylorismo-Fordismo ha rappresentato, per un’intera fase storica, la possibilità che la produzione da farsi coincidesse, in modo crescente, con la produzione fatta. In questa prospettiva analitica la rigidità di un ciclo di produzione consiste nel fatto che, a parità di livelli d’attivazione del processo produttivo, si determinano sempre le stesse quantità prodotte e viceversa la flessibilità, quando, a parità di livelli d’attivazione del processo produttivo, possono determinarsi diverse quantità prodotte. Ciò dipende dall’organizzazione della produzione ed ha delle implicazioni sul rapporto tra capitale fisso e circolante. Come già osservato, la crescita basata sulla rigidità è avvenuta, per la cosiddetta industria di massa, in varie fasi, prima sfruttando i mercati nazionali, cioè estendendo il mercato verticalmente, poi, raggiunta la saturazione, affrontando i mercati internazionali, cioè estendendo il mercato orizzontalmente. Poi si è passati alla profondità cioè all’innovazione, diversificazione e segmentazione di prodotto. Ciò significa ridurre le dimensioni dei lotti, ma questo rende obsoleto il precedente equilibrio tra capitale fisso e circolante, tra produzione da farsi e fatta, cioè la precedente divisone del lavoro e quindi i modelli organizzativi rigidi. La traiettoria organizzativa sino allora considerata, da Marx in avanti, la naturale evoluzione del sistema di fabbrica e cioè da cicli produttivi “eterogenei in parallelo”9 a “organici in linea”10 ad un certo punto si rivela inadeguata proprio nell’industria di massa. Il modello odierno di flessibilità funzionale è quello di organizzare “cicli eterogenei, con mansioni in parallelo, associati per addizione.11»
In che consistono e come si realizzano cicli produttivi “eterogenei, con mansioni in parallelo, associati per addizione”? In questo contesto le espressioni in linea e in parallelo sono usate dal punto di vista dell’economia industriale per indicare due modelli diversi d’organizzazione della produzione. Dato un certo numero di processi lavorativi, in linea significa che essi sono organizzati in un ciclo di produzione in sequenza, non è quindi possibile avviare una fase produttiva se non dopo la conclusione di quella precedente; al contrario, in parallelo, che il processo lavorativo è suddiviso in parti eguali e parallele, per ottenere una maggiore flessibilità. La moderna industria di massa, come già detto, si è sviluppata suddividendo un ciclo di produzione in parti omogenee disposte in sequenza, in modo tale da formare un tutto organico12, al contrario, agli albori della rivoluzione industriale, la Manifattura era organizzata come una combinazione di processi lavorativi eterogenei che si sommavano per addizione (esterna), e il cui unico vantaggio era dato dalle economie di scala realizzate utilizzando un’unica fonte d’energia, l’automa autocrate di cui parlavano Ure e Marx. La tendenza moderna è quella di ritornare a “cicli eterogenei, con mansioni in parallelo, associati per addizione”, o a originali combinazioni di entrambe13. Il nuovo automa autocrate è il sistema informativo. Il sistema informativo, infatti, consente di separare gli aspetti di pianificazione da quelli manifatturieri, permettendo la realizzazione, contemporanea e non contraddittoria, della centralizzazione delle funzioni strategiche e della parallelizzazione e addizionabilità esterna della manifattura. Così facendo si sfruttano contemporaneamente economie di scala e di scopo, volumi e flessibilità, segmentazione e centralizzazione. Ovviamente, non esistendo il moto perpetuo, tutto ciò ha dei costi economici e sociali.
La flessibilità funzionale viene oggi sempre di più ricercata non solo a livello della singola impresa ma attraverso lo sviluppo del cosiddetto outsourcing. Che differenza c’è tra il decentramento produttivo degli anni ’60 e l’odierno outsourcing? Nel caso del decentramento si trasferiscono all’esterno quote aggiuntive di produzione, mentre nel caso dell’outsourcing un processo produttivo viene scomposto e riallocato tra aziende giuridicamente e organizzativamente indipendenti che, nel loro insieme, delimitano un processo produttivo. Se si aggiunge poi che, quasi mai le aziende cui viene riallocata una parte della produzione lavorano esclusivamente in cooperazione con una singola impresa finale, si hanno allora differenti processi produttivi distribuiti attorno a nodi produttivi comuni. Si tratta insomma di momenti della divisione del lavoro che vanno oltre un puro rapporto di mercato. Non si tratta solo, in altre parole, di una divisione sociale del lavoro, ma anche tecnica. La nuova entità produttiva, un po’ azienda, un po’ mercato, assomiglia di più alla manifattura o alla fabbrica? Cosa comporta tutto ciò per il Lavoro.
La costruzione di reti di imprese, e la loro connessione attraverso reti informative elettroniche, sposta, o almeno rende fluidi, i confini tra divisione tecnica del lavoro (cioè interna alle organizzazioni) e divisione sociale del lavoro; esse sono in parte mediate dalla gerarchia ed in parte dal mercato, sono forme cooperative ma anche competitive; sono le cosiddette integrazioni strategiche tra un impresa focale e le subfornitrici (extended enterprise), o le imprese virtuali, realizzate tra pari (Adaptable production networks). Questo carattere misto di cooperazione e competizione, un tempo specifico delle realtà distrettuali di piccole e medie imprese, è utilizzato come un criterio di riorganizzazione sia nelle versioni “egualitarie” che in quelle “egemoniche”. Questo spostamento o fluidificazione dei confini dell’impresa e delle organizzazioni va ancora ben studiato. In ogni caso sembra contenere, in nuce, sia una colonizzazione del territorio e dell’intera società a pure logiche di impresa come, viceversa, la possibilità di vincolare, quando non di subordinare, tali logiche a obiettivi e valori predefiniti dalla società, quali la sostenibilità ambientale, la sostenibilità dei luoghi di lavoro14, ecc..”15
Siamo quindi in presenza non di una riduzione dell’industria, ma di una sua estensione; non di una riduzione della disciplina del lavoro ma di una sua estensione sino ad includere parti delle vecchie professioni liberali e non. Ecco quindi ripresentarsi il problema della disponibilità di risorse collettive per equilibrare il dispotico disciplinamento del lavoro da parte del Capitale attraverso forme nuove di coalizione di chi lavora.
Insomma, purtroppo per i nostri riformisti – quelli soi disant di sinistra– per la storia del movimento operaio internazionale vale la sconsolata considerazione di Cicerone: “memini etiam quae nolo, oblivisci non possum quae volo16 (ricordo anche ciò che non voglio, e non posso dimenticare ciò che voglio).

Note

1 Un’acuta proposta sulla possibilità di una articolazione della contrattazione collettiva e della legislazione del lavoro in: Gruppo di esperti della DG V, coordinati da Alain Supiot – Rapport final, Juin, 1998 – presentato alla conferenza sul futuro del lavoro, del 19 Giugno 1998 a Madrid. Una sintesi in italiano del rapporto è disponibile sul sito dell’IPL: http://www.ipielle.emr.it/ita/ sotto la voce appuntamenti, passati, il 7/9/98, al punto 3 sotto la voce Rapporto.
2 Webb, S. e B., The History of Trade Unionism – edizione del 1911 – p. 62
3 ibidem, p. 78
4 ibidem, p. 281-282
5 Marshall; T. H., Cittadinanza e classe sociale – UTET, Torino, 1976, p. 36
6 Maranini, P., Introduzione a Marshall; T. H., op. cit. – p. XIII
7 si veda ad esempio: Sbordone, F., Giovani e lavoro. ricerca sui giovani della provincia di Reggio Emilia, rapporto di ricerca disponibile sul sito IPL http://www.ipielle. emr.it/ita/doc/Rapporto_IpL_Francesca.pdf
Garibaldo, F. ; Rebecchi, E., I giovani operai torinesi e il lavoro, rapporto di ricerca, mimeo disponibile presso la FIOM di Torino, 2002.
Bolognani, M.; Fuggetta, A.; Garibaldo, F., Le fabbriche invisibili. Struttura, sapere e conflitto nella produzione di software in Italia, Meta Edizioni, Roma, 2002.
8 Che vi sia un nesso tra necessità di produrre per il cliente e difficoltà a programmare i volumi di vendita e uso flessibile del tempo è anche dimostrato da uno studio tedesco recente a cura del Fraunhofer Institute for system and innovation research (Isi):
Lay G., Shapira P., Wengel J. (eds.), Innovation in production, Heidelberg, Physica Verlag, 1999.
Secondo questo studio la diffusione della flessibilità, nel senso della distribuzione dell’orario di lavoro come una funzione della quantità di lavoro da fare, è pari al 56% degli stabilimenti tedeschi nell’industria di beni di investimento, ma se si tenta di creare una tipologia delle imprese in base alla intensità del ricorso al tempo flessibile si evidenzia che quelle che non vi fanno quasi ricorso sono quelle con una produzione non legata alla necessità di personalizzare il prodotto e con un mercato prevedibile, pp. 82 – 86.
9 Bianchi P., Produzione e potere di mercato, Roma, Ediesse, 1991.
10 Sono debitore di una serie di considerazioni a Patrizio Bianchi, vedi opera citata per altre vedi il mio capitolo: “Total Quality: a political dilemma” del libro curato da G. Szèll European Labour Relations, Ashgate Publishing Limited, Aldershot, 2000.
11 La distinzione tra addizione interna ed addizione esterna riferita a delle unità di produzione risale a Georgescu, Roegen in Georgescu, Roegen N., The Entropy law and the economic process, Cambridge, Harvard University Press, 1971, pp. 107-110; se un processo è divisibile in due processi che sono di fatto (in vivo) connessi, allora ho una addizione interna, viceversa se due processi mantengono la loro separatezza, allora posso sommarli solo esternamente. Come vi si osserva, questa distinzione rende conto del perché il processo di una unità di produzione è diverso da quello di un industria: “Il punto è che una industria può espandersi per aggiunta (accretion) di processi di produzione non connessi [cioè per addizione esterna, nota mia], ma la crescita di una unità di produzione è il risultato di una cambiamento morfologico interno. Ne consegue che se le unità che sono aggiunte esternamente nella contabilità di una industria sono identiche, allora le variazioni delle variabili coinvolte, input e output, saranno guidate dalla proporzionalità. La costanza del ritorno di scala è quindi una proprietà tautologica delle industrie granulari.” pp. 108-109.
12 La descrizione più precisa e chiara rimane quella di Marx: i capitoli 11, 12 e 13 della quarta sezione del primo libro del Capitale.
13 Sui vantaggi comparativi tra produzione in linea ed in parallelo vedi Georgescu, Roegen, Op. Cit., pp. 236 – 238; rispetto all’osservazione delle ultime 13 righe di pag. 237 e delle prime di pag. 238, e cioè che la produzione in parallelo non offra quasi alcun vantaggio economico se non che in quanto siano in gioco “fattori fondi”, come ad esempio un forno, il punto da me sollevato, riprendendo Patrizio Bianchi, Op. Cit., e Cristiano Antonelli, (a cura di), The economics of information networks, North-Holland, Amsterdam, 1992, è che la tecnologia dell’informazione crea, nella terminologia, di Georgescu – Roegen, nuovi fattori fondi.
14 Il concetto di luogo di lavoro sostenibile viene descritto nell’ambito della preparazione della conferenza “La vita del lavoro nel 2000” (Working life 2000) sostenuta dal governo svedese come parte della sua presidenza della Unione Europea e organizzata dai seguenti organismi: National Institute for Working Life, National Board of Occupational Safety and Health, Joint Industrial Safety Council e National Labour Market Board. La conferenza ha avuto luogo dal 22 al 25 gennaio 2001 a Malmö, Svezia. La conferenza viene preparata da 70 seminari internazionali sui vari aspetti della moderna vita lavorativa. Il sindacato svedese TCO ha organizzato (8-10 maggio 2000) un seminario sul tema “Il luogo di lavoro sostenibile”. Una prima definizione emersa dal seminario è: inclusivo, rigenerativo, adattivo. http://www.niwl.se/wl2000
15 Garibaldo, F., Divisione del lavoro, reti d i impresa e flessibilità del lavoro: modelli alternativi, in Atti dei convegni dei Lincei, 172 – Tecnologia e Società – Roma, 2001, pp. 200-205
16 Cicerone, De finibus – II, XXXII