Paesi socialisti: un’analisi non subordinata al revisionismo storico

La questione è prima di tutto di metodo. Un discorso responsabile sui paesi socialisti, in particolare quelli dell’Est europeo, Unione Sovietica compresa, dissoltisi dieci anni fa, impone infatti, appunto prima di tutto, di considerare quale analisi e quale valutazione di essi si continua a fare e a dare nel nostro mondo capitalista, anche a livello dei nostri stessi partiti comunisti, i quali fra l’altro proseguono da come, già prima della loro scomparsa, quei paesi li ha visti e li ha giudicati il Pci, la sua dirigenza. Appunto quale metodo, se nel guardare ai rapporti fra gli uomini e fra questi e le cose – ovvero alla storia dal passato al futuro – il metodo con cui li si affronta è lo strumento della loro mistificazione o della loro demistificazione, della loro riconduzione o no a verità. Salvo che allora la questione del metodo, nel nostro caso, è davvero principale, perché parlare oggi in maniera vera dei paesi socialisti, vuole dire emanciparsi dalla subalternità infine ideologica che la stessa sinistra comunista ha conosciuto e conosce rispetto ai modi di rappresentarli dell’occidente dagli anni neocapitalisti della Guerra Fredda ai nostri neoliberisti, e però proprio anche per come al centro del suo anticomunismo questo Occidente ha messo e continua a mettere, in maniera mirata, l’antisovietismo. Si è trattato e si tratta infatti, per questo Occidente, di revisionare la storia del XX secolo dai paesi socialisti alternativamente segnata, ma appunto facendo uso del falso metodo di analisi e di valutazione che consiste nell’applicargli il modello capitalistico di vita e di organizzazione dei rapporti, ovvero nel partire da questo modello per rappresentare ogni loro momento di vita politica, civile, materiale, culturale, privata e pubblica, non secondo le forme che in maniera anche contradditoria ma comunque proprie si sono dati, bensì appunto secondo il modello capitalista, del resto proprio anche così assunto a punto di arrivo della storia finita.
In questo modo – ma questa è la strategia del revisionismo storico, ai paesi socialisti non viene riconosciuto alcun proprio dinamismo storico – passato e presente, per cui, per esempio, l’idea di libertà che gli si applica – ma per impedire di ragionare su quella da essi concepita e proposta – è quella scissa dalla prassi della libertà di ciascuno e di tutti, dell’ordine capitalista, da esso appunto data come modello senza alternativa. Naturalmente nel momento stesso in cui interfaccialmente l’idea e la prassi di democrazia come riconoscimento dei bisogni di tutti e di ciascuno in rapporto di uguaglianza, in quanto assenti nel capitalismo di ogni tempo fino all’attuale neoliberista, esse non vengono considerate come questioni attuali, ovvero vengono a loro volta ricondotte al metodo che nasconde le questioni di democrazia e libertà come al di là di ogni incompiutezza e insoddisfazione, i paesi socialisti hanno portato in maniera alternativa nel mondo. Per capirci, sono per esempio pensabili, spiegabili, nel mondo, le rivoluzioni nazionali e sociali dei popoli dei continenti fino alla seconda guerra mondiale colonizzati, e proprio con le questioni alternative di libertà e di democrazia, che magari anche senza risolverle pienamente, hanno però posto in una prospettiva storica sempre attiva, il socialismo così detto reale dopo quella seconda guerra mondiale divenuto nel mondo attore storico antagonista?
No; salvo dire che non è appunto una questione di metodo, nel senso che i paesi socialisti – quello che veramente sono stati comprese le loro contraddizioni fino al loro fallimento, o dunque quello che comunque hanno cambiato per sé e per la storia che ci riguarda –, si vedono e si capiscono, si valutano e si analizzano, a partire non da noi ma da loro, che vuol dire muoversi secondo il metodo contrario rispetto a quello della falsificazione, se il presupposto è infatti il riconoscimento della loro reale e non virtuale esistenza. Dove virtuale contro reale è il modo, che continua, di rappresentarli fuori dalla storia, o secondo quel revisionismo storico in base al quale, come già visto, la loro storia appunto virtuale, meno che mai oggi conterebbe. Invece conta, come ha contato, perché sono stati in tutti i sensi reali, se per esempio reale fu il fatto che in Unione Sovietica dal 1917 e negli altri paesi socialisti da quando ci sono stati, tutti avevano tutto, di lavoro come di scuola e sapere e di beni principali, materiali, sociali, intellettuali, fino a formare e diffondere un senso comune per cui la società e lo stato garantiscono ogni bisogno, ovvero servono alla pari i singoli e la collettività, non una parte di questa e una parte di quelli. Certo conta che quel di tutto che tutti avevano, era lo stretto necessario o ben poco oltre: ma alla base della vita di tutti c’era che tutto gli era riconosciuto come bisogno che crea diritto, compreso quello che la disumana concezione utilitaristica delle cose e degli uomini considera da noi superfluo: ossia c’era che il diritto di ogni uomo e dell’intiera collettività non è, rispetto al bisogno – ogni bisogno – un’astrazione.
Procedo per momenti ed episodi diversi di vita o di ruolo dei paesi socialisti nel mondo, per come li ho vissuti, conosciuti. Unione Sovietica e Ungheria in particolare. A cominciare dal mio campo, ma da prendersi come esemplare in generale, e cioè la musica. A cominciare in particolare dall’educazione, o meglio dire formazione musicale: che, scolasticamente parlando, nella scuola a indirizzo musicale che comunque comprendeva le materie di quella comune, di particolare aveva di non separare lo studio della musica dalla società, dalla collettività, se infatti fin dall’inizio, dai primi anni, era organico allo studio che gli studenti di strumento o di composizione o d’altro, si esercitassero in pubblico componendo o suonando come sapevano fare, così che esercitandosi fra la gente si educassero alla comunicazione, o si formassero l’idea che la musica è prima di tutto comunicare, agirla in rapporto con l’ascolto. Infine che non è studiarla per un lavoro da cominciare a studi conclusi nel chiuso della scuola, bensì è fin dall’inizio dello studio un lavoro che sta nella società, che si forma praticamente e mentalmente in questo rapporto. O in un rapporto di relazione sociale della musica che, proprio per come mette in interrelazione ascolto pubblico e studio, smitizza il lavoro musicale stesso, ovvero lo riconduce all’idea e alla prassi della musica che conta e opera musicalmente, culturalmente, formativamente, perché a qualunque livello anche tecnico sia sta nella società. Salvo che in questa dinamica culturale-sociale della musica, del suo stesso studio, c’è il riconoscimento del ruolo e dell’importanza che nella società, nella cultura collettiva, nella vita di ciascuno, ha l’amatorialità nel caso musicale: per cui infatti non solo in Urss c’erano migliaia e migliaia di Case di cultura distribuite in ogni città, cittadina, paese (solo a Budapest ce ne erano 60), dove educatori ad hoc insegnavano a donne e uomini di ogni età, dalla gioventù alla vecchiaia, anche la musica, che però questi amatori esercitavano in serate e manifestazioni organizzate anche in forma di scambi fra le Case di cultura di tutto il paese, così da costruire con il pubblico partecipante a questa trama di attività amatoriali, una vita musicale di grande portata per la costruzione di una cultura musicale collettiva. D’altra parte è anche a partire da questa vita musicale amatoriale ramificata in tutta la società – fra l’altro interconnessa con quella non meno estesa concertistica e operistica – che i mezzi di comunicazione sono stati nei paesi socialisti musicalmente di grande e insolita im- portanza, se per esempio il disco dal classico al contemporaneo, oltre che nei negozi a prezzi calmierati al basso, stavano nelle biblioteche per essere dati a prestito per farne copia (non vietata). Ossia una straordinaria promozione, in tutti i sensi, dell’ascolto, fino a quello dei mezzi di comunicazione come il disco o la radio e la televisione, e però con avanzati effetti e problemi infine sociali, che immediatamente hanno investito e riguardato questioni di ricerca tecnologica come di riproduzione, dunque non a caso venute avanti e affrontate nei paesi socialisti, in Urss per prima, dove appunto l’ascolto era questione sociale e non meramente di mercato industriale. E penso al Centro moscovita di ricerca sulla riproduzione discografica e radiotelevisiva della musica, che ha posto, al mondo, il problema della riproduzione acustica che ri- producesse il suono come all’origine acusticamente è configurato. Insomma la musica, non certo solo in Urss ma nei paesi socialisti in generale, riguardava tutti come bene e bisogno comune. E con effetti di avanzamento della sua prassi e della sua idea, assolutamente unico. Ma la domanda incalza: e i contenuti, e la libertà di comporla, eseguirla, consumarla senza limiti? La questione c’è stata ma in un contesto di contraddizioni mai trattate in Occidente se non nel mio libro La musica in Urss (1988), che non stavano soltanto nella diversità di linea e di posizioni fra Unione dei compositori e Ministero della cultura, perché soprattutto stavano nel fatto che in Urss per prima il sistema di produzione e diffusione della musica (e di formazione) era tutto pubblico ma non tutto statale. Istituzioni, attività, centri produttivi e di ricerca, Case di cultura e case editrici o discografiche, erano finanziate in gran parte da associazioni professionali, officine (le Kirov di Leningrado finanziavano l’omonima Casa di cultura e conseguente omonimo balletto) ed altro, con effetti significativi sull’autonomia del fare e comunicare musicali. Per cui in questa logica, ma con effetti agli stessi livelli di maggior chiusura, non solo a Mosca ma in un tipo di concerto presente in ogni città, Leningrado come Kiev, Tallin come Taskent, fra il 1975 e il 1980 si sono avuti in diverse sale pubbliche 69 nuovi lavori di ogni tendenza, anche la più avanzata fino all’elettroacustica, di compositori ricercatori e innovatori come Denisov, Artemiev, A. Martinov, Smirnov, Schnitke, la Gubajdulina, la Firsova e via elencando. Per non dire della musica nuova occidentale, anch’essa coinvolta in uno stato di cose musicali contradittorio per cui la sua presenza, estesa, coincideva con la sua assenza, altrettanto estesa. Se anche questo esserci o non esserci a seconda delle situazioni, riguardava appunto la contraddizione specifica dei paesi socialisti, per cui anche musicalmente si aveva, quantomai in Urss, un paese reale che andava straordinariamente avanti e un paese ufficiale che tirava indietro, salvo essere l’uno e l’altro figli della stessa società e dello stesso stato in essi infatti attivamente agendo, per cui la contraddizione era appunto specifica e anche, come poi s’è visto, esplosiva. Ma, per capire questa contraddizione, bisogna appunto esercitare il metodo gramsciano della verità e non quello capitalistico, occultatorio e revisionistico, della falsificazione. Ossia, per esempio ancora con la musica, il compositore, il musicista di ogni tipo e tendenza, aveva non solo lavoro garantito, ma – sempre la centralità della comunicazione –, attraverso tutti i mezzi: sala musicale, radio, televisione, disco, altro.
Solo stato sociale? Certo quei paesi furono degli stati sociali avanzati; ma concepire il lavoro (non solo) del musicista come lavoro che deve essere garantito a tutti i livelli sociali della comunicazione, non è solo stato sociale: è concezione e prassi democratiche del fare e pensare musicali, ovvero è momento del processo di costruzione della democrazia socialista. La quale è rimasta indietro rispetto alle sue stesse possibilità, ma quello che conta e oggi si deve fare per capire e ragionare, è individuare il reale stato delle cose, cioè dei rapporti, anche democraticamente parlando, dei paesi socialisti. Per cui appunto, altro esempio in altro campo, il fatto che il coniuge divorziato che lasciava la casa avesse in dotazione per diritto rispondente al suo bisogno un’altra casa, non era solo garanzia da stato sociale oculato e bene organizzato, ma era riconoscimento che la vita della persona non può e non deve dipendere in nessun suo momento dalla possibilità o meno della persona di farvi o meno fronte, ovvero dipende dalle regole antidemocratiche, antiumane, del mercato. Per dire che l’amico intellettuale di Budapest che si comprò una villetta a Pest con anticipo statale restituibile in 25 anni al 2%, trovava naturale questo trattamento, dicendomi che il suo lavoro non era mirato a guadagnare più del necessario ma a studiare e a produrre sapere nel suo campo, per cui era normale che lo Stato lo mettesse in condizione di comprarsi una casa continuando a lavorare in maniera socialmente utile: col che di nuovo mi sono trovato di fronte a una concezione democratica del (non solo proprio) lavoro (nel caso) intellettuale, ovvero a una del tutto relativa concezione dello stato, visto infatti come garante di quella democratica idea del lavoro, della sua prassi. Salvo che poi la contraddizione per così dire incalza, tutta propria del socialismo di quei paesi: ed è che a fronte di una tale situazione dei rapporti cittadino-stato-società, si aveva in quei paesi una diffusa indifferenza alla politica e alla storia in atto, nel mondo come in casa propria, che faceva pensare a un deficit di costruzione e attivazione della coscienza democratica nella società, che pure – ma dunque senza partecipazione o dialettica – ha ricevuto dallo stato tutto per tutti. Ma appunto, per cercare di capire, per arrivare a capire, bisogna partire dal loro ordine di rapporti, dal conseguente modo loro di vivere la questione democratica. Ancora, in termini di ruolo nel conflitto mondiale durante i cinquant’anni seguiti alla seconda guerra mondiale, per come l’ho conosciuto, vissuto, soprattutto in Africa. I paesi socialisti e l’ Urss in particolare dal 1917 sono stati l’alternativa storica, l’altra storia liberata/emancipata dall’imperialismo, la concreta possibilità di rompere il sistema e l’ordine dunque non immutabile di gerarchizzazione degli uomini, delle culture, dei popoli, dei rapporti di ogni tipo. Sono stati il concreto riconoscimento della storia non più centralizzata in Europa e nell’Occidente capitalista, ma fatta in pieno diritto da tutti i soggetti nazionali e popolari presenti nel mondo. Come tali – o a partire da questa base, da questo rivoluzionario ruolo base – Urss e paesi socialisti hanno costituito la possibilità reale per i movimenti e per le lotte di liberazione antiimperialista e anticolinialista nel mondo, di esserci, di agire; ovvero hanno rappresentato il riferimento politico e storico del loro antagonismo. Infine i singoli rapporti fra i paesi socialisti e in particolare Urss, e i nuovi stati e popoli usciti dal colonialismo, sottrattisi all’imperialismo: Cuba o Libia o Vietnam o Somalia o Sudan o Guinea Bissau o Alge ria e via elencando. Ma prima, sempre per non mistificare, oc corre capire che nel mondo in con flitto antimperialista tutti i popoli e paesi in rivoluzione, o comunque fossero ideologicamente connotati, hanno proceduto lungo la strada della nuova storia, lungo la rotta della loro emancipazione storica guardando all’Urss, ai paesi socialisti, come nella notte il navigante al timone, guarda in cielo, per stare appunto sulla giusta rotta, alla Croce del Sud o quella del Nord. Con le quali ovviamente non ci si identifica, ma che gli sono indispensabili per navigare in direzione appunto giusta. Ossia, di nuovo, a partire da questo ruolo di rottura e di annullamento del vecchio modo imperialista di concepire e fare la storia del mondo, di organizzare nel mondo i rapporti, si vedono così anche le contraddizioni, gli errori, quello che non è proceduto come doveva. Oggi, contro il revisionismo storico è indispensabile, per un vero antagonismo, analizzare e definire a tutti i livelli quello che i paesi socialisti han- no voluto dire, hanno contato in termini di pensiero e di prassi, ovvero in termini di riconcezione democratica dei rapporti fra gli uomini e questi e le cose, infine in termini di storia cambiata nel mondo in modo irreversibile, per cui proprio oggi, in fase mondiale di globalizzazione neoliberista, il loro passato non smette di appartenere al futuro, al movimento reale che nel mondo abolisce lo stato di cose presente.