Alla fine, la vicenda del governo si è chiusa con l’abbandono di Mastella, sommerso da una marea di avvisi di reato che hanno riguardato lui stesso e numerosi esponenti del suo partito. Leggere, tuttavia, questa crisi in termini esclusivamente penali o come reazione inconsulta di un ministro che, colpito dalla magistratura, punta ad affondare la barca in una sorta di impeto autodistruttivo – della serie: muoia Sansone con tutti i filistei – è francamente poco credibile. In realtà, la crisi del governo Prodi si consuma in un contesto nel quale l’insoddisfazione degli elettori si combina con la fibrillazione dell’alleanza di governo, minata – oltre che dalle divisioni politiche – dalle lacerazioni prodotte dalla proposta di legge elettorale avanzata da Veltroni, condivisa da Berlusconi e appoggiata, pur con qualche riserva, dal nostro partito.
Con la crisi di governo l’operazione “legge elettorale” va a picco, ma al di là della vicenda Mastella, come non riconoscere che quella operazione era in sé un assurdo? Come si poteva pensare di sostenere un modello che prevede l’azzeramento delle forze con meno del 5% e un forte vantaggio, fra quelle che restano in campo, a favore dei due partiti maggiori, senza mettere in conto la possibilità che saltasse l’alleanza di centro-sinistra? Poteva non verificarsi l’incidente Mastella, ma era difficile pensare che non vi sarebbero state conseguenze. Oltretutto, quella proposta aveva il sapore di un sopruso verso i piccoli partiti per consentire ai più grandi di distribuirsi le loro spoglie.
Vi è stato chi, anche in Rifondazione Comunista, ha tentato di giustificare l’operazione sostenendo che quel modello elettorale era in sé virtuoso, trattandosi di un sistema proporzionale che consentiva l’autonoma partecipazione alle elezioni dei singoli partiti, senza dover soggiacere alle logiche maggioritarie. Ciò è in parte vero, ma si dimentica che quel sistema era solo apparentemente proporzionale, in quanto conteneva forti elementi di dis-proporzionalità, in virtù dell’alta soglia di sbarramento e di un meccanismo che – come si è detto – dava un fortissimo vantaggio ai partiti maggiori. Scelte in sé molto discutibili e assai poco pertinenti in un paese, come l’Italia, dove una certa articolazione della rappresentanza costituisce un elemento iscritto nella sua storia istituzionale che non può essere di punto in bianco stravolta.
Il fatto clamoroso delle ultime ore è la presa di posizione del Presidente della Camera che rilancia la proposta del “governo istituzionale” per fare rapidamente la legge elettorale. La lezione subita non è stata, quindi, sufficiente. Bertinotti ritiene che bisogni andare avanti per portare a casa, a tutti i costi, il sistema elettorale prospettato nella “bozza Bianco”, anche partecipando ad un governo con Berlusconi. Non siamo all’incredibile? Come si fa a non capire che nell’elettorato di sinistra vi è ormai una tale delusione per le scelte del governo, per questi continui tatticismi sulla legge elettorale, queste spregiudicatezze nelle interlocuzioni politiche, da rendere indispensabile una svolta nelle pratiche e il ritorno a un’azione politica centrata sui “contenuti”? Come si può immaginare di poter reggere per sei mesi o un anno in un governo con la destra, senza subire una debacle nei consensi?
Si tratta di un’enorme ingenuità? Non credo. Vero è che per Bertinotti e per l’attuale maggioranza di Rifondazione Comunista la legge elettorale con un alto sbarramento è la condizione sine qua non per costruire il “partito unico” della sinistra radicale, o meglio per imporne la costruzione. Per raggiungere questo obiettivo, peraltro sempre meno credibile, si può ben correre il rischio di subire pesanti ripercussioni anche elettorali.
Ci si consenta, però, un’ultima osservazione. Se per realizzare un progetto politico si deve giungere al punto da mettere a rischio il soggetto che lo promuove, allora qualcosa non va. Ed, anzi, è lecito chiedersi se non sia proprio quel progetto che – a questo punto – debba essere abbandonato perché irrealistico e pericoloso.