Nuovo movimento di massa, crisi del centro sinistra e ruolo del Prc

Da mesi un movimento composito anima la società italiana. Dopo anni di tregua, la ripresa del conflitto sociale offre la possibilità di riavviare un processo di cambiamento in una società avvilita dalla vittoria delle destre e in presenza di una sinistra palesemente inadeguata. La nuova effervescenza sociale ha preso l’avvio dai fatti di Genova e si è poi accresciuta per effetto della straordinaria ripresa dell’iniziativa del mondo del lavoro, in particolare per merito della CGIL, senza contare il contributo venuto da forme inedite di mobilitazione, com’è stato il movimento dei “girotondi”, sorto in difesa di essenziali principi democratici.
In questo contesto, il Social forum europeo tenutosi di recente a Firenze rappresenta un fatto importante, rivelatore di alcune tendenze in atto. Innanzitutto si è trattato della riconferma della vitalità di un nuovo soggetto, che nell’ultima fase era passato in ombra di fronte all’iniziativa del movimento dei lavoratori. Pur se articolato, questo movimento ha una fisionomia ben marcata, rappresentando l’avvento sulla scena politica di una nuova generazione che, per comportamenti, atteggiamenti culturali e pratiche politiche, presenta caratteri inediti.
Si è discusso spesso sulla natura di questo movimento, discettando sulla sua maturità politica. A me pare che sia molto forte in esso una componente etica che è certamente legata, oltre che alla natura dei soggetti coinvolti, anche al loro retroterra culturale: l’essere cioè questo movimento il riflesso di una domanda politica inevasa, in presenza di nuove e stringenti contraddizioni (la crescente disuguaglianza, l’avvento della guerra, la fine di un qualsivoglia orizzonte di critica al capitalismo) e in assenza di una sinistra capace di proporre una vera alternativa di società.
In tal senso, questo movimento rappresenta la manifestazione di un processo di alfabetizzazione politica di una nuova generazione. A Firenze si è potuto cogliere che questo movimento scaturito da istanze in larga misura etiche dimostra anche una capacità di autoapprendimento. Non si tratta di un percorso lineare, né tantomeno compiuto. Il retroterra del pensiero unico ha lasciato tracce profonde nella coscienza individuale, in special modo in soggetti privi di memoria politica, rendendo complessa la decifrazione dei processi politici e sociali.
Il movimento non è estraneo a questi condizionamenti, ma è in atto un processo di politicizzazione che ne rafforza la vocazione alternativa. Il terreno più avanzato è quello dell’opposizione alla guerra. Il pronunciamento, a conclusione del Social forum di Firenze, contro l’attacco all’IRAQ “senza se e senza ma”, anche in presenza di un eventuale assenso dell’ONU, e l’indicazione come forma di lotta di uno sciopero generale europeo costituiscono fatti politicamente rilevanti, specie in quanto tali posizioni sono state assunte autonomamente, anche in difformità da quelle espresse da parti rilevanti della sinistra. Sul fronte più dichiaratamente sociale, la critica al neoliberismo continua ad essere il motivo dominante, ma è indubbio che a questo livello vi sia un’articolazione delle posizioni e se sul piano della denuncia dei processi in atto le critiche sono spesso radicali, sul piano dell’interpretazione e della proposta permangono differenze e anche ambiguità. Il dibattito, tuttavia, è ampio, privo di censure e la ricerca resta aperta.
Dal Social forum emergono anche altri elementi ai quali forse non è stata data una sufficiente rilevanza. Mi riferisco, in primo luogo, alla saldatura che, in particolare nella manifestazione finale, si è avuta fra movimento no global e lavoratori. Certamente, anche in precedenza questa vicinanza si era potuta percepire. A Genova la presenza della FIOM era stata un fatto importante, parti rilevanti del movimento no global avevano partecipato alla manifestazione di Roma della CGIL, nella manifestazione di S. Giovanni lavoratori e no global si erano trovati affiancati, ma Firenze rappresenta qualcosa di qualitativamente diverso perché la saldatura è stata significativa, oltre che per l’ampiezza delle forze coinvolte, anche per il comune riconoscimento, mai prima di ora così esplicito. Questo fatto è di straordinaria importanza e costituisce certamente una delle novità più interessanti emerse a Firenze. Esso sta ad indicare tre elementi ugualmente decisivi. Il primo è che la CGIL non viene meno alle scelte condotte nell’ultima fase, ma anzi tende ad assumere una connotazione più radicale, facendo proprio il tema dell’opposizione alla guerra e riconoscendo il movimento no global come interlocutore importante per una battaglia sociale. Il secondo è che quel processo di trasversalità che si era notato anche in altre occasioni diventa ora più evidente: le varie componenti di questa nuova effervescenza sociale si stanno progressivamente unificando. Infine, il terzo elemento degno di nota è che si stanno creando quelle condizioni di comunicazione necessarie a riqualificare la proposta programmatica, consentendo di superare i limiti di un’impostazione presente nel movimento no global fino ad ora largamente estranea al tema del lavoro e del conflitto di classe. Non si tratta di un processo lineare: tutt’altro. I diversi soggetti muovono da contraddizioni diverse, hanno diversi retroterra culturali, perfino nella priorità degli obiettivi si differenziano e, tuttavia, si riconoscono come portatori di una comune domanda di cambiamento. In qualche modo essi hanno chiaro da che parte stare, anche se i progetti non sono ancora omogenei. E, non a caso, comune è l’avversione al governo delle destre. Per questo, se non si può sostenere che a Firenze sia nata una piattaforma dell’opposizione, si può in ogni caso ritenere che se ne siano create alcune premesse essenziali.

Il centro sinistra tra pulsioni moderate e suggestioni dei movimenti

Mettendo a confronto quanto sta avvenendo a livello sociale e ciò che si muove nello schieramento progressista balza agli occhi la grande distanza fra domanda sociale e capacità di risposta politica. A tal riguardo è utile analizzare l’atteggiamento del centro-sinistra nei confronti delle nuove dinamiche sociali.
La rilevanza che stanno acquistando i movimenti non è priva di conseguenze sui comportamenti politici. Di fronte a movimenti di massa che vedono coinvolti milioni di persone, le forze politiche sono sollecitate a cercare connessioni, anche per l’ovvia esigenza di non rimanere isolate o perdere consensi. A Firenze, non a caso, la sinistra moderata era ben presente. Se si pensa ai comportamenti tenuti a Genova dai DS, che alla fine si eclissarono, è evidente la differenza. Questa volta a Firenze i DS, ma non solo, erano presenti in forze, senza contare il peso non irrilevante assunto dagli amministratori locali. Martini e Domenici hanno avuto oggettivamente un ruolo di punta e una forte visibilità, poiché sono assurti al ruolo di garanti della riuscita del forum. Ciò vale anche per altre mobilitazioni tenutesi in precedenza. In occasione delle iniziative della CGIL, nonostante distinguo e talvolta polemiche, i DS avevano partecipato in forze alle manifestazioni e non solo in quanto iscritti alla CGIL. Assistiamo, insomma, ad un tentativo esplicito da parte delle forze del centro sinistra, e segnatamente dei DS, di costruire relazioni con i movimenti in campo. Lo stesso Fassino ha puntato a svolgere nel suo partito la funzione di pontiere rispetto ai movimenti, benché spesso freddato dalle incursioni di D’Alema.
Questa strategia di ascolto ha ottenuto alcuni successi anche in ragione dei connotati dei movimenti in campo, in cui a posizioni più avanzate fanno riscontro sensibilità moderate, che hanno una legittimazione in virtù degli elementi d’insufficienza programmatica e di debolezza politica richiamati in precedenza. In ogni caso, questa relazione del centro sinistra con i movimenti è densa di contraddizioni, in quanto, accostandosi al conflitto sociale, il centro sinistra è sollecitato a rimettere in discussione l’ispirazione di fondo della sua strategia politica, quel neoliberismo temperato che ha caratterizzato la sua esperienza di governo. D’altro canto, quest’orientamento di fondo è il riferimento obbligato per comporre gli interessi contraddittori e le diverse ispirazioni politiche presenti in una coalizione eterogenea. Di qui il moltiplicarsi di atteggiamenti contraddittori che accrescono le tensioni interne. Non è un caso che nella vicenda dell’invio del contingente di alpini in Afganistan le contraddizioni siano esplose, rilevando la difficoltà, alla prova dei fatti, ad abbandonare alcuni cardini dell’impostazione politica precedente, come nel caso dell’atlantismo.
Ma non si tratta dell’unico caso. Si pensi alla stessa battaglia del centro sinistra contro l’impostazione della politica economica del governo. Al di là della denuncia sacrosanta delle iniquità della manovra prevista nella finanziaria, la filosofia di fondo è sempre rimasta quella della buona amministrazione in un quadro di rigore, in ossequio all’impostazione monetarista dei trattati di Maastricht. La polemica sul blocco delle tariffe muoveva da qui, l’offensiva contro Tremonti lo stesso. Analogamente, nel caso della crisi FIAT, il rifiuto pregiudiziale dell’intervento dello stato nel capitale aziendale muove da un orizzonte di politica industriale che, differenziandosi dalle proposte dello stesso sindacato, assegna al pubblico la funzione di garante degli ammortizzatori sociali e del sostegno finanziario indiretto all’impresa, scontando l’attribuzione all’azienda di ogni prerogativa in tema di strategia di sviluppo.
Quello che è certo è che questa situazione contraddittoria in cui versa l’Ulivo, attratto, da un lato, dall’esplodere della protesta sociale e, dall’altro, dall’esigenza di preservare i vincoli di compatibilità interna della coalizione, determina una situazione politica altamente instabile, rispetto alla quale le risposte tendono a divaricarsi, delineando due tendenze. Da un lato, una propensione “neocentrista” che, facendo salva l’impostazione originaria del centro sinistra, considera essenziale riconquistare la fiducia di quelle parti del centro che si erano schierate a suo tempo con la destra e che oggi si dimostrano insoddisfatte. Tale propensione, peraltro, tende ad affermarsi non solo in virtù dei timori di mettere a repentaglio l’unità della coalizione, ma anche come risposta ad una situazione di difficoltà del governo che viene spesso sopravvalutata, al punto da vagheggiare crisi imminenti e prospettare ipotesi di governi istituzionali. In questa visione la conflittualità sociale può essere positiva solo nella misura in cui non pregiudica la strategia di allargamento al centro della coalizione, benché paradossalmente, in ultima istanza, è a questa stessa ripresa della conflittualità sociale che si deve la crisi che si è aperta nel fronte avversario. Dall’altro lato, una propensione riformista, che ha in Cofferati il principale esponente, che punta a rilanciare l’Ulivo facendogli assumere un profilo programmatico più avanzato e innervandolo del contributo decisivo dei movimenti. Quest’ultima posizione si regge, in larga misura, sulla nuova collocazione della CGIL, gode dell’appoggio della minoranza DS ed esercita, senza dubbio, un fascino in settori consistenti dei movimenti.
Le differenze fra queste due impostazioni sono evidenti, ma vi è fra esse un punto in comune e cioè l’esigenza di preservare in ogni caso il quadro di alleanze date.
Sotto questo profilo, entrambe queste impostazioni si scontrano con difficoltà crescenti: nell’un caso perché non si tiene in debito conto l’emergere di una domanda sociale che fuoriesce dall’orizzonte di neoliberismo temperato, nell’altro perché non si considerano le rotture che uno spostamento a sinistra dell’Ulivo è destinato a produrre nelle componenti di centro. Questa situazione di accentuata instabilità può avere sbocchi diversi. E certamente molto dipenderà dall’evoluzione della situazione, rispetto alla quale almeno su due questioni le contraddizioni sono destinate ad accentuarsi.

La prima discriminante: rifiuto della guerra

Il primo nodo è rappresentato dalla questione della guerra. È del tutto evidente che l’approvazione della risoluzione dell’ONU sull’invio degli ispettori e la seguente accettazione da parte del governo iracheno se scongiura nell’immediato il conflitto, non ne esclude tuttavia la possibilità futura. A tale riguardo gli elementi di pericolosità persistono e per alcuni versi si sono addirittura accentuati.
In primo luogo la stessa risoluzione, pur prevedendo la non automaticità del ricorso alle armi in caso di violazione della stessa, nondimeno pone tali e tante imposizioni all’IRAQ da rendere l’intervento degli ispettori non solo un’interferenza pesantissima negli affari interni di un paese, ma anche una eccellente occasione per alimentare provocazioni nel tentativo di precostituire il casus belli. In secondo luogo, il successo personale ottenuto da Bush nelle recenti elezioni americane, per molti versi storico, gli dà un’ampia possibilità di azione, indebolendo il fronte dell’opposizione alla guerra negli Stati Uniti. Inoltre, se è vero che alcuni paesi hanno dimostrato una certa fermezza nei confronti dei pruriti guerrafondai dell’amministrazione americana, nondimeno lo stesso esito della mediazione finale costituisce pur sempre un indicatore dei rapporti di forza presenti attualmente sulla scena mondiale, che certamente continuano ad essere favorevoli agli Stati Uniti.
La guerra quindi non è scongiurata, tutt’altro.
È peraltro evidente che, se questa dovesse prodursi e risolversi prevedibilmente con l’ennesima creazione di un protettorato americano in una nuova zona del mondo, gli effetti sarebbero drammatici. Non solo infatti, data la natura del conflitto, i costi in vite umane potrebbero essere rilevantissimi fra la stessa popolazione civile irachena, ma sarebbero imprevedibili gli effetti destabilizzanti a livello internazionale, in primo luogo per effetto della fortissima sollecitazione che ne ricaverebbe il terrorismo islamico, a maggior ragione in presenza di un quadro internazionale in cui all’attacco all’IRAQ fa da contrappunto l’accanimento del governo Sharon contro i palestinesi.
Più in generale, l’esito di un tale conflitto accentuerebbe il peso militare americano, la sua supremazia politica, indebolirebbe le spinte all’autonomia che si sono manifestate in alcuni paesi e rappresenterebbe l’ennesima gelata in un continente come il Sud America dove i recenti processi politici – non ultima l’affermazione nelle presidenziali del Brasile di Lula – hanno creato alcune condizioni favorevoli alla sottrazione dai pesanti condizionamenti del capitalismo nord americano.
Per queste ragioni la lotta per la pace, contro l’aggressione americana dell’IRAQ, rappresenta oggi il compito fondamentale della sinistra europea. Dal movimento no global viene un segnale importante, così come dalla CGIL e dalle organizzazioni sindacali extra confederali. Può in questa situazione una sinistra di opposizione, che peraltro nel proprio paese deve scontrarsi con un governo che ha fatto del rapporto privilegiato con l’amministrazione americana il punto forte della propria politica internazionale, abdicare al proprio ruolo? Va da sé che il vincolo posto dalla maggioranza DS all’accettabilità del conflitto, e cioè l’assenso dell’ONU, non ha a tale proposito alcuna validità. Se tale assenso vi fosse, esso si qualificherebbe, con ogni probabilità, come un atto di sottomissione dei principali paesi alla supremazia americana. L’accettazione di una tale prospettiva significherebbe nient’altro che sancire la rinuncia ad un percorso di emancipazione dell’Europa dall’influenza degli Stati Uniti oltre che, ovviamente, l’ennesima liquidazione delle ragioni della sinistra.

Questioni sociali e conflitto capitale – lavoro

Il secondo nodo è rappresentato, ovviamente, dallo scontro sociale in atto nel paese e dagli effetti che questo produce negli orientamenti politici e nei rapporti di forza. In generale, è evidente la difficoltà del governo a reggere l’urto del conflitto e il disarticolarsi della sua area di consenso sociale. Nei suoi propositi la coalizione di destra mirava ad attuare una svolta marcatamente liberista (poggiata sulla riduzione della pressione fiscale sulle fasce medio alte, sul ridimensionamento del welfare, sulla flessibilità spinta del mercato del lavoro), contenendo nel contempo la protesta sociale e allargando la propria base di consenso attraverso la corporativizzazione degli interessi ( le concessioni ad una parte del sindacato, la liquidazione della contrattazione collettiva, la frammentazione istituzionale) e le pratiche populiste (la riduzione dell’IRPEF alle fasce meno abbienti, l’elevamento delle pensioni minime, i finanziamenti alle famiglie, ecc.).
Questo disegno, non privo di ambizioni, si è scontrato con evidenti difficoltà di natura finanziaria, ma anche con una reazione di massa in cui l’opposizione alla liquidazione dei diritti e all’emarginazione del sindacato come essenziale soggetto di rappresentanza si è fusa con una protesta più generale contro la restrizione della democrazia prodotta dagli interventi spregiudicati in tema di giustizia e la riduzione sistematica del pluralismo nel campo dell’informazione. La battaglia contro la finanziaria acquista, da questo punto di vista, un valore paradigmatico. Per molti versi essa riflette la crisi di quel disegno strategico e, in particolare, evidenzia l’estrema difficoltà che le destre incontrano a neutralizzare la protesta sociale. Nella vicenda della finanziaria, nel susseguirsi di ritocchi e modifiche, nel riaprirsi e ricomporsi di fratture all’interno della stessa maggioranza, nel susseguirsi di crisi e ricomposizioni nelle relazioni con i principali soggetti sociali, si consuma la crisi di una linea di politica economica e con essa la credibilità di questa coalizione di governo.
Parallelamente, sull’onda della protesta dei lavoratori cresce nel paese una spinta a sinistra che già si era intravista in occasione delle ultime elezioni amministrative. La trasversalità della protesta sociale, il suo saldarsi intorno al rifiuto del governo delle destre, sono altrettanti segnali dell’incrinarsi di una egemonia conservatrice nel corpo vivo della società. E tuttavia questa situazione, per alcuni versi assai promettente, non è priva di pericoli. In primo luogo perché le rotture che si sono aperte nel fronte governativo sono in via di ricomposizione. Il padronato si dimostra soddisfatto delle correzioni in tema di tributi e agevolazioni alle imprese, le componenti di centro dello schieramento governativo accampano il merito di aver modificato in senso meridionalista l’orientamento della finanziaria e la Lega si appaga dell’avvio del percorso legislativo sulla “devolution”. In secondo luogo perché non risulta evidente uno scollamento significativo fra governo e i settori sindacali che avevano sottoscritto il “patto per l’Italia”. CISL e UIL hanno più volte polemizzato con le scelte del governo, ma appaiono molto riluttanti ad abbandonare la politica concertativa, e se sulla vicenda FIAT vi sono convergenze con la CGIL ( ma avrebbe potuto essere diversamente?), sul contratto dei metalmeccanici la rottura è evidente. In terzo luogo, perché la capacità d’incidenza dell’opposizione resta in ogni caso limitata. La manovra, infatti, procede nel suo iter parlamentare senza subire modifiche rilevanti.
La vicenda della sanità resta grave; i tagli alle risorse e i vincoli che vengono a gravare sul sistema delle autonomie locali costituiscono una minaccia per la coesione sociale e vengono ad intaccare le basi istituzionali della presenza dell’opposizione; al di là della propaganda, il problema del Mezzogiorno resta macroscopico.
Nel frattempo restano aperte questioni essenziali rimandate a leggi delega che pesano come una spada di Damocle: si pensi alle misure annunciate sul mercato del lavoro e alle reiterate minacce in tema di pensioni. Inoltre, sul piano legislativo prosegue l’offensiva conservatrice con l’approvazione della riforma Moratti e con l’avvio dell’iter del provvedimento sulla devolution. Pur nella evidente crisi di credibilità in cui versa il governo, la pressione antipopolare non accenna, quindi, a ridursi. Ciò pone dei problemi rilevanti alle forze dell’opposizione, chiamate ad un’impegno superiore e ad una capacità di mobilitazione più ampia.
L’ambito entro cui condurre una battaglia di opposizione è quindi molto vasto, anche se è indiscutibile che gli appuntamenti che ci stanno di fronte evidenzino la centralità che la lotta dei lavoratori è destinata ad assumere. Da subito si pone, infatti, la questione dell’esito della vicenda FIAT, seguirà la partita dei contratti e, infine, l’articolo 18 e il referendum. È evidente che su questi terreni si gioca in gran parte il ruolo della CGIL, rispetto alla quale è essenziale che si consolidino gli attuali orientamenti e non riappaiano tentazioni concertative, ma si gioca anche il ruolo delle forze del centro sinistra. Ma anche qui, come nel caso della guerra, le ambiguità sono state evidenti. La vicenda dell’articolo 18, è inutile ricordarlo, ha messo a dura prova la relazione del centro sinistra ( e degli stessi DS) con la CGIL. L’attuale posizione del centro sinistra sulla FIAT continua ad essere dissonante rispetto alle posizioni della FIOM, sui contratti la divaricazione fra le confederazioni sindacali ripropone la questione dirimente della collocazione dell’Ulivo rispetto a scelte decisive in merito alle condizioni dei lavoratori. La questione del lavoro diventerà quindi, volente o nolente, nei prossimi mesi l’altro grande banco di prova per le forze del centro sinistra. Difficilmente su questi temi sarà possibile praticare l’equilibrismo dei mesi scorsi. L’accentuazione dello scontro sociale, in presenza di una fase recessiva, in concomitanza con uno scontro politico col governo che è destinato ad accrescersi, solleciterà prese di posizione inequivocabili, e non è detto che il centro sinistra sarà in grado di assumerle.

La questione della sinistra di alternativa

La situazione generale si presenta quindi densa d’incognite, ma anche ricca di potenzialità. Tali potenzialità risiedono, in larga misura, nella crescita di un conflitto sociale che tende a travalicare i limiti del neoliberismo e delle logiche di concertazione. I limiti stanno invece nella inadeguatezza del centro sinistra, nelle sue continue oscillazioni, nei vincoli intrinseci di uno schieramento composito, nei limiti stessi della cultura politica di una parte rilevante della sinistra.È difficile poter pensare che da tali contraddizioni se ne possa uscire in modo piano e lineare. Nè, come si è sottolineato in precedenza, è facile ipotizzare sbocchi politici. È del tutto evidente che per molti versi la partita si gioca nei DS, la forza che più di ogni altra è esposta a tali contraddizioni, fino al punto di rischiare lacerazioni irreversibili. Ma non vi è dubbio che lo stesso movimento di massa, in assenza di validi interlocutori sul piano politico, rischia la sua stessa sopravvivenza o, quantomeno, la possibilità di una sua tenuta come soggetto unitario.
Nasce da questi problemi irrisolti, nella drammaticità della situazione politica e sociale in cui versa il paese, il quesito sul ruolo che può e deve svolgere in questa fase Rifondazione Comunista. Sorge qui un primo interrogativo circa la sufficienza della stessa Rifondazione Comunista come soggetto in grado di condizionare l’evoluzione dei processi, di svolgere cioè una funzione determinante e non puramente marginale nella situazione odierna.
Si tratta di un quesito pertinente da cui muove, come possibile risposta, la proposta della “sinistra di alternativa”. Sarebbe ben difficile disconoscere che vi è la necessità di un riequilibrio di forze a sinistra, giacché l’attuale preponderanza della sinistra moderata costituisce uno dei vincoli al dispiegarsi di una prospettiva di cambiamento. Il punto, tuttavia, è capire chi e come può dar vita a una nuova soggettività senza pregiudicare quella ricerca sulla rifondazione di un pensiero comunista che costituisce l’essenza di questo partito. Da tempo in Rifondazione Comunista si discute di questi temi, qualificando di volta in volta le proposte in modo diverso. Per una fase, in assenza d’interlocutori esterni, ed anzi nel tentativo di farli emergere, si è ipotizzato una sorta di trascendimento dell’esperienza del partito per approdare ad un nuovo soggetto politico. In seguito, in occasione dell’ultimo congresso, si è ritenuto che il movimento no global, con la sua alterità rispetto alle forme classiche della politica (e la sua sostanziale estraneità alla sinistra tradizionale) potesse essere l’incubatore di un campo di forze di sinistra alternativa. Ora, più ragionevolmente, si parla di un campo di alleanze non esclusivamente confinate a soggetti politici, prodotte sia dalle dinamiche di movimento che dall’evoluzione del confronto nelle stesse forze della sinistra moderata e il richiamo all’esperienza di Izquierda Unida sembra essere (almeno momentaneamente) scemato.
E tuttavia, in questa traslazione d’interpretazioni, la stessa natura di questa nuova soggettività politica tende a mutare, divenendo via via da “condizione del cambiamento” a “esito dello stesso”. Quello che, infatti, tende a sfumare è la premessa da cui muoveva questa intuizione e, in altre parole, la necessità di una nuova soggettività come conditio sine qua non per intervenire nella crisi della sinistra. L’assenza d’interlocutori disponibili e lo stesso precipitare del conflitto sociale e delle divaricazioni all’interno della sinistra moderata, peraltro, tendono a rimettere in discussione questa premessa e inducono a ritenere che, molto più probabilmente, la sinistra di alternativa se sarà nascerà dal precipitare delle contraddizioni (e quindi nel fuoco di un processo di ridislocazione delle forze in campo) anziché esserne il motore.
Il punto è che questo ribaltamento della prospettiva implica una responsabilità del tutto nuova per Rifondazione Comunista, il cui ruolo nella costruzione della sinistra di alternativa non è più solo quello di concorrere con le proprie forze alla sua costituzione , ma quella di disegnare una prospettiva strategica di cambiamento entro cui possa ricomporsi un nuovo schieramento dichiaratamente antiliberista. Che questo schieramento rappresenti una possibilità è peraltro avvertibile alla luce di alcune dinamiche in atto. Ciò vale per l’evoluzione in corso nel movimento no global, per la radicalizzazione delle posizioni assunte dalla CGIL, per la disarticolazione in atto nei DS. Non è chiaro, tuttavia, se queste dinamiche evolveranno verso la prospettiva indicata oppure se questi processi subiranno un’arresto o un’involuzione per effetto, sia dei riflessi di un riallineamento del centro sinistra su posizioni neocentriste, sia per il riassorbimento delle spinte più radicali all’interno di un orizzonte di riformismo moderato.

I nuovi compiti di Rifondazione Comunista

È del tutto evidente che in questa situazione su Rifondazione Comunista vengono a pesare grandi responsabilità. La nuova fase impone un aggiornamento di linea ed anche una maggiore capacità d’iniziativa. Il primo nodo decisivo è rappresentato dalla necessità del riconoscimento del ruolo specifico che il partito deve svolgere in questa fase. A sua volta, tale riconoscimento implica una consapevolezza circa le potenzialità e i limiti dell’evoluzione dei movimenti. Per quanto ribadito in precedenza, dovrebbe essere chiaro che il movimento di massa, nonostante i segnali evidenti di crescita, denuncia ancora due limiti: il primo è un’incompiuta unificazione e il secondo è un orizzonte politico programmatico che pur evidenziando una crescente critica al liberismo e una sempre maggiore distanza dalla sua versione temperata, nondimeno conserva tratti di ambiguità e presenta vuoti di elaborazione sui quali può incidere una proposta politica moderata. È evidente che se il movimento di massa ripiegasse su una simile prospettiva, verrebbero meno molte potenzialità iscritte nella nuova fase. Il primo compito è quindi quello di delineare una prospettiva per il movimento che favorisca la crescita di una piattaforma esplicitamente antiliberista. L’assunzione di questa responsabilità inevitabilmente costringe a rimettere in discussione una pratica che, dietro all’equivoco dell’”internità” ai movimenti, si è manifestata nel corso di questi mesi favorendo, da un lato, la mitizzazione acritica del movimento no global e traducendosi, talvolta, in scelte codiste rispetto a posizioni perlomeno discutibili. Ciò che si rende necessario nella fase attuale è, invece, una pratica autenticamente unitaria, rispettosa della disciplina del movimento, ma anche un impegno positivo per far maturare una maggiore capacità di proposta e allargare l’iniziativa di lotta.
Il secondo terreno essenziale è quello dell’impegno per l’unità del movimento di massa, in primo luogo rafforzando la connessione che si è realizzata a Firenze fra lavoratori e mondo no global. Anche qui, senza semplificazioni, perché se è vero che i due mondi s’intersecano, per esempio nelle nuove figure della produzione, è pur tuttavia altrettanto vero che, per culture politiche, obiettivi e pratiche, essi si presentano come realtà diverse, seppure ora comunicanti. Questa connessione è essenziale per immettere nell’orizzonte del movimento no global il tema del conflitto capitale-lavoro e anche per recuperare un retroterra politico-culturale che, per molti versi, è oggi più facilmente acquisibile attraverso l’interlocuzione con il mondo del lavoro. Ma questo impegno per l’unità del movimento implica anche il superamento di una visione insieme parziale e assolutizzante delle dinamiche sociali che ha contraddistinto il dibattito interno, tutto ripiegato sulla centralità del “movimento dei movimenti” e poco attento, almeno per una fase, alla rilevanza assunta dalla ripresa del conflitto sui luoghi di lavoro, terreno che deve essere recuperato rapidamente anche in relazione ai prossimi appuntamenti.
Da una lettura attenta del movimento di massa viene anche un’altra sollecitazione, sottolineata dallo stesso Bertinotti nella recente riunione del Comitato Politico Nazionale di Rifondazione Comunista, e cioè quella della unità delle forze di opposizione. Si tratta, per molti versi, di una domanda spontanea, che non tiene conto delle differenze obiettive che esistono fra Ulivo e Rifondazione Comunista, e che tuttavia muove da una percezione diffusa circa la sproporzione esistente fra domanda di cambiamento e consistenza dello schieramento politico in grado di assumere tale domanda. Questa richiesta attraversa oggi l’insieme del movimento di massa e fa da contraltare all’avversione nei confronti del governo Berlusconi. Lo si è colto nel movimento dei girotondi, nelle stesse lotte operaie e, perfino, nel Social forum di Firenze. Rispondere a tale domanda è per molti versi una condizione per poter continuare a svolgere una funzione positiva nello stesso movimento.
Infine, di fronte ai mutamenti in atto nell’Ulivo, alla ridislocazione di forze su una prospettiva più avanzata, all’offensiva di Cofferati e agli interrogativi che pervadono parti rilevanti dei DS, sempre più a disagio di fronte alle propensioni neocentriste di D’Alema e Rutelli, occorre prendere atto che una politica di convergenze unitarie è necessaria. Tale convergenza non si traduce oggi in operazioni organizzative ma nella condivisione di alcuni obiettivi essenziali, si pensi al rifiuto della guerra, alla lotta contro la manomissione dell’articolo 18, alla difesa della piattaforma della FIOM, ad una soluzione della crisi della FIAT che comporti il rilancio della funzione strategica del settore auto in Italia, attraverso un nuovo ruolo dello stato. Gli interlocutori sono in larga misura dati e vanno dalla sinistra DS, alle componenti sindacali più avanzate, ai settori no global più consapevoli.
L’assunzione di questi orientamenti può contribuire a rafforzare il movimento di massa, a costruire una piattaforma avanzata, a far crescere le componenti più dichiaratamente antiliberiste presenti nell’Ulivo, a favorire una positiva articolazione delle posizioni, a dilatare l’area di alleanze intorno a Rifondazione Comunista sulla base di convergenze programmatiche significative, ma non esaurisce la funzione che deve essere assunta in questa fase dal partito.
In realtà, oggi Rifondazione Comunista è chiamata, su un ampio spettro di questioni, ad aprire un’offensiva per modificare orientamenti diffusi, per far crescere posizioni limpidamente antiliberiste e contrastare quel liberismo moderato che continua a contrassegnare le scelte dell’Ulivo. Il campo di azione è quantomai ampio. Si pensi, nel caso della guerra, alla necessità di far crescere una consapevolezza circa l’esigenza non più rinviabile di contenere l’aggressività degli Stati uniti e di recuperare una compiuta autonomia dei paesi europei. Si pensi, sul fronte delle politiche sociali, all’esigenza di coniugare difesa del welfare con la riqualificazione delle funzioni pubbliche, superando la deriva privatistica che ha contrassegnato gran parte della sinistra europea, spesso celatasi dietro formulazioni ambigue (come nel caso del “welfare allargato”). Si pensi alla necessità di fuoriuscire dalla recessione mettendo fine ad indirizzi di politica monetaristi, espressi dal patto di stabilità, rilanciando una spesa pubblica selezionata e qualificata. Si pensi alla riscoperta dei diritti del lavoro in antitesi alla celebrazione del mito della flessibilità, spesso spacciato per nuova opportunità. Si pensi all’esigenza di contrastare la vulgata presidenzialista e maggioritaria che ha svilito il ruolo delle assemblee elettive, e di superare una concezione bipolare che ha imprigionato il conflitto sociale. Si pensi, ancora, alla necessità di coniugare democrazia diretta e giustizia sociale, fuoriuscendo da impostazioni che delle forme partecipative esaltano l’elemento concertativo anziché l’espressione di una domanda sociale inevasa.
Come si vede, non sono i temi che mancano, né gli spazi per ottenere larghi consensi.
Peraltro, i vuoti lasciati dalla sinistra moderata sono ampi, e perfino le posizioni più avanzate, per quanto sotto molti profili meritevoli di attenzione, su molte questioni presentano contraddizioni. Rifondazione Comunista può svolgere un ruolo importante. Dalla sua ha una domanda sociale impetuosa e l’obiettiva necessità di un cambiamento.