Nulla è più come prima

Dopo Genova nulla è come prima. A questa frase se ne è aggiunta un’altra, assai più minacciosa. Dopo l’attacco terroristico negli USA nulla è più come prima, e soffiano gelidi venti di guerra.
Tra queste due affermazioni, entrambe dense di significato, si gioca la sorte del movimento antiglobalizzazione.
È un passaggio drammatico ma obbligato che dobbiamo sapere affrontare con coraggio e senso di responsabilità. In questo nuovo quadro rimpiccioliscono alcuni dibattiti estivi, francamente del tutto inutili, che si sono soffermati prevalentemente sulla gestione dell’autodifesa dei cortei di Genova. In alcuni casi questo dibattito, in sè di assai semplice soluzione, ha fornito argomento per contrapposizioni del tutto spropositate e gonfiate rispetto alla realtà.
È necessario perciò riportare la riflessione, almeno così io credo, su temi più di fondo. Il primo dei quali riguarda il giudizio sulla natura del movimento antiglobalizzazione. Infatti il rapporto che deve intercorrere tra il PRC e il movimento dipende dal giudizio che si da di questo movimento e non può essere definito in base a canoni astratti.
Questo movimento è molteplice, le figure sociali che lo animano sono variegate, anzi esso raggiunge i suoi punti di massima espressione proprio quando maggiore è il ventaglio dei soggetti sociali che in esso operano.
Si può dire che la prima caratteristica di questo movimento, che indubbiamente è il primo del nuovo secolo, sia rappresentata dalla molteplicità delle figure che lo animano. In questo vi è una differenza significativa con l’ultimo movimento mondiale del ‘900, quello del ‘68-’69, che, almeno nei paesi capitalisticamente sviluppati, si incentrava sulle due figure sociali dell’operaio comune di serie e dello studente di massa.
Nell’attuale movimento antiglobalizzazione siamo invece di fronte ad una varietà di soggetti sociali che si riconoscono reciprocamente fra loro e così riescono a stare insieme. In questo modo i contadini dell’America latina si trovano insieme a operai sindacalizzati del mondo industrializzato, come i produttori agricoli di prodotti tipici dell’Europa sfilano assieme agli ambientalisti più accesi, così i precari, i disoccupati, gli invisibili del mondo del lavoro si uniscono alle forze intellettuali che rifiutano il pensiero unico.
Tutte queste diversità sono unite dall’individuazione di un comune nemico, gli organi del governo della globalizzazione capitalistica, cioè il WTO, il FMI, la Banca mondiale o il G8. Questa unificazione si è resa evidente nei numerosi appuntamenti di lotta che hanno caratterizzato il movimento tra Seattle e Genova, percorrendo tutto il mondo. Naturalmente non si trattava di un percorso lineare in continua crescita. Non sempre l’ampiezza dello schieramento è stata interamente rappresentata. In questo senso Genova ha costituito un punto di eccellenza, poichè, come a Seattle, e in un contesto completamente diverso, si è rivista una presenza massiccia di parti rilevanti del mondo sindacale.
Ma forse vi è una ragione più di fondo che rende possibile il riconoscimento reciproco tra le varie figure del movimento e la loro unificazione. Questa ragione va trovata nelle stesse conseguenze di quel gigantesco processo di modernizzazione e di globalizzazione, che giustamente abbiamo definito come una rivoluzione capitalistica per sottolineare l’ampiezza e la profondità dei cambiamenti intervenuti. Mi riferisco in particolare al fatto che il comando capitalistico sulla totalità del tempo a disposizione della vita umana rende molteplice l’alienazione dei soggetti. Non più solo all’interno del processo produttivo strettamente inteso, ma ben al di là di esso e dei suoi incerti confini.
Capovolgendo la definizione di Jeremy Rifkin, siamo infatti di fronte a una società del lavoro senza fine, nella quale i confini tra il tempo di lavoro socialmente necessario e quello indispensabile per la riproduzione della forza lavoro, sono completamente valicati dalla pervasività del comando capitalistico in ogni ambito della vita umana. Oggi il capitalismo esprime non solo una forza di produzione, ma, in modo più accentuato e qualitativamente diverso che nel passato, una forza di consumo e di visione.
Anche in questi due ambiti, cioè quello del consumo materiale e immateriale, la persona è soggetta ad un’alienazione e ad uno sfruttamento, nel senso che i suoi atti, i suoi desideri, le sue voglie di divertimento e di cultura, diventano mezzi per la valorizzazione del capitale, e quindi estranei e contrapposti al soggetto che li pratica.
Questa nuova dimensione del comando capitalistico nella società e nella vita umana genera nuove resistenze e nuove alterità. È quindi possibile, ed è questa la prima conclusione a cui volevo giungere, che la coscienza critica nei confronti del sistema capitalistico possa nascere e svilupparsi anche al di fuori del processo produttivo strettamente e classicamente inteso, quindi nel campo del consumo del prodotto materiale o culturale, ovvero a seguito della negazione per amplissimi settori della popolazione mondiale del consumo cioè dell’alienazione del medesimo. Questa considerazione ci introduce a due successive riflessioni, che fanno riferimento esplicito al dibattito che vi è stato e vi è sia nel PRC che nel movimento.
La prima. Non ha senso richiamarsi a una centralità della contraddizione tra capitale e lavoro per contrapporla alle altre tematiche che animano e che motivano il movimento. Non ha senso stabilire in questo modo una priorità della prima sulle altre, la quale a sua volta darebbe ragione del ruolo di avanguardia dei comunisti rispetto al movimento. Dico questo non perché non pensi che nell’epoca della globalizzazione sia venuto meno o sia meno centrale la contraddizione tra capitale e lavoro. Al contrario – ma non ho spazio e modo qui per dimostrarlo compiutamente – penso che questa contraddizione sia ancora più fondamentale di prima.
Il punto è che entrambi i termini, cioè il capitale e il lavoro, hanno profondamente cambiato le loro caratteristiche, per cui il richiamo puro e semplice alla centralità di questa contraddizione, senza una analisi approfondita dei due poli della medesima, è non solo inutile ma persino deviante. Ci riporterebbe cioè ad una lettura “libresca” della realtà, l’esatto contrario dei pilastri della metodologia marxista che ci richiedono una critica continua all’economia politica e un’analisi della situazione concreta.
La seconda. È totalmente sbagliata una rappresentazione del dibattito che dia per scontato un’accordo sulla necessità della nostra presenza nel movimento e che delimiti il disaccordo sulle modalità di questa presenza. In sostanza, tanto per essere chiaro, penso sia sbagliato dire che ”siamo tutti d’accordo ad esserci nel movimento, il problema è cosa diciamo nel movimento”. In realtà questo modo di ragionare nasconde la vecchia idea che tutto deriva dalla capacità di portare dall’esterno la coscienza al movimento. Questo è sbagliato non perché non debba essere esercitato un ruolo di proposizione di culture, di idee, di proposte da parte di una forza politica strutturata presente nel movimento, ma perché questa concezione non comprende i nuovi processi e le nuove modalità della formazione delle coscienze antagoniste nel nuovo capitalismo globalizzato.
Per queste ragioni la scelta del PRC di essere parte integrante del movimento, di contribuire alla sua crescita e di crescere con esso, rappresenta non una scelta di elegante opportunità politica, ma l’applicazione di un principio innovativo che deve assolutamente diventare parte dal processo della Rifondazione comunista.
Questo principio è determinante per chiarire cosa intendiamo per costruzione di un nuovo e moderno Partito Comunista di massa, nel quale i soggetti sociali antagonisti debbono essere parte soggettivamente costituente e non solo referente.
Oggi sulla crescita di questo movimento incombe l’imminenza della guerra. Si tratterà di una guerra diversa da quelle che l’umanità ha fin qui conosciuto. Probabilmente la prima vera guerra dell’era della globalizzazione, cioè, quasi per definizione, senza confini e senza possibili previsioni dei territori nella quale verrà esercitata. Se questo avverrà – e voglio con un residuo irriducibile di speranza insistere sul se – produrrà una modificazione sensibile nelle psicologie e nelle coscienze di milioni di donne di uomini.
La politica rischia di risultare schiacciata dal tema preminente di un rapporto con questa guerra. Nello stesso tempo l’alternativa tra la pace e la guerra, tra una cultura e una politica di pace e una cultura e una politica di guerra, risulterà più evidente e drammatica.
Come in altri momenti topici nel secolo che abbiamo alle spalle, penso ad esempio ai mesi in cui maturò la prima guerra mondiale o agli anni ’30, l’intera sinistra sarà ridisegnata dalla capacità o meno di produrre una egemonia sul terreno della cultura e della pace. È la gigantesca sfida che abbiamo davanti, di fronte alla quale molte polemiche, comprese quelle sulle colonne della rivista che ospita queste mie righe, mostrano tutta la loro mediocrità e caducità.
L’alternativa profetica tra socialismo e barbarie torna ad essere attuale. Con l’aggravante che il pendolo dei rapporti di forza della storia per ora si orienta più verso la seconda. Questo significa che la Rifondazione comunista si misura direttamente con la capacità di salvaguardare le sorti dell’umanità.