Note a margine di un’inedita Conferenza di Organizzazione

Rifondazione fra “continuismo” e “rimozione”

A conclusione della conferenza nazionale d’organizzazione di Rifondazione Comunista, quale bilancio è possibile trarre? La risposta non è facile, anche perché se ci si limitasse ad una verifica sui risultati che si sono avuti sul piano squisitamente organizzativo, non vi sarebbe molto da dire. La conferenza, infatti, si è chiusa con una serie di proposte che non rivoluzionano l’organizzazione, e neppure introducono elementi particolarmente innovativi. Si potrebbe – con qualche ragione – parlare di “aggiustamenti”. Di questo si tratta, ad esempio, nel caso della proposta di non consentire più di due mandati consecutivi per le cariche istituzionali. Un provvedimento che, all’atto pratico, evita solo la possibilità di incarichi istituzionali ininterrotti. Ancora, la proposta del potenziamento del ruolo della direzione nazionale non è che una misura obbligatoria, che prende atto dell’assoluta insostenibilità della dicotomia direzione – esecutivo, prodottasi a seguito delle decisioni assunte al congresso di Venezia. La norma che obbliga gli organismi dirigenti a rispettare il vincolo del 40% di donne è in continuità col principio delle quote di genere a suo tempo introdotte. Si tratta del tentativo (la cui efficacia dovrà essere dimostrata) di dare attuazione ad una norma molte volte elusa. Altre proposte, come quella della costituzione di circoli tematici, in parte generalizzano esperienze organizzative di alcune realtà, anche se in questo caso la scelta appare molto discutibile. Senza nulla togliere a quanti hanno tentato di dare il proprio contributo nella conferenza all’arricchimento della proposta organizzativa, l’impressione è che su questo piano la stessa non abbia dato grandi risultati. In tal senso, si pone in continuità con altri precedenti appuntamenti, che nonostante l’esteso coinvolgimento degli iscritti, alla fine non hanno dato risultati apprezzabili.

Né la conferenza ha avuto miglior esito dal punto di vista politico. Questa, infatti, è nata e si è conclusa con la rimozione di una qualsiasi seria riflessione sulla fase attuale e, in particolare, sul bilancio dell’esperienza di governo, sull’efficacia al suo interno dell’azione del partito e sulle conseguenze che questa esperienza produce sul piano sociale, in particolare per quanto riguarda la capacità di consolidamento e di allargamento del consenso. Né, peraltro, la conferenza ha sciolto il nodo dell’iniziativa sociale, restando nell’ambito dell’evocazione dei movimenti anziché di una seria valutazione sulla loro portata ed efficacia. Questa separazione fra partito, quadro politico e società è stata evidentissima nel documento iniziale, un contributo in larga misura “astratto” nell’analisi (si osservi la lettura della crisi organizzativa attraverso la sola lente della crisi della politica) e “continuista” nella proposta politica (la riproposizione acritica della Sinistra Europea come approdo del partito). Essa si è ridotta solo molto parzialmente nella fase conclusiva, dato che nel documento finale i temi politici trovano sì uno spazio che non avevano minimamente avuto all’inizio, ma si traducono in una sorta di manifesto d’intenti, che resta separato da una valutazione del quadro politico e della dinamica sociale. Tutto ciò stride con l’evoluzione tumultuosa della situazione politica, che invece ha caratterizzato i mesi in cui la conferenza di organizzazione si è sviluppata: dalla crisi del governo Pro- di al varo del Prodi bis, dall’apertura della discussione sui nuovi provvedimenti del governo al superamento di fatto della proposta della Sinistra Europea con quella della costituzione di una nuova soggettività politica che unifichi le forza a sinistra del PD.

Alla luce di questi rilievi – sui risultati organizzativi e politici – il giudizio non può che essere critico, ma sarebbe sbagliato trarre la conclusione che la conferenza abbia rappresentato un momento privo di qualsiasi efficacia, una sorta di parentesi, nella vicenda recente di Rifondazione Comunista, destinata a non lasciare traccia. Due fatti, in particolare, dovrebbero essere considerati. Il primo riguarda la natura della discussione che si è sviluppata nelle istanze di base del partito. Questa discussione, non solo ha spesso travalicato i limiti di un’impostazione palesemente disancorata dalla materialità della situazione, ma ha messo anche in luce un disagio profondo che esiste nel partito, per lo meno su alcune questioni. Come peraltro si può cogliere da alcuni ordini del giorno approvati in numerose federazioni e circoli – alcuni di seguito riportati –, la partita del governo, cacciata dalla porta, è rientrata dalla finestra, in virtù di una critica spesso serrata nei confronti dell’esecutivo emersa nelle istanze di base del partito, specialmente per quanto riguarda la mancata soluzione delle questioni sociali. Analogamente, si è prodotta una critica verso le scelte di politica internazionale: dall’Afghanistan, alle decisioni assunte per Vicenza. Ed infine, una contestazione esplicita si è sviluppata in parecchie realtà sulla questione della democrazia interna, con particolare riferimento alla scelta – da molti non condivisa – di espellere Franco Turigliatto. Questi rilievi critici – ed è un altro elemento degno di nota – non hanno seguito la geografia interna determinatasi all’indomani del congresso di Venezia. Infatti, a parti delle opposizioni si sono associati, in molti casi, settori della maggioranza, determinando talvolta l’accoglimento delle proposte. Se quindi la conferenza, in termini di esito conclusivo formalizzato, evidenzia una sostanziale rimozione delle contraddizioni più acute che investono Rifondazione, nondimeno essa registra la preoccupazione della base del partito, allarmata per l’inadeguatezza della politica del governo, giustamente inquieta per le difficoltà in cui versa il partito e poco propensa ad accettare limitazioni alla discussione interna. E’ forse questo il maggior segno di vitalità che la conferenza ci consegna.

Questa lettura della conferenza evidenzia i limiti di un’impostazione reticente ed elusiva, ma sarebbe sbagliato tacere di un risultato importante che in ogni caso la maggioranza del partito alla fine consegue. Infatti, pur essendo evidente l’assoluta sfasatura fra problemi politici e impianto della conferenza e pur essendo altrettanto evidente il malessere che attraversa il partito, il gruppo dirigente alla fine ottiene, almeno nell’assemblea conclusiva, un ampio consenso. Si tratta, in verità, di un esito prevedibile per i limiti dell’impostazione assunta, sia sul piano organizzativo, che su quello politico. Ma non si tratta solo di questo. Nell’assemblea conclusiva, infatti, si è prodotto un esito, già in gestazione da mesi. La maggiore minoranza interna, l’area “essere comunisti”, si è rotta, con l’adesione di una sua parte alla maggioranza. Un’adesione esplicita, che si manifestata con l’approvazione del documento finale e che si è accompagnata con dichiarazioni entusiastiche sulla supposta modifica della linea di maggioranza emersa dalla conferenza. Una tesi, peraltro, contraddetta dai contenuti dei documenti, dalle conclusioni del segretario del partito, dal non accoglimento di quasi tutti gli emendamenti proposti. Ma tant’è. Questo fatto rappresenta il vero risultato politico che la maggioranza del partito incassa con la conferenza, un risultato importante, che ne consolida il peso.

Questo risultato se, però, viene misurato sul piano della prospettiva politica assume connotati molto più effimeri. La conferenza, infatti, si è chiusa senza aver affrontato nessuno dei punti fondamentali. Ed anche se è evidente che questo risultato è il frutto di un calcolo ben preciso, in quanto sia sul piano della collocazione di governo che su quello della prospettiva di Rifondazione Comunista si è consapevolmente voluto evitare un confronto precongressuale che non solo avrebbe potuto polarizzare dissensi, ma che avrebbe anche costretto la maggioranza ad esprimersi con chiarezza sulle scelte future, ciò non di meno questa rimozione forzata ha sì evitato guai immediati ma non ha fatto altro che rimandarli a dopo. Non è nell’economia di questo testo – che vuole limitarsi ad inquadrare la conferenza nella sua reale portata – aprire ora una riflessione sugli sviluppi futuri di Rifondazione, mi limiterò ad alcune osservazioni attinenti al tema fino ad ora trattato. La conferenza si è chiusa su un’agenda d’impegni politici e su alcune soluzioni organizzative. Può essere di un qualche interesse porre in relazione questi esiti con le incognite politiche che si aprono. La prima riguarda la praticabilità di quell’agenda nell’attuale scenario. Non tornerò su tutti gli obiettivi richiamati nel documento finale della conferenza. Mi limiterò ad una sola questione, sulla quale il dibattito si è concentrato nella parte conclusiva. Mi riferisco alla questione del “risarcimento sociale”, con l’impiego delle risorse aggiuntive derivanti dal maggior prelievo fiscale. Le difficoltà incontrate di recente da Rifondazione nella coalizione – per ciò che concerne l’utilizzo di tali risorse – ha messo in luce la permanenza di orientamenti molto rigidi nella coalizione di governo che rischiano di vanificare l’agenda di obiettivi che prima richiamavo. Con ciò entra in crisi un assunto implicito della linea di maggioranza: e vale a dire l’idea che la migliorata situazione economico- finanziaria del paese potrebbe consentire il raggiungimento di apprezzabili compromessi in tema di scelte sociali. La vicenda del “tesoretto” dà un duro colpo a quest’ipotesi e con ciò rimette in discussione l’intera linea basata per l’appunto su un approccio “continuista” nelle relazioni con la maggioranza di governo.

Un’ultima considerazione riguarda la prospettiva del Partito della Rifondazione Comunista. Il tentativo di offrire l’immagine di un partito coeso, di una maggioranza più forte, con cui si è conclusa la conferenza, può essere messo in seria crisi nei prossimi mesi e non solo per le contraddizioni legate alla collocazione di governo, ma anche per gli sviluppi della vicenda del partito. Il carattere assi effimero di proposte organizzative elaborate per rafforzare un partito che invece è in via di superamento è del tutto evidente. Ma anche la tenuta di questa improvvisata maggioranza allargata è tutta da dimostrare nel momento in cui – non è un mistero per nessuno – l’obiettivo che s’intende perseguire è quello di dar vita ad un nuovo soggetto politico (Berlinguer ha parlato più onestamente di un nuovo partito) con tanto di simbolo e nome nuovi. Di questo nella conferenza non si è (incredibilmente) parlato. Ma ormai la prospettiva è aperta. Reticenza o piccoli calcoli di bottega vengono meno nel momento in cui la promessa con cui il segretario del partito ha chiuso i lavori della conferenza (e cioè la garanzia del mantenimento dell’autonoma presenza di Rifondazione Comunista) appare del tutto inconsistente alla luce degli ultimi fatti. La costruzione di un nuovo partito socialdemocratico (qualcuno ha parlato acutamente di una nuova Rifondazione Socialista), con un’inclinazione dichiaratamente governista, può risultare convincente? Non si tratta solo di una questione d’identità, ma forse ancora di più di profilo politico-programmatico. Già ora, infatti, la discussione sulla costruzione di un nuovo soggetto vede la totale rimozione di ogni valutazione sul governo e sull’adeguatezza della sua politica. Si tratta di dimenticanze dettate dal prevalere di altre urgenze politiche o non si tratta piuttosto – come io penso – di un limite insito nella proposta, e cioè l’essere questa interna ad un approccio sostanzialmente governista? La conferenza, quindi, lascia aperti problemi enormi che ora rimbalzano sul partito. Anche per questo hanno fatto bene quei militanti che hanno partecipato a quest’assise con spirito costruttivo ma mantenendo intatta la loro capacità critica. Nei prossimi mesi saranno chiamati a farla valere.