“Non vorrei che di questo passo…”

C’era chi pensava che un Congresso a tesi, finalmente, potesse essere strumento di vera e fondamentale elaborazione politica collettiva; elaborazione politica di un Partito che riusciva tramite la consultazione nei congressi di circoli o di federazioni a costruire istanza per istanza la propria linea politica.
C’era chi pensava che un congresso su questi toni potesse avere una grande valenza umana e politica di reciproca riconoscenza e crescita.
C’era chi pensava che uno scontro-confronto su temi quali la propria identità, la storia e la propria memoria potesse essere portato avanti su alti livelli di discussione.
Purtroppo non è stato sempre così.
C’è stato chi invece, ha voluto riportare tutto il grande bagaglio culturale di ognuno , in gioco, al livello misero di pettegolezzo e schieramento riducendo tutto a “partito sì , partito no, movimento sì, movimento no.”
C’è stato chi invece, pensando ad un partito aperto, “leggero” ha sacrificato, questa volta sì, il “saper fare” in nome di una pura formalità e poca, poca sostanza. Quanto poca? Meno del 40%.
Tutta la fase pre-congressuale, quindi, non ci ha visti intenti a cercare, non la mediazione, ma un leale confronto basato veramente sui contenuti delle tesi, ma l’argomento che fin troppo ha riempito anime, pagine e discussioni è stato sicuramente il tema della provenienza, della propria memoria, del proprio percorso politico e umano, e ognuno ovviamente difendeva strenuamente il proprio.
Abbiamo dimenticato come tutti, facciamo parte di quella meravigliosa storia e “comunità dei dotti” che ci ha portato a scegliere non solo il PRC, ma tutte le vertenze, locali e nazionale, tutte le lotte, le battaglie e il movimento in cui Rifondazione è stata , è presente e nei quali la sua presenza è tangibile quanto significativa.
Sarebbe stato auspicabile, ad esempio, se i compagni della minoranza avessero presentato non un documento alternativo, anch’esso emendabile, ma tutte tesi alternative.
Se si fosse proceduto così, come è d’uopo in un congresso a tesi, il documento finale votato dalla platea congressuale nazionale avrebbe potuto essere terreno di un confronto della totalità del corpo del Partito.
Il segretario, nelle conclusioni, parlando del turn-over delle nostre iscrizioni, ha detto: “forse, siamo belli da lontano e un po’ meno belli da vicino.” È vero, ma perché?
Perché non siamo abbastanza al “passo coi tempi” oppure perché ancora una volta, riproponiamo logiche di maggioranza, d’esclusione, e come nel caso delle quote della partecipazione femminile, di pura formalità?
C’era, invece, la netta impressione, mentre nella platea congressuale di Rimini il dibattito si succedeva di intervento in intervento chiarendo, in qualche caso, aspetti rimasti insoluti o motivo d’equivoci nella fase precongressuale, che il nodo, il nocciolo della questione si dipanasse altrove, ad esempio nella commissione elettorale, riunita più volte nella sua convocazione ristretta.
Il compito della commissione elettorale, mi rendo conto, non è stato facile: passare da un più congruo numero ad un ridimensionato a 135, ma comunque i segnali non sono stati incoraggianti.
Non è affatto incoraggiante, infatti, il non aver rispettato il 40% della partecipazione femminile nel CPN e l’aver escluso, forse conseguenzialmente, chi in questi anni ha dato tanto al PRC e ha dato dimostrazione del “saper fare”.
Eppure dall’esterno questo Partito convince. È l’unico soggetto politico che ha saputo interpretare il delicato momento che ha vissuto la sinistra italiana.
Il nostro Partito ha brillantemente superato la minaccia dell’esistenza nelle ultime elezioni politiche, ha iniziato quello più esaltante della sopravvivenza; i fatti ci hanno dato e ci danno ragione come il conclamato fallimento della strategia del centro-sinistra non solo italiano ma europeo.
Non vorrei che, di questo passo, il nostro essere meno belli da vicino si cominci ad intravedere anche da lontano.