Non impero ma imperialismo

1. Lo spazio è un vero torturatore, per cui non potrò sviluppare qui di seguito se non pochi spunti in modo pericolosamente sintetico. Mi auguro che si tratterà di considerazioni egualmente comprensibili, almeno in parte, e dotate di un minimo di stimolo alla riflessione dei lettori.
Dico subito che ritengo piuttosto errate, anche se penso siano formulate in buona fede, alcune tesi oggi in campo per quanto concerne la nuova fase attraversata dalla formazione sociale capitalistica, rimondializzatasi dopo il crollo del “socialismo reale”. Mi riferisco ad esempio alle nuove affabulazioni di Negri, che dimenticano tranquillamente l’imperialismo statunitense per predicare un improbabile Impero diffuso, del tutto generico e sfuggente, esistente in ogni dove a causa della pre-senza disseminata della grandi “transnazionali”; Impero che susciterebbe un’opposizione supposta crescente da parte di un “soggetto” anch’esso generico, diffuso, senza reali punti di aggregazione e organizzazione, ecc. Oppure, ci si può riferire alle tesi tipiche dei settori de Le Monde diplomatique (ma che vanno al di là di tale “mondo” di “sinistra”), che ripredicano – quante volte è già successo nell’ambito della cultura radicale delle classi dominanti – la necessità di riformare il capitalismo, colpendo (tassando) quello “cattivo” finanziario, promovendo un nuovo intervento dello Stato in senso vagamente keynesiano, e via dicendo. Ci sono infine quelli che più semplicemente tornano per l’ennesima volta alla necessità di ridistribuire la ricchezza dai “ricchi” ai “poveri” – un impasto di cristianesimo e socialismo utopico premarxista – senza che si abbia nulla da dire circa il modo della produzione della ricchezza (nella sua tipica forma monetaria), cioè sulla struttura dei rapporti sociali che fondano detto modo di produzione, quello capitalistico.
A dir la verità, non solo la mancanza di spazio, ma anche l’esigenza di non perdere tempo in inutili e vecchie polemiche – malgrado la forma nuova, le tesi di cui sopra sono quanto di più vecchio e stantio esista – sconsigliano un’attenta analisi critica di quanto si sta nuovamente diffondendo, approfittando della catastrofe culturale provocata da “cattivi maestri” (ex marxisti) e della (conseguente) totale mancanza di memoria storica – in particolare della storia del movimento operaio e dei suoi interni dibattiti – da cui sono caratterizzati tanti(e) “giovanottoni(e)” che danno vita al “nuovo movimento”. Cercherò invece di fissare l’attenzione “in positivo” su alcune questioni che credo (ipotizzo) siano cruciali. Dico subito che non tenterò novità strabilianti, da cui troppo spesso consegue la pura invenzione della “realtà”, semplice riflesso allora di una immaginazione malata e farneticante, ma mi limiterò a trasformare, in modo opportuno, alcuni “vecchi” paradigmi per riscontrare se essi sono ancora in grado di suggerirci qualcosa di sensato e soprattutto di sobrio, di misurato, come sempre sobria e misurata deve essere l’attività (teorica) di chi intende assumere un atteggiamento almeno minimamente scientifico, e non predicatorio, profetico, visionario.

2. Mi sembra che l’errore fondamentale delle svariate tesi, che si condensano nel nebuloso concetto denominato globalizzazione, sia costituito dalla convinzione della fine della funzione degli Stati (nazionali), ormai surclassati, si dice, dalla politica di grandi imprese dette transnazionali, poiché anch’esse non più controllate – sempre si dice – da gruppi di vertice (proprietari e dirigenti) con collocazione in un dato ambito geografico e sociopolitico. In realtà, è assurdo non considerare statunitensi l’IBM o la GM, così come, fino a prova in contrario, italiana è la Fiat; e, se anche si dimostrasse in futuro che l’accordo tra di essa e la GM è in realtà una vendita mascherata, non avremmo come risultato una transnazionale, ma solo un’impresa USA con un’importante propaggine in territorio italiano.
Un errore particolarmente grave mi sembra, comunque, quello di considerare in termini generici e unitari, privi di qualsiasi utile specificazione, lo Stato. Perché proprio da questa genericità di significato deriva l’affermazione del tutto errata intorno alla fine degli Stati nazionali, nonché la confusione e pasticcio inverecondi in merito alla struttura del dominio mondiale, alla struttura di quello che possiamo ancora chiamare, in prima istanza, imperialismo. Basti pensare a tutta la tematica anti G8. Lasciamo perdere la palese contraddizione tra la dichiarazione di fine delle funzioni degli Stati nazionali e l’accanimento con cui ci si vuol opporre a otto Governi che, questi sì, chiacchierano abbastanza a vuoto e decidono poco, perché i luoghi e gli ambienti reali in cui vengono prese le decisioni (imperialistiche) si trovano lontano dalle riunioni degli “otto”, che al massimo avallano e vorrebbero fare opera di “pubblicità” (oggi evidentemente negativa). Il fatto di maggior rilievo è però che non esiste, in realtà, un G8 ma al massimo un G (1+7) dato che, in ogni caso, il peso di gran lunga maggiore in termini di efficacia operativa spetta agli USA (ma non certo per la loro partecipazione al G8, bensì in altre sedi e con l’uso di altri mezzi ben più “convincenti”).
Andando alla più profonda “realtà” di ciò che denominiamo Stato, diciamo innanzitutto che esso, nella sua materiale estrinsecazione, è un insieme di apparati con funzioni varie: politico-amministrative di ordine “generale”, coercitivo-repressive, di intervento più o meno diretto nella sfera economico-finanziaria, ecc. Al di là, e “dietro”, gli apparati è però indispensabile capire che lo Stato è la quintessenza della sfera politica, uno spazio o territorio della società capitalistica in cui si condensa una serie di rapporti sociali di un “certo tipo”, in cui si confrontano vari agenti della riproduzione del modo di produzione capitalistico. Agenti che ufficialmente fanno parte dei vari raggruppamenti sociali (“classi”): dominanti, “medi” e dominati, detto in termini semplificati. Per vari motivi che qui non possono essere discussi, anche i rappresentanti ufficiali (di tipo pubblico) delle classi dominate – almeno quelli posti al vertice di organizzazioni come partiti, sindacati, lobbies, gruppi di pressione vari, mass media e organismi politico-culturali, ecc. – tendono a proiettarsi verso i dominanti, vanno cioè a costituire frazioni specifiche di questi ultimi, frazioni che agiscono in conflittuale cooperazione con quelle dominanti decisive poste nella sfera economico-produttiva (i gruppi dirigenti addetti alle strategie imprenditoriali), ai fini della riproduzione della struttura di rapporti capitalistici.

3. Per tentare di capire in modo appena un po’ sensato la fase attuale attraversata dal sistema capitalistico, recentemente (negli anni ’90 del ‘900) rimondializzatosi, desidero riafferrare il “vecchio” paradigma leniniano relativo all’imperialismo. Ricordo a gran velocità le sue cinque caratteristiche: centralizzazione monopolistica dei capitali (ritenuta da Lenin la caratteristica veramente essenziale), capitale finanziario in quanto simbiosi di quelli industriale e bancario, esportazione di capitali di importanza crescente rispetto a quella delle semplici merci, competizione interoligopolistica tra grandi imprese per la conquista dei mercati mondiali, conflitto acuto interstatale tra le grandi potenze per la ridistribuzione delle zone di influenza nell’intero globo.
Viste le cose all’ingrosso, non si può non constatare che tali caratteristiche – salvo l’ultima – contraddistinguono anche l’attuale fase di sviluppo del capitalismo rimondializzatosi. Tuttavia, opererei opportuni, e radicali, spostamenti di significato, e di importanza reciproca, tra queste caratteristiche; spostamenti che certamente muteranno profondamente il quadro d’insieme così come formulato originariamente da Lenin. Innanzitutto, la prima caratteristica, la centralizzazione monopolistica, non verrebbe più considerata quella decisiva per contrassegnare l’intera epoca dell’imperialismo in quanto supposto “ultimo stadio” dello sviluppo capitalistico, quello pensato come immediatamente precedente la rivoluzione proletaria mondiale, il cui fiasco è invece ormai del tutto evidente salvo che per i ciechi. Lenin aveva in testa il modello marxiano di sviluppo capitalistico – per di più impoverito e reso più schematico e spoglio da Engels e soprattutto da Kautsky – secondo cui la centralizzazione è una tendenza continua che porterà infine alla concentrazione della proprietà in un gruppo parassitario di capitalisti, non più dirigenti dei processi produttivi, mentre di contro a questo si ergerebbe la massa della popolazione espropriata, che lavorerebbe in condizioni di crescente cooperazione, sia pure differenziandosi al suo interno tra vertici che dirigono e maggioranza che esegue; una differenziazione comunque temporanea e che andrebbe sfumando, dopo l’eventuale rivoluzione capace di “espropriare gli espropriatori”, con lo sviluppo della scienza e della tecnica in quanto forze produttive sempre più collettive e socializzate.
Nulla di tutto questo è avvenuto. I gruppi strategici d’impresa, i veri dominanti nel capitalismo, non sono né rentier parassiti né dirigenti dei processi produttivi. Le grandi imprese esistono, continuano a fondersi fra loro e a dominare i mercati, ma ciò non esaurisce la competizione, non comporta, nemmeno come tendenza, la costituzione di pochi centri decisionali fra loro in accordo e collusione, mentre invece si alternano (ricorsivamente) intere epoche di accentuazione del conflitto interimprenditoriale e fasi di un suo relativo smorzamento. Le susseguentisi, per fasi anch’esse ricorsive, ondate di innovazioni (in specie di prodotto) ampliano i mercati, creano nuovi settori produttivi, aprono spazi a nuove iniziative anche di piccole dimensioni imprenditoriali, producono contraddittori processi di decentramento produttivo delle grandi imprese e di centralizzazione finanziaria; le piccole imprese sono spesso appendici di quelle grandi (e magari figlie dei loro processi di decentramento produttivo) oppure autonome ma con tendenza successiva a riunirsi fra loro (tutta la tematica odierna delle reti è la deformazione ideologica di tale fenomeno) e, ancora più spesso, a cadere sotto l’influenza dominante dei grandi gruppi strategico-imprenditoriali. Ma poi il processo si ripresenta nuovamente, sia pure in tempi “lunghi”, con ulteriori ondate delle innovazioni, ecc.
Di conseguenza, niente ultimi stadi, niente centralizzazioni ormai definitive. Il capitalismo certo finirà, come tutte le cose di questo mondo, ma non se ne può in alcun modo predire la fine ravvicinata tramite i giochetti delle centralizzazioni e della crescita sterminata di masse espropriate che acquisterebbero la coscienza dell’improrogabile necessità della rivoluzione antiproprietaria (“antiespropriatrice”). Se ci si mette su questa strada, ci si troverà alla fine con “movimenti nuovi” sempre massacrati (in senso almeno metaforico ma molto spesso reale) e con il capitalismo che continuerà a sussistere, e di cui “teorici” solo pieni di immaginazione e di desideri repressi indicheranno per l’ennesima volta qualche nuovo “ultimo stadio”. Se la centralizzazione monopolistica, in quanto processo tendente ad una fine, fa proprio una…. brutta fine, la stessa cosa dicasi del capitalismo finanziario in quanto mera superfetazione parassitaria del capitalismo arrivato al suo “ultimo stadio”.
Come aveva forse meglio capito Schumpeter, la finanziarizzazione cresce nelle epoche di ondate innovative e serve ai trasferimenti di capitale dalle vecchie imprese e settori produttivi a quelli che innovano. Tuttavia, questa visione ha un carattere credo troppo apologetico, poiché vede esclusivamente il lato positivo del capitalismo in quanto modo di produzione dinamico e tendente solo alla maggiore efficacia ed efficienza produttive. In realtà, non solo le esigenze innovative, ma tutte le altre modalità della conflittualità interimprenditoriale – acquisizioni, fusioni, decentramenti produttivi e creazione di nuove imprese con necessità di maggiori controlli finanziari da parte dei vari centri del potere monopolistico fra loro in competizione; e, ancor più, influenza determinante di questi vari centri sulla sfera politico-amministrativa, su quella ideologica, come “estrema misura” su quella politicomilitare – determinano la necessità di tenere quantità crescenti di ricchezza in forma liquida o immediatamente liquidabile. Ed è su questa necessità dei gruppi strategico-imprenditoriali che si innesta la crescita di un settore finanziario che acquista poi anche una sua autonomia di manovra, con il fiorire di manovre speculative, ecc. In ogni caso, non è chi non capisca che il capitale finanziario non si sviluppa esclusivamente in relazione alla crescita e predominanza di settori sociali di tipo parassitario. Sperare di lasciare in piedi il modo di produzione capitalistico – per la sua indubbia capacità di produrre merci e di accelerare la crescita di forze produttive sempre nuove (altro che involucro che ne blocca lo sviluppo come vuole ancor oggi un marxismo sciocco e sclerotizzato) – tagliandone gli aspetti finanziari giudicati come puramente speculativi, è solo una colossale illusione, è l’ennesima ripetizione degli errori commessi da pensatori di ben altro calibro del tipo di Hobson, ecc.
Anche sulla terza caratteristica leniniana ci sarebbe da dire qualcosa, ma per le solite ragioni di spazio mi limito a ricordare che si tratta oggi soprattutto di investimenti diretti all’estero (IDE) da parte di grandi gruppi imprenditoriali, che è bene continuare a definire multinazionali poiché hanno precisi centri direzionali strategici situati in dati paesi e intrattengono rapporti privilegiati con la sfera politico-ideologica di detti paesi, anche se sono evidentemente proiettati all’estero in tutti i sensi (finanziari e acquisitivi del controllo di altre imprese, politico-ideologici, militari, ecc.) e non solo come investimenti produttivi. Decisive mi appaiono invece la quarta e quinta (oggi mancante) caratteristica della definizione leniniana; su queste sposterei oggi il peso di tale definizione, modificando così radicalmente il quadro delineato dal termine imperialismo, che assume allora evidentemente un significato abbastanza dissimile da quello indicato dal rivoluzionario russo. Per giungere a qualche conclusione, debbo però fare un piccolo détour, ancora una volta gravemente inficiato dalla mancanza di spazio.

4. Dopo il 1945, conclusasi la contesa soprattutto tra USA e Germania, il primo paese emerse come dominante e centro del sistema capitalistico che potremmo definire tradizionale. Si formò però, nel contempo, il cosiddetto campo socialista (con iniziale centro nell’URSS), un insieme di paesi retti da apparati istituzionali abbastanza simili: un partito comunista, praticamente unico partito, quale perno della sfera politica, fusosi con lo Stato e costituente l’elemento dominante di quelle società. Si costituì quindi in queste un’oligarchia dominante – tuttavia incapace di un’effettiva egemonia sulla società tutta – i cui meccanismi di riproduzione erano di tipologia prevalentemente politica. Il potere di tale oligarchia si fondava comunque su una precisa ideologia e su collegamenti con le “masse popolari” in paesi assai arretrati, masse quindi costituite soprattutto da contadini e, inizialmente, da piccole sacche di operai. Per vari motivi, detta oligarchia politica dette vita ad un intenso processo di industrializzazione e favorì quella che potremmo indicare quale accumulazione originaria, costituzione delle basi di uno sviluppo non dissimile, perché fondato essenzialmente sull’industria (addirittura quella pesante), da quello avutosi nei paesi capitalistici avanzati.
Il blocco dominante, proprio perché autoriproducentesi (con metodologie autoritarie e di cooptazione dei dirigenti) nella sfera politica, non fu in grado né di “costruire il socialismo” – obiettivo ideologicamente dichiarato della “rivoluzione” – né di dar vita ad una autentica struttura di rapporti capitalistici, nel cui ambito deve assumere posizione preminente la sfera economica, caratterizzata dall’intensa competizione tra gruppi strategici d’impresa quale condizione di uno sviluppo non semplicemente quantitativo (il tot % di crescita del reddito nazionale, per molti anni fiore all’occhiello dei paesi “socialisti”, che partivano da posizioni assai arretrate), ma soprattutto capace di una forte diversificazione e moltiplicazione dei settori produttivi in specie a causa di ampie ondate di innovazioni, sia di processo che di prodotto. I blocchi dominanti dei paesi “socialisti” non solo per ragioni ideologiche, ma per i loro particolari meccanismi di autoriproduzione, basarono il loro potere su una sostanziale alleanza con le classi popolari (quella operaia essendo in forte crescita), consentendo ritmi lavorativi bassi e molti “onori verbali” a fronte di remunerazioni e conseguente tenore di vita piuttosto bassi. Furono sacrificati e tenuti ad un modesto livello di vita e di status sociale anche scienziati e tecnici (salvo quelli legati all’apparato militare) e il management imprenditoriale. Tutto questo, dopo i primi grandi successi d’ordine appunto quantitativo, provocò il ristagno dell’economia “socialista”, accrebbe il risentimento e l’opposizione dei ceti intellettuali e “medi”, preparando la putrescenza e infine il crollo generalizzato di quel sistema sociale.
I due campi – capitalistico centrato ormai sugli USA e “socialista” con l’URSS quale paese più potente dell’area – furono comunque, per un’intera epoca storica, effettivamente “nemici”, perché fondati su strutture di rapporti sociali caratterizzate da differenti meccanismi autoriproduttivi dei blocchi dominanti. La loro rivalità fu in definitiva positiva per quanto concerne l’intensa lotta di liberazione nazionale nei paesi del terzo mondo con conseguente accelerazione dei processi di decolonizzazione. Essa influenzò anche – pur se a volte se ne è forse enfatizzata l’importanza – i rapporti di forza tra le classi nei paesi capitalistici avanzati. Fu favorito il cosiddetto “compromesso sociale” (tra capitalisti e classi lavoratrici) con innalzamento dei salari, anche indirettamente tramite le varie politiche del Welfare, quelle dette keynesiane, quelle di cui oggi molti “comunisti” si sentono orfani.
Ancora una volta va detto che di tali politiche si vide solo l’aspetto, indifferenziato, del crescente intervento dello Stato in economia, senza considerare il loro substrato costituito dalla formazione dei blocchi dominanti di cui esse erano emanazione. Gli studiosi di scienze sociali (e i politici) pensarono quanto avvenne in tutto il campo capitalistico sviluppato, nel paese centrale (gli USA) come in quelli non centrali, solo come crescente intervento dello Stato, che venne considerato quale nuovo stadio, ormai irreversibile, della storia del capitalismo – e per molti marxisti si sarebbe trattato del nuovo “ultimo stadio”, poiché l’intervento statale sarebbe stata l’ultima trincea per la borghesia – per conseguire due obiettivi fondamentali: il compromesso sociale già indicato nonché scongiurare una nuova e più grave crisi rispetto al ’29, interpretata come crisi di carenza di domanda nell’ambito di sistemi economici con capacità produttive in eccesso. Tutti cademmo in questo che mi sembra oggi un grave errore di prospettiva; si dovette pagare l’incapacità di uscire dal feticismo del politico, dello Stato in particolare. Non si fu in definitiva capaci di essere veramente marxisti, di indagare i rapporti sociali che facevano da sfondo al crescente intervento dello Stato.
Dietro le politiche di intervento statale, fondate sulla manovra della spesa pubblica – in deficit di bilancio secondo i canoni del keynesismo – stavano differenti blocchi dominanti: quello esistente nel paese centrale del campo capitalistico e quelli formatisi nei paesi capitalisticamente sviluppati non centrali che uscivano dalla sconfitta o avevano comunque subito gravi distruzioni nella seconda guerra mondiale, e che più risentivano dei pericoli di forti tensioni sociali legate alla presenza del nuovo campo “socialista”. Nel primo paese (gli USA), il blocco dominante, in modo molto tradizionale, era formato dai gruppi strategici delle grandi imprese monopolistiche (private) e da quelli addetti alle politiche statali rivolte all’esterno, all’esercizio di attività volte a mantenere e anzi rafforzare, con mezzi vari di “aggressione”, la propria sfera di influenza. Nei secondi, posti ormai sotto la tutela militare del gendarme imperiale del campo capitalistico, ai predetti gruppi strategici delle grandi imprese furono associati agenti politico-statali con funzioni di svolgimento di politiche connesse al Welfare, di tipo quindi prevalentemente interno, miranti più decisamente a finalità di compromesso sociale e di elevamento della domanda.
Entrambi i tipi di blocchi dominanti dettero certo vita ad un ampliamento della spesa pubblica e dunque ad una maggiore incisività delle politiche statali nei confronti della sfera economica rimasta per l’essenziale privata. Negli USA, tuttavia, ciò si sostanziò soprattutto in una forte spesa per armi e per l’uso di altri mezzi di pesante intervento esterno (minacce, ricatti, colpi di Stato, corruzione di Governi, ecc.), che accrebbero enormemente il divario tra essi e gli altri paesi del “primo mondo” in termini di capacità di influenza nelle più svariate regioni del globo; negli altri paesi del campo capitalistico avanzato, invece, la spesa pubblica condusse a due risultati: crescita abnorme di una potente e corrotta “borghesia di Stato” e rafforzamento della “borghesia monopolistica privata” nelle sue frazioni sempre più interessate alla simbiosi con lo Stato onde ottenere vari finanziamenti pubblici, con forte ottundimento delle loro capacità competitive e tendenza ad una organica subordinazione al, o comunque ad evitare ogni scontro forte con il, capitalismo centrale.
Questa strutturazione del potere nel campo capitalistico favorì comunque un buon coordinamento delle varie economie, sostanzialmente controllate anche mediante l’intervento degli organismi internazionali fortemente condizionati dagli USA, con attenuazione dei fenomeni competitivi e con un accrescimento – passato il primo periodo della “ricostruzione” dei paesi pesantemente toccati dalla guerra – della capacità di assorbimento dei mercati nei paesi non centrali, fenomeno del tutto funzionale agli interessi delle grandi multinazionali in un primo tempo quasi tutte statunitensi. Dopo la metà degli anni settanta, e ancor più radicalmente dopo il crollo socialistico e la rimondializzazione del sistema capitalistico, ricominciò a manifestarsi una più accentuata competizione interimprenditoriale (intermonopolistica) con la presenza anche delle grandi imprese dei paesi non centrali. Furono inoltre messe in moto, in questi ultimi, politiche neoliberiste, con parziale sfaldamento del Welfare, privatizzazione di parte della sfera pubblica dell’economia, conseguente indebolimento della borghesia di Stato.
Malgrado l’avvio di tali processi, nei paesi non centrali non è stato smantellato completamente il vecchio blocco dominante; sussistono pezzi ancora importanti di borghesia di Stato, ma soprattutto non è radicalmente mutato l’atteggiamento del grande capitale monopolistico privato incapace di una vera competitività verso “l’esterno”, che esigerebbe in parte un più accentuato progresso tecnologico con ampie innovazioni di processo e di prodotto, ma in parte ancor maggiore una volontà e capacità di mettere in piedi apparati, con gruppi particolari di agenti capitalistici “pubblici”, in grado di misurarsi con il paese centrale, anche in modo aggressivo, onde ridurne le sfere di influenza nel mondo. Detto grande capitale continua invece a rifugiarsi sia nella continuazione dell’uso dei propri apparati statali al fine di farsi finanziare (mediante opportune direzioni della spesa pubblica) sia nella contrattazione con il blocco dominante del paese centrale per ottenere una serie di spazi per investimenti che non siano in troppo grave frizione con gli interessi del blocco dominante in questione. Anche il forte decentramento produttivo, l’ampio sviluppo delle iniziative imprenditoriali di piccole e medie dimensioni, con la costituzione in certi casi delle tanto decantate reti di (piccole) imprese, sono il sintomo della ricerca, da parte delle economie non centrali, di spazi mercantili secondo modalità che non conducano ad un aperto scontro con il sistema economico-politico centrale.
Al momento del crollo del socialismo reale (1989-91), ad un periodo iniziale in cui sembrò si potesse venir creando una tripolarizzazione del capitalismo rimondializzatosi, seguì la più evidente sottomissione di Europa e Giappone agli interessi statunitensi; prima la guerra contro l’Irak, ma soprattutto la più recente guerra nei Balcani e adesso l’incredibile avvenimento accaduto mentre scrivo (“bombardamento” di New York, ecc.) hanno ridato una supremazia schiacciante e paurosa agli USA, con un vergognoso allineamento delle classi dominanti dei paesi non centrali, che si dimostrano ormai impari ad ogni reale compito di contrapposizione di interessi a livello “globale” con il suddetto paese. Questa la vera causa della supposta fine delle funzioni degli Stati nazionali. I blocchi dominanti dei paesi non centrali – che hanno purtroppo una ancor forte e non intaccata egemonia al loro interno, grazie a forze politiche di destra e di sinistra del tutto omologate con riguardo alle politiche decisive caratterizzate da neoliberismo e filoamericanismo – sono ormai in ginocchio e assolutamente incapaci di alcunché che non sia contrattare qualche benevolenza da parte del sistema economico-politico dominante. Lo Stato USA agisce da vero Stato, proprio perché espressione politica di quel blocco dominante già considerato; gli altri sono Stati sul piano interno (al servizio delle proprie classi dirigenti poco competitive), mentre non assolvono ai loro precipui compiti sul piano esterno. Dopo gli ultimi gravissimi avvenimenti di questi giorni (che avranno a loro volta, fra poco, altri ancor più pesanti sviluppi, con i vari Governi dei paesi capitalistici non centrali belanti verso gli USA), questa situazione sembra destinata a durare a lungo. Dobbiamo prepararci ad ulteriori più vergognosi servilismi e capitolazionismi delle classi dominanti, europee in specie.

5. Abbiamo adesso, sia pure in sintesi, una serie di elementi per poter trarre alcune, pur provvisorie, conclusioni sempre utilizzando, come paradigma di riferimento, la concezione leniniana dell’imperialismo. Non la prima caratteristica di tale concezione, e nemmeno la seconda e terza – pur tutte ancor oggi presenti – sono quelle che vanno poste in primo piano; molto più decisive, e da porre al centro della complessiva concezione in oggetto, sono la quarta e quinta. Certamente, quest’ultima – lo scontro interimperialistico tra Stati (grandi potenze) – viene oggi a mancare, ma questa mancanza non è un semplice zero; essa è pur sempre una “causa” produttiva di effetti, fra cui quelli cui stiamo assistendo in questi giorni. È insomma un’assenza che sta producendo guai, diversi ma in futuro non meno grossi, di quelli che procurerebbe una sua eventuale presenza.
La competizione interimprenditorale per i mercati (e non solo per questi) – cioè la quarta caratteristica leniniana – non può trovare sfogo in una più aperta competizione politica (al limite estremo militare) tra Stati, a causa della strutturazione dei differenti blocchi dominanti esistenti nel paese centrale e in quelli non centrali, strutturazione diversa che continuerà a produrre per lungo tempo i suoi effetti di subordinazione delle classi dominanti dei secondi rispetto a quella del primo. La competizione politica (e militare in senso lato) viene dirottata lungo nuove direttrici, si serve di altre contraddizioni varie esistenti nel mondo, utilizza un personale altro rispetto ai contrapposti eserciti di un tempo. La sensazione più superficiale è quella della fine delle funzioni degli Stati (ma solo quelle esercitate verso l’esterno), i vari eserciti (tipo quelli della NATO) si muovono in apparente sintonia sotto la schiacciante supremazia e direzione di quello USA, indirizzando la loro aggressività verso qualche “nemico d’occasione”, che non sia del tutto sollecito agli ordini del “mondo occidentale”.
Tuttavia, “sotto sotto” continua la competizione, “qualcosa” – alla cui analisi noi siamo ancora vergognosamente impreparati – si muove con sempre più minacciose modalità, utilizzando tutta la frustrazione e odio, che un imperialismo estremamente duro – forse il più feroce nella storia – come quello USA, in stretta alleanza con l’alleato strategico israeliano, ha seminato nel mondo. Ho la nettissima sensazione che, purtroppo, anche le minacciose modalità di cui sopra siano ancor oggi sfruttate principalmente, e magari contro la volontà e l’intenzione degli avversari, da “ambienti” che favoriscono, in ultima analisi, i due imperialismi appena nominati, nel tentativo di allontanare per quanto possibile il momento in cui possa eventualmente formarsi qualche centro più fortemente ed efficacemente conflittuale (a tutto campo, non solo dal punto di vista economico). Il problema non è però nient’affatto un – secondo degli scriteriati ideologi, alcuni anche della “sinistra estrema” – epocale e irreversibile esaurimento dell’importanza degli Stati nazionali, bensì la sussistenza, pur dopo la fine del socialismo reale, di certi blocchi sociali dominanti nei paesi capitalistici avanzati non centrali, che trovano la loro espressività politica nelle “destre” e nelle “sinistre” cui ci troviamo oggi di fronte come nemici sempre più pericolosi e sempre più servili verso i dominanti del paese centrale.
Si tenga conto che siamo ormai ad una svolta, dalla quale si esce o rinnovati o zombies. Anche continuare ad essere corrivi verso tesi, spero non volontariamente, demenziali come il negriano Impero o la tassazione del capitale finanziario o la bontà e misericordia verso i poveri e diseredati, ecc., assume un aspetto sinistro. Ricordiamoci quello che scriveva un tempo Brecht in una sua poesia dei bui anni ’30, e che dice approssimativamente così: “Viviamo tempi in cui parlare d’alberi è un delitto”.

Conegliano 13-9-01