IL VASTO ASTENSIONISMO NELLE ULTIME ELEZIONI EUROPEE È IL PRIMO E PIÙ PROBANTE SEGNALE DELLA LONTANANZA DELLE POPOLAZIONI DEL VECCHIO CONTINENTE DAL DISEGNO DI MAASTRICHT E DALLE SUE POLITICHE LIBERISTE.
I numeri del nuovo parlamento europeo dicono che, su un totale di 732 seggi, continuano a prevalere i popolari con 276 deputati sui socialisti (200 deputati), seguiti a distanza da liberaldemocratici (66), verdi (42), comunisti e sinistra radicale (39), destre e raggruppamenti euroscettici (rispettivamente 27 e 15 deputati), più un nutrito lotto di non iscritti ad alcun gruppo. Ma il dato clamoroso evidenziatosi nel recente voto del 12/13 giugno è la sonora bocciatura di questa Europa, del processo di costruzione delle sue istituzioni e della sua politica: un’entità che si mostra verticistica e burocratica, lontana dai popoli e dalla loro sempre più precaria condizione sociale, incapace di offrire concrete risposte ai milioni di disoccupati che la abitano. Di qui proviene innanzitutto e dilaga la disaffezione al voto: l’affluenza alle urne, già scarsa nelle precedenti elezioni del 1999 (49,8%), cala ancora fino a toccare in media il 45%. Nel cuore del continente si segnalano significativi record negativi: in Francia vota solo il 43% degli aventi diritto, in Germania il 40%, in Spagna il 46% (l’affluenza più bassa di sempre). E soprattutto i paesi dell’Est Europa, appena entrati nel consesso dell’Ue, manifestano il loro scarsissimo entusiasmo facendo registrare complessivamente un misero 28,7% di partecipazione alla consultazione, con punte record di astensione in Slovacchia (83%), in Polonia (79%), in Estonia (73%), in Slovenia e nella Repubblica Ceca (72%). Con ogni evidenza, la gente di questi paesi non si appassiona al progetto europeo; né potrebbe essere altrimenti. K.S. Karol menzionava recentemente (cfr. Il manifesto del 16-6-2004) le cinque priorità per un’Europa sociale, così come erano state indicate su Le Monde da alcuni dirigenti socialisti quattro giorni prima delle elezioni: “un tasso di disoccupazione inferiore al 5%, un tasso di povertà inferiore al 5%, un tasso di senza casa inferiore al 3%, un tasso di analfabetismo all’età di dieci anni inferiore al 3%, un aiuto pubblico allo sviluppo dei paesi del sud del mondo superiore all’1% del Pil”. Per quanti a Est stanno provando l’ebbrezza del liberismo selvaggio – con una disoccupazione che viaggia su percentuali a due cifre, con assetti istituzionali devastati da corruzione e criminalità crescenti in misura esponenziale – quegli obiettivi potrebbero sembrare un’infelice provocazione: di fatto essi rappresentano l’implicita ammissione dell’ineluttabilità di una spaccatura dell’Europa, di una compagine politico- istituzionale governata in politica economica sulla base di orientamenti classisti e, in tal modo, destinata a vedere approfondite le polarizzazioni sociali e geografiche.
Ma l’esangue appeal di questa Europa è parso evidente, perfino al di là delle intenzioni dei proponenti, nel carattere impresso prevalentemente alle stesse campagne elettorali. In effetti, di cosa si è discusso nelle maratone mediatiche che hanno preparato e, successivamente, commentato il voto? Quanto i temi specificamente ‘europei’ hanno concretamente occupato i canali dell’opinione diffusa? Di fatto, va sottolineata una sostanziale latitanza dei suddetti temi ed una predominante attenzione per le vicende politiche interne ai singoli paesi. Eppure, mentre scriviamo sono arrivate in dirittura d’arrivo decisioni che riguardano l’immediato futuro dell’Unione – in sede politica, istituzionale ed economica – a cominciare da quelle concernenti la definitiva configurazione del Trattato costituzionale: una costituzione, come è stato detto, senza una vera e propria costituente che sia espressione della partecipazione popolare. Così, al chiuso delle stanze di Bruxelles, se non si è arrivati a sancire nella carta costituzionale il riferimento confessionale alle radici giudaico-cristiane, si è comunque optato per un preambolo che manca di includere una chiara formulazione contro la guerra, peraltro rifiutata a gran voce dalla maggioranza della popolazione europea: silenzio – questo – che esprime bene la lacerazione già prodottasi in occasione dell’aggressione Usa all’Iraq. Né è stato modificato l’impianto strutturalmente liberista della carta medesima, che sul filo dei principi fondamentali piega i diritti del lavoro alle supreme esigenze del mercato e dell’impresa: non deve dunque sorprendere che, in una forma appena ammorbidita, il famigerato “patto di stabilità” (vero e proprio patto-capestro per le masse popolari) continui a ispirare gli orientamenti di fondo dell’Unione. Allo stesso modo, non è un caso che sia confermata la splendida primazia della Banca centrale e che la recente proposta di un supercommissario per le politiche economiche venga a prospettare, quale misura prioritaria in queste materie, l’ennesimo intervento restrittivo sui sistemi previdenziali dei paesi membri.
Ancora più avulse dal contesto reale e sottratte alla comune comprensione appaiono le alchimie attorno a cui ci si è a lungo confrontati e divisi, per trovare modalità di regolazione delle procedure decisionali in seno all’organismo esecutivo nonché un criterio condiviso per la composizione di questo stesso organismo. Il sistema di voto infine approvato – votazione a maggioranza qualificata (55% dei paesi e 65% della popolazione europea) con una serie di eccezioni che frenano o bloccano la decisione e con un allargamento delle materie su cui grava il potere di veto – rappresenta una mediazione (tra avversari e fautori della velocizzazione dei dispositivi procedurali) che, nella sostanza, rispecchia tutte le difficoltà del percorso e, segnatamente, il prevalere delle esigenze di autotutela dei singoli stati membri. Ma ciò conferma anche il carattere di incompiutezza di questa Europa e il suo deficit di trasparenza: come ha rilevato a suo tempo Gianni Ferrara, nel commentare la bozza provvisoria di costituzione che la Convenzione presieduta da Giscard d’Estaing aveva approntato, “la sovranità resta assicurata agli Stati; anzi, agli esecutivi degli Stati, ai governi, che, dovendola esercitare nella dimensione sopranazionale, quella ove realmente si conta, riescono con tutto l’agio possibile a sottrarla ai singoli popoli, cui sono preposti. E’ così spiegato l’arcano di un modello di Stato (quale è quello federale)… senza Stato, senza nazione e senza popolo” (La rivista del manifesto, n°34, dicembre 2002). In definitiva, nel caso delle elezioni europee, lo stesso esercizio del voto serve a dare solo formalmente sovranità all’Unione, mantenendo di fatto le leve della suddetta sovranità in mano agli esecutivi degli stati nazionali, così da poter collocare scelte e orientamenti fondamentali su di un fantomatico livello sopranazionale e sottrarle al controllo dell’organismo parlamentare, sia nazionale che europeo.
Nelle condizioni sopra descritte non c’è da sorprendersi che il voto europeo sia stato essenzialmente un voto contro i governi, eminentemente determinato dal drastico e diffuso peggioramento delle condizioni di vita delle masse. Senza dubbio, una quota di consenso è andata a premiare posizioni di coerente opposizione alla guerra: è il caso, oltre che della Spagna di Zapatero, delle forze politiche collocate in Italia alla sinistra del cosiddetto ‘Triciclo’ o, in Germania, dei Verdi. Tuttavia occorre aggiungere che, in generale, si è assistito ad un’avanzata delle opposizioni e al contemporaneo crollo delle forze di governo, sia di centro-sinistra che di centro-destra e comunque collocate rispetto all’intervento bellico in Iraq. In effetti, se mantengono le loro posizioni elettorali governi di recente nomina (in Spagna e in Grecia), ben diversa è la situazione nel resto d’Europa: in Germania, crollano al minimo storico i socialdemocratici della Spd (dal 30,7% delle europee ’99 al 23%), cedendo 10 dei loro 33 seggi parlamentari; in Inghilterra scende fino al 22,3% il Labour di Tony Blair, perdendo ulteriormente quota rispetto alle precedenti europee (26,3%); in Francia resta al palo la coalizione governativa di centrodestra, sopravanzata dai socialisti che sfondano elettoralmente conquistando il 29% dei suffragi e passando da 22 a 31 deputati europei. Analogamente, sono ampiamente penalizzati dall’elettorato il premier irlandese Bertie Ahern, quello socialdemocratico svedese Goeran Persson, il liberale belga Guy Verhofstadt, il conservatore austriaco Wolfgang Schuessel. Questo plebiscito contro i governi risulta ancora più marcato nei paesi est-europei, certamente favorito dal tasso altissimo delle astensioni: in Estonia l’opposizione socialdemocratica prevale ai danni del centro-destra, il quale deve lasciare 5 dei 6 seggi attribuiti al più piccolo dei tre paesi baltici. Ma la “legge del pendolo” funziona anche e soprattutto nell’opposta direzione: in Polonia vince il centro-destra e il centro-sinistra al governo precipita all’11% (alle politiche del 2001 aveva ottenuto il 41% dei voti), così come in Ungheria, Lettonia, Lituania, Slovenia e Repubblica Ceca. Più di un campanello d’allarme dovrebbe suonare nei quartier generali delle socialdemocrazie europee: non c’è alcuna rendita di posizione che possa garantire consenso “a prescindere”, quando cioè le politiche praticate dai governi di centro-sinistra risultino altrettanto impopolari e troppo simili a quelle praticate dal centro-destra. La crisi delle politiche di Maastricht è del tutto evidente e dirompente si è fatta la questione sociale. Eppure sembra che la notte non abbia ancora portato consiglio, visto che il numero due dell’Spd tedesca, Klaus Uwe Benneter, all’indomani della disfatta insiste a dire che “rinunciare alle riforme programmate sarebbe da irresponsabili” e che il nostro vicepresidente del Senato nonché esponente autorevole del centro-sinistra, Lamberto Dini, sentenzia: “L’euro si fonda e si regge su due pilastri: l’indipendenza della Banca centrale europea e il Patto di stabilità” (Il Sole 24 Ore del 16-6-2004). Così stando le cose, se non si profila all’orizzonte alcun netto segnale di discontinuità, perché mai i lavoratori, i disoccupati, le donne e i giovani europei non dovrebbero allora dichiarare all’unisono: “Questa Europa non è la nostra Europa”?
Tale sciagurata sordità mette a rischio l’auspicabile prospettiva di un’Europa di pace e svincolata dalle avventure dell’imperialismo Usa, votata ad un modello di equità sociale e dunque diverso da quello rappresentato dalle politiche neoliberiste. Si tratta di un rischio tanto più concreto in quanto il voto di protesta – suscitato da quella medesima sordità – è per definizione un voto tutt’altro che consolidato e politicamente maturo: esso può direzionarsi verso sinistra ma, con l’incalzare della crisi, anche verso destra e assumere quindi di caso in caso connotati reazionari, isolazionistici, populisti e xenofobi. E’ quel che sta già succedendo in diversi contesti nazionali: in Inghilterra, dove l’United Kingdom Indipendent Party (UKIP) si rende protagonista di una clamorosa avanzata (dal 6,5 delle precedenti europee al 17%) conquistando 12 seggi al parlamento europeo; in Svezia, con la Junilisten (Lista di giugno), creata nel 2003 sulla spinta del no all’euro, che arriva al 14,4%; in Austria, dove Jörg Haider perde terreno, ma la lista di Hans Peter Martin (noto per le sue denunce contro le frodi degli eurodeputati) raccoglie un buon pezzo del voto di protesta; in Belgio, con il Vlaams Blok che nella regione fiamminga sopravanza il partito liberale del Primo Ministro Guy Verhofstadt; in Polonia, dove la reazionaria Lega delle famiglie polacche ottiene un ottimo 16%.
In questo quadro, buone notizie arrivano dal voto comunista, in crescita quasi ovunque. Con due eccezioni negative. In Spagna, non si arresta infatti la caduta libera di Izquierda Unida, che crolla al 4,1%, suo minimo storico, perde lo 0,8% rispetto alle politiche dello scorso marzo (e l’1,7% rispetto alle precedenti europee) e riesce a mantenere solo uno dei suoi quattro eurodeputati. La seconda delle eccezioni negative è costituita dall’arretramento in Francia della coalizione trotzkista Ligue Communiste/Lutte Ouvrière, che passa dal 5,2% del 1999 al 2,6%, perdendo praticamente la metà del milione di voti mantenuti sino al 2004 e tutti e cinque i parlamentari eletti nelle precedenti consultazioni europee. Nonostante questi due casi in controtendenza – i quali meriterebbero un ragionamento ad hoc circa i motivi peculiari che li hanno determinati – si può senz’altro dire che l’esito del voto, per i comunisti, è in generale positivo. In Italia, Rifondazione Comunista avanza al 6,1% (+1,1 sulle politiche, +1,8 sulle europee) guadagnando un seggio sui quattro già occupati. Questa medesima percentuale è raggiunta da un altro dei principali promotori della Sinistra Europea (S.E.), la Pds tedesca (+1,2 sulle legislative, +0,3 sulle precedenti europee), la quale supera lo sbarramento e porta la sua dotazione parlamentare da 6 a 7 seggi. Tiene, seppure con un risultato non brillante, il Pcf (anch’esso facente parte del gruppo promotore della S.E., benché la sua definitiva partecipazione sia legata all’esito di un referendum interno da tenersi in questa fase postelettorale): il suo 5,2% lo porta leggermente al di sopra della percentuale conseguita alle politiche (+0,1) ma gli fa perdere 4 dei 6 deputati eletti nel ’99. E’ da segnalare che, assieme all’ex responsabile esteri Francis Wurtz, viene eletto il sindaco di Calais Jacky Hénin, candidato della roccaforte operaia e di matrice marcatamente “identitaria”, che col 6,80% ottiene il miglior risultato per il suo partito. Molto buono è il voto dei partiti comunisti che non hanno aderito alla S.E., sia quelli che hanno espresso un giudizio del tutto critico – come il greco KKE, che conferma i suoi tre seggi conseguendo il suo miglior risultato dal 1990 in poi (9,5%) – sia quelli che hanno preferito mantenere la veste di semplici ‘osservatori’: tra questi ultimi, segnaliamo il Pc ceco-moravo (KSCM), che con il 20,3% migliora la già alta percentuale riportata nelle precedenti legislative diventando il secondo partito del suo paese, e il Pc portoghese che si attesta al 9,2 (+2,4 sulle legislative) confermando i suoi due seggi europei. Questi dati smentiscono seccamente la tesi di quanti ritengono che, per essere elettoralmente attrattivi, debbano essere abbandonati o annacquati i connotati identitari e qualsiasi riferimento al marxismo e al comunismo. In realtà, è soprattutto ai partiti comunisti – al consolidamento del loro radicamento di classe e ad una loro complessiva intesa unitaria, ma anche alla loro capacità di egemonia nel quadro di un più vasto schieramento progressista (contro la guerra e il liberismo) – che è ancora affidata la possibilità di condizionare e cambiare il cammino dell’ Europa, nella prospettiva di un’ Europa sociale, autonoma dagli Usa e democratica, che vada dall’Atlantico agli Urali.
Concludiamo queste note con un rapido sguardo sul contesto italiano, dove si è registrata una buona affluenza alle urne (73%) molto probabilmente indotta dalla considerazione di problematiche prettamente interne e dalla concomitanza di consultazioni amministrative. Abbiamo ricordato il buon risultato del Prc, che cresce in percentuale e in numero di voti non solo rispetto alle europee del ’99 (4,3%) ma anche rispetto alle regionali del 2000 (5,1%) e alle politiche del 2001 (5%). Va sottolineato che tutto l’insieme delle forze politiche alla sinistra della lista ‘Uniti per l’Ulivo’ ottiene un buon risultato, conquistando oltre il 13% dei suffragi e caratterizzandosi come un gruppo eterogeneo ma consistente: in particolare, il Pdci e i Verdi consolidano il proprio consenso attestandosi entrambi al 2,5%. Accanto alla propria performance, in fondo è proprio questa la buona notizia per il Prc: a sinistra il clima è cambiato e, sull’onda dei movimenti di massa di questi anni, si è aperta una salutare dialettica dentro e fuori il ‘triciclo’, all’interno dei singoli partiti e tra questi stessi partiti e i movimenti, che consente di affrontare la difficile discussione programmatica in corso sulla base di più favorevoli rapporti di forza. La modificazione delle posizioni in merito alla guerra in Iraq è a questo proposito emblematica: la situazione è oggi ben diversa da quella che ci vedeva manifestare praticamente da soli contro i bombardamenti su Belgrado. In particolare, la buona prova elettorale di Rifondazione Comunista si è prodotta fondamentalmente sulla base di tre fattori. Certamente una quota di consenso è arrivata per la coerente posizione mantenuta sulla questione irachena: beninteso, tale fattore non ha premiato solo il Prc, ma di certo anche il Prc.
In secondo luogo, ha pesato la sempre più profonda crisi sociale ed economica: anche su questo punto la nettezza e la radicalità della collocazione del partito, il suo schierarsi in appoggio alle lotte sociali e alle vertenze dei lavoratori ha certamente convinto molti elettori circa la necessità di dare forza e potere di condizionamento al Prc.
Ma, in terzo luogo, nessuna delle due precedenti motivazioni avrebbe potuto esprimere appieno il suo potenziale se non fosse stato deciso all’indomani del congresso di offrire un più marcato profilo unitario, una chiara disponibilità al confronto per arrivare a battere il governo delle destre. Questo confronto è oggi in corso e il suo esito è tutt’altro che scontato: guai se il Prc cessasse di caratterizzarsi per la decisione con cui tiene ferma la barra di pochi e semplici contenuti (pace, stop al carovita, aumento di retribuzioni e pensioni, salvaguardia dei beni pubblici, sistema elettorale proporzionale). Ma tale confronto va perseguito con un’intenzionalità che non deve lasciare dubbi.
Senza la percezione di una volontà unitaria, la radicalità – pur necessaria – non riesce a convincere: unità e radicalità, appunto, devono andare insieme.
Anche nel nostro paese, come nel resto d’Europa, la principale forza di governo subisce un netto rovescio. Rispetto al 2001, Forza Italia cala dal 29,4 al 21%, arretrando ben oltre la soglia minima (25%) indicata dal suo leader, il quale incassa una secca sconfitta politica e personale. Va detto però che nel complesso la coalizione di governo regge, grazie alla sostanziale tenuta di A.N. e ai buoni risultati della Lega (+1%) e, soprattutto, dell’Udc (+2,7%): tant’è che alla fine dei conti il bilancio tra centro-destra e centro-sinistra resta pressoché in parità. Da un lato, è evidente che la sconfitta della forza maggioritaria della coalizione, facendo perdere a questa una parte del suo potere di condizionamento, muta i rapporti di forza tra i partiti in questione e può rendere più rissosa la dialettica interna, più problematica la già precaria ricerca di una linea comune. D’altro lato, è certo che la compagine governativa opererà per un suo ricompattamento e non farà alcuno sconto sugli obiettivi di programma. Significativo, a questo proposito, l’editoriale comparso sul Sole 24 Ore il giorno immediatamente successivo le elezioni, in cui è praticamente dettata la linea da seguire. “Niente risse” e “atti concreti”: in sintesi, nessuna mediazione al ribasso sulla ‘riforma’ delle pensioni, nuova legge sulla tutela del risparmio, eliminazione dell’Irap, nuova spinta alle liberalizzazioni (a partire da quella energetica), riduzione delle aliquote fiscali (primo punto del ‘contratto’ di Berlusconi con gli italiani).
In sintonia con il nuovo corso di Confindustria, l’articolo precisa che tutto ciò va fatto tentando di “coinvolgere l’anima riformista dell’opposizione, per attuare quella modernizzazione del paese che non appartiene né alla destra né alla sinistra” (Il Sole 24 Ore del 14-6-2004). A questo programma tutt’altro che neutrale e di chiara matrice antipopolare deve rispondere con un proprio programma di alternativa la coalizione
delle forze di centro-sinistra, di sinistra e comuniste.
E la sinistra di alternativa – che non deve essere né un partito né una mera somma di partiti, ma un insieme composto da partiti, aree interne a partiti, sindacati, forze dell’associazionismo, movimenti – ha il delicato compito di far vivere nel suddetto programma i contenuti delle lotte e dei movimenti di massa sviluppatisi in questi ultimi anni, incrociando gli interessi e i bisogni, sino ad oggi mortificati, del “popolo della sinistra”. Si tratta di un compito non facile, ma neanche impossibile.
La stessa lista unitaria del ‘Triciclo’ è oggi percorsa da tensioni, anche a seguito di un voto che è certo numericamente consistente, ma che tuttavia non fa decollare il progetto del ‘partito democratico’: in effetti, il numero di voti ottenuti dalla lista ‘Uniti per l’Ulivo’ non raggiunge nemmeno quello raccolto nel 1999 dalla somma dei partiti che la compongono. Evidentemente, per un verso, non tutti gli elettori moderati gradiscono un abbraccio troppo stretto con i Ds; e, per altro verso, all’interno degli stessi Ds non è certo da tutti recepito con entusiasmo l’abbandono definitivo della propria storia e della propria identità. Anche per questo si può dire con ragione che questo voto esprime di fatto un’insofferenza nei confronti di quella vera e propria camicia di forza che è costituita dal modello bipolare.
In definitiva, si è aperta a sinistra una dialettica virtuosa: all’interno di questa, il ruolo dei comunisti è oggi più decisivo di ieri. Cerchiamo di far fruttare questa dote.