Nietzsche e le derive della Sinistra

A partire dal noto intervento di Jean-François Lyotard su La condition post-moderne, del 1979, il postmodernismo viene definito come l’annuncio della fine delle «grandi narrazioni». Di quelle grandi sintesi concettuali, cioè, attraverso le quali la modernità ha legittimato se stessa e la propria Kultur, prime fra tutte l’idea di un sapere universale che si costruisce progressivamente e quella di un’analogamente progressiva emancipazione generale degli uomini e delle donne. Si tratta, in altre parole, della acquisita impraticabilità di ciò che Hegel e Marx chiamavano «filosofia della storia », di ogni tentativo di individuare nella storia stessa e negli eventi un senso compiuto, un filo conduttore – e non necessariamente un telos ineluttabile – che renda il mondo umano-relazionale comprensibile, praticabile, trasformabile in maniera consapevole, collettiva, organizzata. Già in Gilles Deleuze, in effetti, questa tesi è già implicitamente presente. Deleuze contestava la dialettica hegeliana in nome di ciò che è assolutamente differente e dunque non razionalizzabile: l’individualità irriducibile che non si oppone o nega ma si afferma da sé (e che, più tardi, desidera). E anche in Michel Foucault la critica delle categorie di uomo e di storia andava in questa direzione (ci sono solo uomini, solo storie…). È espressa in maniera esplicita, qui e in molti altri intellettuali a partire dagli anni Settanta, una denuncia della natura totalitaria della modernità. Proprio in quanto è un progetto di emancipazione, essa mette capo ad istituti e processi – la ragione, lo Stato, il potere, il terrore politico – che svuotano di senso la libertà individuale. È in nome della libertà assoluta dell’individuo (che deve sfuggire anche alla definizione di soggetto, protagonista e succube di un percorso di as-soggettamento) che essi parlano. Ed è per questo che affermano, al limite, che niente ha “senso”, ma che tutto è interpretazione, prospettiva, punto di vista, genealogia. È una visione ermeneutica che sarà proposta, per fare un esempio, anche da Gianni Vattimo, sebbene in maniera profondamente diversa. Questa impostazione ha fatto breccia prevalentemente a sinistra. Anzi, si tratta forse di uno dei principali ambiti di riflessione in cui si è dipanata l’evoluzione culturale della sinistra mainstream, il suo esodo dal materialismo storico ad altre forme culturali che si vogliono più innovative e radicali. Stanno a dimostrarlo da molto tempo le pagine culturali de “il manifesto” e il tentativo di scimmiottarle da parte della “Liberazione” di Sansonetti. A guardar bene, però, tutti gli sforzi di “innovazione” politica e culturale della Rifondazione Comunista di Bertinotti possono essere letti a partire da questa prospettiva (le rivoluzioni, la storia controfattuale, la nonviolenza, la mossa del cavallo…). Una ricostruzione genetica di questi percorsi sarebbe molto lunga. È un passaggio nel quale, ad esempio, un ruolo notevole hanno avuto anche i Cultural studies, che hanno messo in discussione con l’etnocentrismo occidentale anche l’universalismo di matrice illuminista, considerato come un discorso intrinsecamente apologetico del dominio coloniale europeo. Nel complesso, mi sembra però che l’ampia diffusione di queste tematiche testimoni la presenza di un equivoco. Certamente c’era nei fautori della svolta postmoderna l’intenzione di operare una critica radicale della società capitalistica e delle forme di potere in essa vigenti, andando al di là di Marx e della tradizione marxista e servendosi di una selezione di autori borghesi “eretici”. C’era ovviamente anche una critica serrata nei confronti del socialismo reale, visto come un complesso di potere e di produttivismo non diverso da quello capitalistico. È facile comprendere allora come questa impostazione abbia potuto incontrarsi con la genesi della nuova sinistra in Europa e in Italia, nel ciclo 1968-77, e come essa dovesse aggredire l’egemonia dello storicismo gramsciano in nome di un rinnovamento e di una modernizzazione culturale che pretendeva di essere più adeguata alla fase. A mettere in discussione la legittimità di questa operazione c’è però un fatto: il richiamo pressoché univoco dei postmodernisti a Nietzsche (già il termine postmoderno nasce nel 1917 nel George-Kreis, in un ambito cioè inequivocabilmente di destra). Ora, è possibile richiamarsi proprio a Nietzsche per fondare una critica radicale del dominio? Non è in discussione la grandezza intellettuale di Nietzsche né la proficuità delle sue analisi filosofiche. Nietzsche effettivamente mette a nudo la miseria dell’universalismo occidentale, la sua falsità e parzialità. Come spiegherà benissimo ancora ai nostri giorni un altro ammiratore reazionario del filosofo tedesco, Samuel P. Huntington, ciò che noi chiamiamo valori universali sono in realtà valori occidentali imposti ad altre Civilizations. È, detta in maniera diversa, proprio la tesi sostenuta da Nietzsche quando parlava del prospettivismo della verità e della volontà di potenza come capacità di imporre e praticare un punto di vista parziale. Proprio questo è però il limite del postmodernismo nietzscheano di sinistra. Un limite condiviso da chi cerca ispirazione in altri autori come Heidegger o Schmitt. Di fronte alla contraddittorietà dell’universalismo occidentale è legittimo prendere le difese del particolare. È giusto cioè pensare a un universalismo in grado di tener conto anche delle ragioni e degli interessi parziali. Ma ciò che alla sensibilità della sinistra occidentale appare come una difesa dell’individuale e delle differenze, era per Nietzsche la contestazione più spietata e cinica dell’universalismo in quanto tale. L’affermazione del fatto che non c’è universalità possibile e dunque non c’è eguaglianza ma sussistono solo la particolarità e la sua capacità di affermarsi con la forza. È per questo che l’individualismo libertario postmodernista mi è sempre sembrato un grande equivoco. L’equivoco di una cultura che mentre affermava l’assoluta libertà individuale e la più radicale volontà di critica dell’esistente si rivelava essere intimamente solidale con i presupposti della svolta neoliberista iniziata alla fine degli anni Settanta. Una copertura ideologica, tutta di sinistra, dei processi di frantumazione del lavoro e di precarizzazione delle esistenze individuali. E anche l’invito a interpretare diversamente e giocosamente il mondo (l’ermeneutica), lasciando perdere ogni tentativo di trasformarlo per via pratica, con buona pace delle Tesi su Feuerbach.

POSTMODERNISMO E LIBERALISMO

È per questo che insieme alla casa editrice Odradek abbiamo deciso di tradurre e pubblicare questo importante libro dello studioso tedesco Jan Rehmann (I nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo, a cura di S.G. Azzarà, Odradek, Roma 2009, pp. 235, euro 20). Rehmann insegna allo Union Theological Seminary di New York e alla Freie Universität di Berlino. È un allievo di Wolfgang Fritz Haug, con il quale ha approfondito le questioni di teoria dell’ideologia, e collabora con quella grande impresa che è il Dizionario storico-critico del marxismo. In questo libro, Rehmann “decostruisce” pezzo per pezzo la lettura che Deleuze e Foucault hanno dato di Nietzsche, mostrandone la convergenza sul terreno di un liberalismo tutt’altro che democratico. Deleuze, ad esempio, confonde la giusta sensibilità verso le differenze individuali con il nietzscheano pathos della distanza, a partire dal quale gli aristocratici, i sani e i potenti fondano le norme morali e impongono i nomi alle cose. La contestazione della dialettica e del ruolo del negativo è dunque apologia inconsapevole della forza. In maniera simile, Deleuze confonde la volontà di potenza nietzscheana, che è volontà di dominio, con la potentia agendi di Spinoza, che è capacità di agire cooperativa e fondamento di ogni democrazia. Foucault critica invece il concetto marxiano di ideologia: se c’è ideologia deve esserci una verità; ma a questa verità noi non crediamo più, perché tutto è “sapere” ed è dunque interpretazione più o meno formalizzata. Ma se tutto è di fatto finzione, narrazione, racconto, allora la verità finisce per essere ancora una volta – ed è giusto che sia così – ciò che si impone con maggior forza. Quando poi Foucault pretende di superare il riduzionismo economicistico della concezione materialistica del potere (la struttura economica fonda il potere politico o sociale), parla sì di una rete relazionale ma finisce per concepire il potere come un’essenza metafisica che fagocita di fatto ogni relazione. Se tutto è potere e se il potere di chi parla dietro una cattedra è lo stesso di chi spara bombe intelligenti, allora niente è potere e tutto può continuare ad andare così come va. La contestazione (di ispirazione heideggeriana) dell’umanesimo occidentale, del primato di un concetto di uomo nel quale affogherebbero le individualità, si rivela poi essere contestazione dello stesso concetto universale di uomo e dunque dell’idea di eguaglianza. Il postmodernismo viene così ridefinito come un elemento culturale importantissimo nell’ambito di una rivoluzione passiva: quella rivoluzione neoliberale che in pochi decenni ha trasformato il nostro mondo e ci ha messo in testa le parole e le idee di quelli che solo poco prima erano i nostri avversari. Il postmoderno come «struttura del sentimento» che riempie di contenuti individualistici presunti quella «compressione spazio- temporale» che segna il passaggio dal fordismo al postfordismo (Jameson, Harvey). Insomma, la sinistra ha a lungo criticato il pensiero unico liberale senza sapere bene cosa fosse. Ma oggi va detto: de te fabula narratur.