Mentre scriviamo il ministro dell’Interno Pisanu ha appena annunciato “nuove misure drastiche” nella prevenzione del terrorismo. Al momento non sappiamo di cosa si tratti, ma lo stesso annuncio senza ulteriori spiegazioni, nel clima di guerra e di pesantissima ubriacatura nazionalistica che si respira, è un messaggio sinistro che non lascia presagire nulla di buono. I morti di Nassiriya dicono a tutti, anche a chi a sinistra aveva rimosso o dimenticato la guerra, che la guerra di Bush continua, che l’Italia partecipa alla guerra e che ciò ha conseguenze inevitabili anche sul piano interno, persino nella agibilità democratica delle forze politiche e sociali. Del resto non si è determinato un clima di censura e persino di autocensura che ha impedito a tutti di dire, per esempio, che gli stessi militari italiani inviati in Iraq sono invasori, occupanti, senza nessuna autorizzazione dell’Onu1? E la manifestazione di Firenze contro il terrorismo, tutti uniti da destra a sinistra, cos’è stata se non un fatto inedito, inimmaginabile solo qualche mese fa, da clima di guerra ? E l’espulsione senza processo dell’Imam di Carmagnola o il linciaggio politico del Vescovo di Caserta, colpevole solo di aver detto ciò che tutta la chiesa diceva solo un anno fa contro la guerra ? E l’assalto alla Fiom e alla Cgil, accusate da esponenti del governo – già prima di Nassiriya – di connivenza col terrorismo, addirittura di “scioperi terroristici”, c’era mai stato in Italia?
Primo obbiettivo: via Berlusconi
Siamo su un crinale molto pericoloso, perché se la valanga della guerra permanente americana di Bush incrocia la gestione che ne fa un governo già pericoloso per conto suo come il governo Berlusconi, può generarsi un vero e proprio corto circuito per la stessa democrazia nel nostro paese. Ecco il motivo principale per mandare via prima possibile questo governo, responsabile non solo della partecipazione italiana alla guerra (in questo non molto diverso dal precedente governo di centro-sinistra) ma soprattutto (e qui c’è la differenza rilevante con il precedente) della costruzione di un clima nazionalistico ed antidemocratico che non c’era mai stato, dai tempi del fascismo, nel nostro Paese. Un clima creato ad arte non solo per giustificare e sostenere la guerra ma anche per far dimenticare i gravi problemi del popolo italiano e per tentare di uscire dalle pesanti difficoltà interne alla stessa compagine governativa. Di qui la pericolosità che cresce nella misura in cui entra in difficoltà, in modo simile all’alleato di oltreoceano. C’è una generale e preoccupante sottovalutazione, anche a sinistra, della stretta antidemocratica, persino nel clima culturale che il nostro Paese sta vivendo, e della possibile ulteriore involuzione della situazione. E’ molto positivo che il movimento dei lavoratori sia di nuovo in campo, dalla Fiom agli autoferrotranvieri alla lotta in difesa delle pensioni, tuttavia è bene avere piena consapevolezza che in un clima di guerra e per di più se si restringe o muore la libera dialettica democratica, anche le lotte sociali diventano molto più difficili e risulterebbe più facile, viceversa, cancellare tutti i diritti più elementari dei lavoratori.
Per questo la prima necessità è quella di mandare via il governo Berlusconi e non farlo tornare a vincere. In questa nuova direzione si è mossa la linea politica di Rifondazione nell’ultimo Comitato Politico Nazionale, togliendo così – fra l’altro – ogni alibi o pretesto alle forze dell’Ulivo, mettendosi in sintonia con la stragrande maggioranza del popolo di sinistra, ancora non scomparso ma anzi protagonista essenziale dei diversi movimenti di lotta degli ultimi anni.
Una forza politica di sinistra che non considerasse come assolutamente primaria l’esigenza di battere Berlusconi, subito e nelle future elezioni, si metterebbe in una condizione di assoluta marginalità al limite della sparizione. Anche per questo chi vuole il bene di Rifondazione ne ha sostenuto, da tempo e senza alcun dubbio, il cambiamento di linea che c’è stato negli ultimi mesi. Tuttavia, per il bene stesso della nuova linea politica, sarebbe stato meglio motivare diversamente il cambiamento, sia nel metodo che nel merito, evitando altresì di passare da un estremo all’altro con troppa disinvoltura. La nuova linea sarebbe stata più convincente, meno generatrice di ulteriori difficoltà oltre a quelle già preesistenti, se fosse stata fondata su una riflessione e su una discussione seria nel corpo del partito su ciò che ha retto dell’analisi congressuale alla verifica dei fatti, ciò che andrebbe corretto, ciò che andrebbe aggiornato ai cambiamenti della situazione, nel mondo e in Italia, senza bisogno di fare un nuovo congresso.
Tralasciamo in questa fase, per evitare di creare ulteriori difficoltà, sia le questioni di metodo che l’analisi del confronto fra realtà di oggi, nuova linea politica ed elaborazione congressuale, dalle questioni internazionali (il superamento dell’imperialismo e delle contraddizioni interimperialistiche fra Usa e Europa, il direttorio mondiale della guerra della globalizzazione, ecc.) alle questioni italiane (il giudizio sul governo Berlusconi e sul centro-sinistra, la sottovalutazione del movimento dei lavoratori e della Cgil, l’enfatizzazione ideologica e persino terminologica del “movimento dei movimenti”). Ciò che ci preme sottolineare oggi è la necessità di evitare di passare, nella linea politica, da un eccesso all’altro, anche per evitare in futuro l’oscillazione opposta. Vorremmo evitare che le difficoltà, obbiettive, alla costruzione di un programma di governo comune con le forze più moderate dell’Ulivo portassero o a un governo comune senza una reale alternativa programmatica oppure nuovamente alla rottura di qualunque accordo. Potrebbe essere mortale per una forza come Rifondazione comunista giungere nella condizione di dover scegliere fra il partecipare ad un accordo organico di governo di basso profilo o nessun accordo per battere Berlusconi.
Quale programma di governo?
Ciò di cui c’è oggi bisogno è un confronto fra tutte le forze di opposizione al governo, un confronto serio, leale, alla luce del sole, sui contenuti programmatici di un auspicabile governo comune alternativo a quello di centro-destra. Che programma dovrebbe avere un governo siffatto, che potesse vedere la partecipazione di Rifondazione Comunista senza che questa vada incontro ad una capitolazione e ad una debacle elettorale2? Accenniamo qui brevemente a ciò che non può essere, confidando che la prevista conferenza programmatica di Rifondazione definisca in positivo i principali punti programmatici di un governo comune. Non può essere senz’altro, ovviamente, in continuità con il governo Berlusconi. Dovrà quindi come prima cosa abrogare le principali leggi del centro-destra, dal falso in bilancio alla legge 30. Ma non può neanche essere in continuità con le politiche condotte dalla sinistra moderata e riformista dagli anni ’90 sino ad ora. Tanto per fare solo alcuni esempi più eclatanti: l’ideologia e la politica delle privatizzazioni di cui il governo Prodi si è persino vantato di aver conseguito il primato; la precarizzazione del lavoro, avviata dal centro-sinistra con l’apologia della “flessibilità” ed il conseguente pacchetto Treu; la prima controriforma strutturale del sistema pensionistico con la riforma Dini; la partecipazione del governo D’Alema, attraverso le basi USA e NATO presenti sul territorio italiano, alla guerra americana contro la Serbia (condotta scaricando un diluvio di missili e bombe a uranio impoverito le cui conseguenze in tumori e leucemie per chissà quanti anni pagheranno quelle popolazioni), senza alcun consenso dell’Onu e in spregio della Costituzione italiana. Per non dimenticare, un po’ più indietro, che la controriforma sanitaria De Lorenzo era del governo Amato del ’92 e la cancellazione definitiva della scala mobile era targata governo Ciampi del ’93, i cui effetti sia sulla sanità che sul potere d’acquisto stiamo ancora pagando. Non ci pare che il “Manifesto” presentato di recente da Romano Prodi, che pure ha avuto il merito finalmente di parlare di contenuti, vada in direzione diversa da quella suddetta, soprattutto sulla politica estera, ma neanche sulle pensioni e sul mercato del lavoro, né ci pare che la linea politica dei Ds e dell’Ulivo sia cambiata a sinistra su spinta dei movimenti. Anzi, nonostante tutti i grandi movimenti degli ultimi anni che hanno portato milioni di persone nelle piazze di tutta Italia, con uno spaccato sociale vastissimo (dai giovani no-global ai lavoratori dell’articolo 18 ai ceti medi dei girotondi fino ad una parte di borghesia col movimento per la pace), le due novità estive dei Ds sono state la proposta di D’Alema di lista-partito unico riformista-moderato con la Margherita e il libro di Fassino di rottura definitiva con Berlinguer e di riabilitazione di Craxi3.
La chiara consapevolezza delle difficoltà, tuttavia, non può portare alla rinuncia – prima ancora di cominciare a discutere – all’obbiettivo di una alternativa programmatica di governo, quantomeno al fine di aprire ulteriormente le contraddizioni nel centro-sinistra, per avvicinare ancora di più, anche programmaticamente, Prc e sinistra dell’Ulivo e, non da ultimo, per aprire le contraddizioni fra il gruppo dirigente dei Ds e la sua base popolare, che possono meglio emergere solo da un confronto sui contenuti di una alternativa di governo a Berlusconi. Contemporaneamente, anche le ultime uscite pubbliche di esponenti della lista unitaria riformista sulla guerra, sulle pensioni e in ultimo sul patto di stabilità europeo nonostante la ripresa del movimento per la pace e l’allargamento delle lotte dei lavoratori (dalla Fiom alla scuola, dagli autoferrotranvieri alla lotta contro la finanziaria), non ci consentono illusioni sulla possibilità di un accordo programmatico di governo e dovrebbero indurre tutti, sia nella sinistra moderata che nella sinistra di alternativa, a non chiudere la strada, oggi, aprioristicamente e avventuristicamente, ad altri tipi di accordo per le elezioni per battere comunque Berlusconi, pericolo principale per la stessa democrazia4.
Del resto, se si esce un po’ dal solito provincialismo italiano, un governo di alternativa al liberismo potrebbe divenire realistico solo se e quando tutta l’Europa avanzasse non solo verso la contrarietà alla guerra americana (come hanno fatto Francia e Germania e la qual cosa è un fatto nuovo rilevante rispetto ai tempi del governo Prodi) ma anche verso una politica estera diversa da quella imperialistica5 e verso una politica economica e sociale alternativa al modello neoliberista americano, più in linea peraltro con la storia dei paesi europei del dopoguerra, quando i gruppi capitalisti europei furono costretti, dalla forza del movimento operaio allora all’offensiva e dalla stessa presenza dell’Unione Sovietica e dei paesi dell’est, ad un patto sociale più avanzato (lo stato sociale europeo) con i rispettivi movimenti operai.
Quale sinistra di alternativa?
La vera novità, determinata dai movimenti ma anche dall’ulteriore svolta moderata dei Ds e dalla costruzione del polo “riformista”, è la lacerazione, quasi la rottura dell’Ulivo, fra una destra (Margherita, Sdi e maggioranza Ds) e una sinistra (minoranza Ds, Pdci e Verdi) che si trova sempre più spesso a votare in parlamento con Rifondazione e a scendere nelle piazze con i movimenti di lotta. Con questa sinistra dell’Ulivo bisogna sempre di più raccordarsi, costruire iniziativa unitaria politica e sociale ed un confronto stringente sui contenuti per scrivere assieme un programma comune più avanzato, alternativo alla guerra e al liberismo. Prende piede finalmente una ipotesi positiva e realizzabile di costruzione di una sinistra di alternativa. Non più nuovi partiti a tavolino, nuovi “soggetti politici”, ma un coordinamento di tutte le forze disponibili a sinistra del “partito riformista”, di tutte le forze politiche (Prc, Pdci, Sinistra Ds, Verdi) e di quelle sociali (Fiom, Cgil, RdB, i diversi Cobas, i Social Forum). Questo è il nuovo cantiere in costruzione, è il campo di iniziativa prioritaria, ma non potrà fare passi in avanti se non a partire da contenuti e azioni comuni di lotta e di movimento. In questa direzione positiva va la nuova iniziativa unitaria del “Forum per una alternativa programmatica di governo” tenuta a battesimo l’8 novembre a Roma in una riuscita assemblea nazionale. In questa sede, oltre che direttamente nella società, vanno proposte le due grandi campagne di massa che Rifondazione ha positivamente deciso nella sua ultima Direzione nazionale.
La prima attorno al problema principale che assilla la maggioranza della popolazione. Il problema del caro vita, del potere d’acquisto di salari, stipendi e pensioni. Ma affinché abbia efficacia serve una proposta, che non può che essere (non ce ne viene in mente un’altra) che un nuovo meccanismo automatico di adeguamento delle retribuzioni all’inflazione reale, ormai sempre più distante dall’inflazione programmata. Più in generale il problema della rappresentanza politica della classe operaia e dei lavoratori è un problema realmente esistente che va assunto come centrale da questa nuova sinistra di alternativa in costruzione.
La seconda campagna di massa riguarda la lotta contro la guerra, per il ritiro dei militari italiani dall’Iraq, non solo con dibattiti e manifestazioni, ma anche attraverso la costruzione di un appello promosso da personalità forti per autorevolezza e rappresentatività, su cui raccogliere milioni di firme, con una mobilitazione diffusa e capillare, in tutti i quartieri e i comuni d’Italia e in tutti i luoghi di lavoro.
Terrorismo o resistenza?
La ripresa del movimento contro la guerra e la riuscita di una raccolta di firme per il ritiro dei militari italiani non vi saranno se non vengono sconfitte e smascherate le tesi propagandistiche e le bugie dei promotori della guerra, italiani e internazionali. In particolare se si casca nella spirale fra guerra e terrorismo. La tesi americana e del governo Berlusconi è semplice ed è la seguente: “L’occupazione militare dell’Iraq non è un intervento imperialistico per il petrolio o per il controllo militare di un area strategica del mondo, ma è una sorta di polizia internazionale contro il terrorismo; la guerriglia irakena contro l’invasore e l’occupante straniero non è resistenza bensì terrorismo”. Se vogliamo una ripresa di massa della lotta contro la guerra e per il ritiro dei militari italiani dobbiamo sconfiggere nell’opinione pubblica questa tesi. Nei mesi iniziali dell’anno i promotori delle grandiose manifestazioni per la pace nelle piazze del nostro paese e di tutto il mondo avevano le idee chiare: Bush vuole fare una guerra illegittima e ingiusta; l’Iraq non c’entra nulla con l’11 settembre; il terrorismo e le armi di distruzione di massa sono una scusa; il vero obbiettivo è il petrolio; l’avversario da sconfiggere per impedire la guerra è il governo americano. Oggi la campagna propagandistica sul terrorismo sta facendo breccia soprattutto nel nostro paese, dove un governo aggressivo viene fronteggiato da una sinistra largamente confusa e subalterna sulle questioni internazionali6. La sinistra moderata ha fatto marcia indietro rispetto alla contrarietà alla guerra di soli sei mesi fa, nonostante oggi – diversamente da ieri – sia crollata la montagna di menzogne, come le armi di distruzione di massa, costruite da Bush e Blair per giustificare la guerra. Ma la situazione è ancora più grave se persino un capace commentatore della sinistra più radicale come Salvatore Cannavò ha scritto, dopo l’attentato a Istanbul, in un editoriale su Liberazione qualcosa da non credere. Testualmente: “Stanno perdendo la guerra. Non riusciamo a provare compiacimento in quest’asserzione. Il fatto che Usa e Gran Bretagna stiano perdendo la guerra irakena – che pure assicuravano di aver vinto solo qualche mese fa – si sta dimostrando così denso di conseguenze negative, foriero di nuovo terrorismo anche dove non c’era – in Iraq innanzitutto ma anche in Turchia – che non riusciamo a rallegrarci”. (Liberazione, 22 novembre 2003). Uno dei pochi commentatori di sinistra che è rimasto lucido di fronte allo psicodramma italiano è stato Giulietto Chiesa che ha scritto: “Ridurre tutto a terrorismo fondamentalista significa fasciarsi occhi e orecchie e illudersi che esso possa essere domato con un incremento di forza militare. In realtà è evidente la presenza – accanto, insieme, intrecciata con il terrorismo – di una potente, diffusa resistenza popolare contro le truppe d’occupazione”. (Editoriale del Manifesto, 15 novembre 2003). Guerra e terrorismo possono essere considerate la stessa faccia della medaglia, se l’altra faccia della medaglia è rappresentata dalla resistenza irakena e dal movimento mondiale contro la guerra.
Resistenza irakena e movimento per la pace
La caduta del regime di Saddam Hussein sotto le bombe a grappolo a uranio impoverito lanciate dai “coraggiosi” invasori ango-americani ha prodotto nella primavera di quest’anno la brusca frenata del movimento mondiale contro la guerra. Nel nostro paese ciò ha significato anche la sconfitta di tutti i movimenti che in quel grandioso 15 febbraio erano confluiti. Sembrava persa la lotta del movimento per la pace. Sembrava ormai vinta anche la terza guerra imperialista dopo le prime due (la prima guerra del Golfo e la guerra del Kossovo) scatenate dopo il roll-back dell’est europeo e dell’Unione Sovietica. Ma questa volta qualcosa non è andato come le altre volte. Che questa guerra fosse diversa dalle precedenti era già chiaro dallo scontro all’Onu, dal duro contrasto fra gli Usa da una parte e Francia, Germania, Russia e Cina dall’altra. Ma dopo l’ingresso delle truppe americane a Bagdad la partita sembrava vinta dagli americani che del resto hanno imposto una risoluzione all’Onu che suona come un’ammissione di sconfitta degli Stati che avevano contrastato la guerra. Ma nonostante ciò l’Iraq non ha ancora capitolato. Tutta la possente macchina da guerra del Golia americano si sta infrangendo nell’imprevedibile Davide della guerriglia irakena. La “brutta, sporca e cattiva” resistenza irakena ha risvegliato il movimento pacifista. Se noi in occidente, a Roma come a Milano, a Londra come a New York, torniamo di nuovo in piazza contro la guerra lo dobbiamo solo e unicamente alla resistenza del popolo irakeno che tiene sotto scacco gli invasori imperialisti.
Terrorismo e comunismo
Il nuovo clima nazionalistico e di guerra che si respira nel Paese è il terreno scelto dai grandi mezzi di informazione e propaganda della borghesia per un rilancio in grande stile di una vera e propria campagna anticomunista. Anche la guerra, il terrorismo, la resistenza irakena diventano i pretesti per tornare a chiedere, con più forte aggressività, autocritiche, pentimenti, abiure, cambiamenti di nome, il suicidio politico di chi è ancora comunista. In questo clima si percepisce purtroppo anche in alcuni settori della sinistra più radicale, invece che una risposta a questo assalto, quell’ansia nuovista di liberarsi del “piombo nelle ali”, del “pesante fardello” delle teorie comuniste e operaie del ‘900. Significativo di queste tendenze è ciò che scrivono e dicono a getto continuo Adriano Sofri, Toni Negri e Marco Revelli che esercitano un vero e proprio pressing ideologico proteso e finalizzato alla rottura con ogni cultura comunista e del movimento operaio. In particolare la guerra americana e la resistenza irakena hanno riaperto una vecchia discussione sulla questione della non-violenza e dei rapporti fra storia comunista, violenza e terrorismo. Si potrebbe scrivere tanto, anche se già tanto è stato scritto ed è ancora attualissimo, a partire dagli scritti di Marx, Lenin, Gramsci, fino alle infinite polemiche italiane negli anni ’70 e ’80. Ci limitiamo a qualche sintetica considerazione politica.
La questione della non-violenza. Se si intende sostenere che la non-violenza deve essere la prassi politica nell’Italia di oggi, non c’è nulla di nuovo per chi viene da una cultura comunista che ha costruito ed accettato la Costituzione italiana, mentre per chi è stato uno dei capi storici dell’area dell’autonomia è una improvvisa quanto sospetta conversione7. Se invece si sostiene la non-violenza come nuova teoria identitaria, come un principio universale al di fuori del tempo e dello spazio, questo porterebbe inevitabilmente alla presa di distanza dalla lotta armata popolare e di liberazione dovunque essa si svolga e in qualunque periodo storico, sia oggi in Iraq, in Colombia o in Palestina che ieri durante la Resistenza in Italia. Ogni astrazione sulle forme di lotta, a prescindere dalla situazione concreta, dal periodo storico e dal luogo in cui si opera, è foriera di errori catastrofici per il movimento operaio.
La questione del rapporto fra terrorismo, violenza e storia comunista. E’ curioso che proprio quando il più forte stato capitalistico del mondo, con tutta la sua brutale potenza e tecnica militare, sta conducendo contro un piccolo e povero paese già martoriato da un embargo decennale, una delle più vergognose guerre di aggressione, cioè scaricando violenza e terrorismo all’ennesima potenza, facendo stragi di vecchi, donne e bambini8, qualcuno si attarda ancora a puntare il dito contro la storia dei comunisti e del movimento operaio.
Questa tesi anticomunista va rovesciata nel suo contrario. Violenza, terrorismo, guerra sono gli strumenti privilegiati dei nostri avversari di classe, persino insiti nella natura stessa del capitalismo. Al contrario, non sono stati terroristi i bolscevichi russi sotto lo zarismo, come non lo sono stati i comunisti italiani sotto il fascismo, quelli tedeschi sotto Hitler, quelli cinesi contro Ciang Kai-shek, quelli cubani contro la dittatura di Batista, quelli vietnamiti contro gli aggressori statunitensi. All’indomani del provocatorio attentato dell’aprile 1928 alla Fiera di Milano, che il regime fascista attribuì ai comunisti e che sfruttò per scatenare una nuova forsennata campagna anticomunista, il massimo organo dirigente del PCI pubblicò un comunicato che merita di essere ricordato: “Di fronte a questa nuova campagna il partito comunista dichiara la propria volontà e capacità di continuare la lotta nella quale esso dirige le forze migliori del proletariato italiano. Il partito comunista continuerà a combattere per il salario degli operai, per la difesa di tutti i lavoratori dallo sfruttamento capitalistico, per la libertà della classe operaia e di tutto il popolo lavoratore italiano. Il partito comunista non permetterà che venga travisata la sua figura di partito di classe, di partito che esprime i bisogni, i desideri, le aspirazioni delle grandi masse lavoratrici, che è legato ad esse da legami che non si possono spezzare. Il partito comunista non è, e non si lascerà mai ridurre ad essere, una setta di terroristi separati dalle masse”. Persino in pieno fascismo i comunisti rifiutavano di ridursi ad un gruppo terroristico per non perdere il legame di massa. Passarono alla resistenza armata – non al terrorismo ma ad una guerra popolare di liberazione – solo successivamente, per liberare il paese dalla occupazione tedesca e dalla guerra imperialistica nella quale l’aveva gettato il fascismo e il nazismo9.
Le radici della violenza e del terrorismo sono da ricercare non dunque nella storia dei comunisti e del movimento dei lavoratori del ‘900, ma al contrario nella storia di cinque secoli di capitalismo, a cominciare dalla violenza embrionale su cui si fonda il meccanismo di accumulazione capitalistica, la violenza sistematica dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo attraverso l’estorsione del plusvalore ai lavoratori. Come è sotto i nostri occhi proprio in questi giorni tristi, è il capitalismo ad avere nel suo seno violenza e guerra, come le nubi hanno la tempesta.
Note
1 Nessuno ha osato dire che i nostri soldati, pur inviati dal governo Berlusconi con l’inganno di una “missione di pace”, non sono equiparabili agli eserciti di leva obbligati alle operazioni militari dell’epoca coloniale. Ben peggio di allora, qui si tratta di volontari, del nuovo esercito di professione italiano costruito nell’ambito del cosiddetto “Nuovo modello di difesa” che prevede non più la difesa del territorio nazionale attraverso l’esercito di leva in sintonia con la Costituzione nata dalla Resistenza, bensì il rapido intervento fuori dal territorio nazionale in ogni luogo vengano minacciati gli interessi nostri e dei nostri alleati americani, quindi per esempio gli interessi delle compagnie petrolifere.
2 Come, per esempio, è avvenuto per il PdCI che ha partecipato ai precedenti governi di centro-sinistra o per PCF che pure partecipava ad un governo come quello francese persino più avanzato dei governi di centro-sinistra italiani.
3 A proposito di spostamento a sinistra dell’Ulivo. In occasione del compimento del primo anno del nuovo quotidiano di area dalemiana Il Riformista, il direttore Antonio Polito ha affermato (Corriere della Sera del 20 ottobre): “E’stato un anno davvero importante per le nostre battaglie. Siamo riusciti ad affermare il punto di vista riformista nel Paese e all’interno del centrosinistra, dove ancora un anno fa si parlava di costruire un nuovo partito della sinistra a tinta massimalista, guidato da Sergio Cofferati, sulla scorta della deriva girotondina”. Quali sono queste dieci battaglie? Ce le descrive sempre il Corriere: “Sconfiggere Sergio Cofferati e la sinistra massimalista e movimentista; dialogare con il governo e la Cdl negando l’esistenza di un regime berlusconiano; no al giustizialismo e ai girotondi; si alla riforma delle pensioni; cambiare il mercato del lavoro, sulla scia del piano Biagi; istituire una forma di governo che ruoti attorno al premierato forte; bloccare la devolution così come disegnata da Bossi; si alla guerra all’Iraq ma senza gli eccessi dell’unilateralismo Usa; appoggiare la rivolta degli studenti iraniani contro la teocrazia di Teheran; dimissionare il cda-smart della rai di Baldassarre e sperimentale la formula del 4+1 con una presidenza di garanzia”.
4 A tal fine non aiutano le dichiarazioni fatte negli ultimi tempi dal presidente dei Ds, Massimo D’Alema. L’Unità, 27 giugno: “Massimo D’Alema dice che ci vuole un patto di legislatura con Rifondazione. Basato su un programma politico e che costituisca un impegno solenne. Non si può ripetere il patto di desistenza che nel ’96 portò alla vittoria elettorale del centro-sinistra, ma poi alla separazione con Rifondazione… Stavolta l’accordo deve essere molto chiaro, deve riguardare il progetto politico del governo; e devono essere chiari il dare e l’avere. Quali saranno i temi dove si incontreranno le maggiori difficoltà? Sicuramente la politica estera (risponde D’Alema, ndr), anche perché non è materia negoziabile e perché le situazioni, in quel campo, si possono evolvere imprevedibilmente nel corso dei cinque anni”. Corriere della Sera, 26 settembre, dall’intervista a Massimo D’Alema: “Con Bertinotti è ripreso un buon dialogo e questo è l’importante. Ma lui dovrà giurare davanti al Paese di voler fare un governo di legislatura. Non dobbiamo più fare patti di desistenza o intese elettorali, ma un accordo di governo”. Un accordo di governo e un “giuramento solenne” davanti al Paese per cinque anni senza la politica estera (cioè senza la questione principale, la pace) perché non è neanche negoziabile!
5 Mentre la Francia e la Germania, assieme ad altri paesi europei, si sono opposte con grande determinazione, assieme alla Russia e alla Cina, alla guerra americana in Iraq, è avvenuto il contrario nel vertice del Wto di Cancun dove tutti i paesi europei si sono alleati agli Usa nello scontro e nella prosecuzione della rapina imperialista ai danni della stragrande maggioranza dei paesi poveri ed emergenti del Wto. Il Wto è fallito, Usa e Unione Europea sono state sconfitte, solo per la determinazione di alcuni fra i più forti paesi emergenti, come il Brasile, la Cina, l’India e il Sudafrica, che hanno avuto il coraggio di prendere la testa di un nuovo movimento di paesi, il cosiddetto G21 allargatosi poi ad altri paesi, che ha cominciato a mettere in discussione i meccanismi iniqui del Wto.
6 A riprova del fatto che nel nostro paese, più di altri paesi, sono passate le bugie americane, c’è quel famoso sondaggio dell’Unione Europea che ha fatto scandalo perché la maggioranza degli intervistati ha indicato in Israele la maggiore minaccia per la pace nel mondo. In pochi hanno notato che le percentuali di italiani che hanno indicato gli Usa e Israele sono le più basse di tutta Europa. Veniamo superati persino dall’Inghilterra e dalla Spagna, gli altri due alleati della guerra americana. Il 55% degli inglesi vede la principale minaccia per la pace negli Usa e ben il 60% in Israele. Il 61% degli spagnoli indica gli Usa e il 56% Israele. Per noi italiani soltanto il 43% indica gli Usa e il 48% Israele. (Fonte: Repubblica, 4 novembre 2003).
7 Liberazione del 14 novembre riporta con grande enfasi il “successo” di pubblico e applausi per l’intervento di Toni Negri al Social Forum di Parigi con il titolo a tutta pagina: “Disobbedienza non violenta. Toni Negri al Social Forum accolto dagli applausi”. Riportiamo le parti più significative dell’articolo: “ Vorrei ricordare gli italiani morti in Iraq con molta pietà , l’atteso intervento di Toni Negri al Forum sociale europeo inizia così… L’omaggio ai morti di mercoledì non scalfisce l’avversione del filosofo alla guerra in Iraq. La richiesta del ritiro dei militari italiani è talmente ovvia che non viene nemmeno evocata… Non è soltanto il controllo delle risorse o il controllo geopolitico dei territori che genera i conflitti. Quella di oggi è una guerra costituente, che investe l’intera produzione della vita delle persone, è una guerra biopolitica…”. Ecco dunque coniato un nuovo termine per definire la guerra, “biopolitica”. L’importante che non si parli più di guerra “imperialista”, di capitalismo, degli interessi economici delle multinazionali e delle responsabilità americane.
8 L’organizzazione britannica Medact, membro dei “Medici internazionali per la prevenzione della guerra nucleare”, premio Nobel per la pace nel 1985, nel rapporto pubblicato l’11 novembre scorso stima fra le 21.700 e le 55.000 le persone uccise, nella stragrande maggioranza irakene, dall’inizio dell’attacco americano fino ad oggi. Per queste persone non va mai la solidarietà e il cordoglio di tutti gli ipocriti di casa nostra. Si vede che sono animali o di una razza inferiore, come ai bei tempi del colonialismo.
9 La tesi che indica nella storia comunista, in particolare in Lenin, l’origine del terrorismo, è una vecchia tesi in voga soprattutto negli anni ’70 e ’80 quando intellettuali e politici di destra, ma non solo, utilizzavano ogni attentato dei gruppi terroristici “rossi” per tuonare contro gli “album di famiglia”, gli “scheletri nell’armadio”, prendendosela in particolare con il leninismo, dimenticando volutamente che il movimento operaio di ispirazione comunista e leninista è persino sorto e poi si è sviluppato proprio attraverso un’aspra e inflessibile battaglia contro le tendenze – quali il blanquismo, l’anarchismo o il socialismo rivoluzionario russo – che avevano scelto come forma di lotta principale il terrorismo, l’atto individuale ed eclatante, il complotto di ristretti gruppi di intellettuali cospiratori completamente estranei e staccati dalle masse lavoratrici. Anche Pietro Ingrao ha espresso di recente un parere controcorrente su questo argomento. Intervistato da Repubblica, il 4 novembre, ha descritto la distanza enorme fra la sua storia di comunista e resistente del ‘900 e l’esperienza brigatista, a tal punto che “io faticai molto – afferma nell’intervista – ad accettare che i brigatisti rossi degli anni ’70 fossero comunisti”. Era talmente distante l’esperienza storica comunista dal terrorismo che Ingrao e non solo lui, tutti i dirigenti comunisti dell’epoca, persino faticavano ad accettare come “comunisti” i brigatisti rossi degli anni ’70. “Faticavo – prosegue Ingrao – perché mi ero formato sulla convinzione che per abbattere il capitalismo, e soprattutto per costruire la nuova società socialista non valesse colpire il singolo, ma colpire il potere costituito e costruirne un altro. E ciò chiedeva una azione collettiva, anche e soprattutto quando si giungeva all’urto decisivo: a quello che simbolicamente – avendo in mente i film del grande cinema sovietico – si chiamava il mitico assalto al palazzo d’inverno . Non mi è mai passato nella mente – anche quando agivo nel pieno della Resistenza italiana – di uccidere Agnelli e, nemmeno nel periodo della cospirazione, di attentare alla vita di Mussolini…. Io muovevo dalla lezione che avevo assorbito dall’inizio della mia esperienza cospirativa: avevo ostinatamente in testa la lotta di massa, l’azione collettiva della classe. Ricordo la distanza enorme che sentivamo verso le bombe e gli attentati degli anarchici; non solo perché sparavano e uccidevano, ma perché agivano da singoli e uccidevano il singolo. E noi invece volevamo colpire la classe capitalista. Durante decenni e decenni di militanza comunista, ripeto, non mi è mai passato in mente il progetto di assassinare Agnelli e nemmeno Mussolini o Hitler. Non era per umanitarismo. Hitler mi appariva un potere collettivo, l’espressione di una classe. Bisognava contrapporre a ciò un altro potere collettivo e solo ciò poteva veramente sconfiggerlo.
Questo era il grande compito per cui impegnarsi e attrezzarsi. Il resto per me, allora, era sbagliato e deviante”.