Nella pancia del mostro

New York. Saremo stati un centinaio e passa in quella sala da qualche parte nel cuore di Manhattan, all’ombra della turrita cittadella del capitalismo alla fase suprema. L’assemblea dei quadri del Partito dei Lavoratori del Mondo (Workers World Party) nella metropoli del Grande Inganno (così la Sinistra USA chiama ormai gli attentati dell’11 settembre) parte al crepuscolo di una uggiosa giornata di umido smog primaverile, dopo aver consumato in affettuosa allegria il buffet di sottoscrizione, pratica fissa nei convegni di questi compagni. Arrivandoci, nei trecento metri dal metrò avevo rasentato mezza dozzina di militanti che distribuivano volantini dell’imminente manifestazione nazionale per la Palestina a Washington, sul muso della Casa Bianca e del Pentagono. A proposito di Pentagono, i compagni del WWP mi mostrano le bozze di una libro sconvolgente (ma non sorprendente per chi sa non farsi avvilluppare dalla “fabbrica del consenso”) – L’incredibile menzogna, di Thierry Meyssan, ora edito in Italia da Fandango – che dimostra, alla mano esclusivamente di documenti ufficiali, che nessun aereo civile si è mai schiantato contro il Pentagono l’11/9.

L’ordine del giorno della riunione prevedeva una relazione sull’Argentina incendiata dalla bancarotta operata dall’FMI per conto degli USA e dalla Banca Mondiale (al 51% proprietà del Tesoro USA). Era stata innescata una rivolta di massa il cui protagonista stava mutando dai ceti medi del risparmio sequestrato, ai proletari dell’ipersfruttamento e della disoccupazione, ma nel quale non si riusciva ancora a intravvedere, nella frantumazione dei gruppi trotzkisti e nell’annichilimento da repressione del PCA, una direzione politica e un progetto strategico. L’altro intervento riguardava la Colombia, l’arrivo alla presidenza di Uribe, capo-boia per conto degli USA, scelta d’emergenza di fronte alla crescita militare e politica dell’opposizione di sinistra, finalizzata all’attuazione del Plan Colombia con il quale sterminare contadini e coltivazioni e prosciugare l’acqua nella quale nuotano FARC e ELN.

Ho citato questa iniziativa per sottolineare come la più matura sinistra di classe statunitense volga all’America Latina del NAFTA, dell’ALCA, del Plan Colombia, della rivoluzione bolivariana di Ugo Chavez in Venezuela, delle sommosse endemiche in Bolivia e nell’Ecuador dollarizzato, del Brasile che con il Mercosur si oppone al progetto USA di ricolonizzazine delle Americhe tramite l’ALCA (Accordo di libero scambio delle Americhe), un’attenzione e una mobilitazione trascurate invece da quasi tutta la sinistra europea. Una mobilitazione che ha per perno il sostegno a Cuba, vessillo nel continente della resistenza all’imperialismo.

La sinistra USA ha oggi un protagonista indiscusso: la coalizione A.N.S.W.E.R. (acronimo che significa “risposta” e sta per “Agire ora per fermare guerra e razzismo”), alla quale si contrappone A.W.I.P. (Another World Is Possibile, un altro mondo è possibile). AWIP raccoglie quel che rimane di un “popolo di Seattle” transitato dal suo originale mix di luddismo, anarchismo, ecologismo, hippismo, newage, antiglobalismo, persa la componente sindacale, in parte riassorbita dal “patriottismo di guerra”, a un più integrato riformismo socialdemocratico. I rapporti di forza dei due schieramenti, quello di classe e rigorosamente anticapitalista ed antimperialista, e quello della cosiddetta “società civile”, ora da Hardt e Negri ribattezzata evangelicamente “moltitudine”, hanno avuto recentemente dimostrazioni visibili: la manifestazione contro il Foro Economico Mondiale (trasferito da Davos a New York ai primi di febbraio), con 40.000 partecipanti di ANSWER e 10.000 di AWIP e, soprattutto, il 27 aprile, a Washington per la Palestina, primato per gli USA con 100.000 manifestanti, 80.000 di ANSWER e 20.000 dell’altro fronte. Peccato che la stampa italiana di sinistra, diversamente da tutta quella europea, abbia, distrattamente, attribuito tutte quelle “moltitudini” USA, che, tra l’altro, vedevano vasti spezzoni di etnie immigrate o native sotto gli striscioni di ANSWER, ai no global di Un altro mondo è possibile.

Lo schieramento di classe è sceso, subito dopo gli attentati e in un’atmosfera duramente ostile, coraggiosamente e da solo in piazza contro la guerra. Contro la defezione di sindacati e civilisti di AWIP, ha mantenuto la mobilitazione di Washing-
ton di fine settembre 2001, modificandola da anti-FMI e BM in anti-guerra a afgani, palestinesi, iracheni e altri “popoli di troppo” (scusate l’autocitazione). Ma, per saperlo, toccava leggere il Corriere della Sera, o il Financial Times.

La coalizione ANSWER è stata promossa, subito dopo quello che ormai molti tra i più prestigiosi studiosi USA definiscono, se non “l’autoattentato” dell’11 settembre, l’attentato passivamente subito, dal WWP insieme a un’organismo di massa (International Action Center –IAC), al partito molto vicino, capeggiato da quel Ramsey Clark che, già ministro della giustizia e difensore dei diritti civili sotto Johnson, è poi diventato il più attivo leader antimperialista del mondo occidentale. Chi non ricorda la secca, alta figura di questo instancabile combattente contro gli stereotipi colonialisti, diffusi ahinoi anche a sinistra, che diffamano popoli e governanti, presente per primo nella Hanoi del genocidio USA, nella Baghdad dell’aggressione alleata, nella Belgrado dei bombardamenti NATO, nella Gerusalemme delle carneficine israeliane, a Cuba, a Caracas, a Bogotà, a Pyongyang, ovunque le sue gambe di settantenne possano portare un contraltare etico e politico all’imperialismo del suo paese.

ANSWER comprende organizzazioni per i diritti civili, pacifiste, di solidarietà con vari popoli e Stati aggrediti o sotto embargo USA, associazioni latino, afro e asiatico-americane, settori sindacali che non hanno seguito l’ALF-CIO nella sua riconversione a politiche e industrie di guerra, gruppi giuridici, ambientalisti radicali. Diversamente dalla coalizione che si richiama al movimentiamo no-global di Seattle in termini rigorosamente nonviolenti e di aggiustamento del capitalismo globalizzato (debito dei paesi poveri, Tobin Tax, bilancio partecipativo, sviluppo sostenibile), ANSWER, pur nella pluralità delle ispirazioni ideologiche e delle progettualità, ha una piattaforma condivisa: la lotta ad oltranza contro lo smantellamento dei diritti civili e costituzionali da parte di un’amministrazione che, per condurre guerre e domare opposizioni e antagonismo sociale, sta abolendo la democrazia negli USA e nei paesi dove esercita egemonia; la solidarietà incondizionata a popoli e Stati che si trovano nella stessa trincea antimperialista, indipendentemente da una qualche ortodossia ideologica e includendo il sostegno politico alla lotta armata di liberazione. Riprendendo un antico concetto dei comunisti statunitensi (divisi, dal tempo di Gorbaciov, in due minuscoli partiti, relativamente avulsi dalle grandi mobilitazioni di protesta, ma recentemente in avvicinamento tra loro e ad ANSWER), i compagni nordamericani insistono che l’offensiva anticapitalista ed antimperialista dei popoli e delle classi oppresse debba partire dalla “pancia del mostro”. Una lotta innescata dalle avanguardie di classe e sostenuta da un proletariato impoverito e disperso (40 milioni di statunitensi, un sesto della popolazione, vive sotto il livello di povertà e non ha accesso a istruzione o sanità, 2 milioni sono detenuti nella più accanita strategia di incarcerazione di massa mai attuata), da un settore agricolo devastato dalle oligarchie agro-chimiche, nonchè da ceti medi esclusi dai profitti di guerra e massacrati dalla corruzione endemica e universale delle grandi imprese, favorite dalle amministrazioni da Reagan in poi.

Mi raccontano, al meeting del WWP, che i concorrenti no-global sono entrati in crisi negli USA sia per le divisioni tra gruppi essenzialmente monotematici circa la priorità da perseguire, sia per l’oscuramento del concetto di “globalizzazione neoliberista” da parte di un imperialismo guerrafondaio che, esplodendo con una virulenza senza precedenti all’indomani della dissoluzione dell’URSS, non esercita più globalizzazione, ma classico colonialismo imperialista.
Riprende, insomma, il discorso là dove quello dell’Impero britannico fu interrotto dalla guerra interimperialista del ’39-’45 e, soprattutto, dalle grandi lotte vincenti dei movimenti di liberazione nel Terzo Mondo tra gli anni ’30 e gli anni ’70 del secolo scorso.

“Oggi, – mi dice Sara Flounders, condirettrice dell’International Action Center (IAC), – i no-global di stretta osservanza si sono trovati spiazzati dalla guerra globale e perenne e dalla follia patriottarda disseminata dalla banda Bush e dai suoi trombettieri. Vi hanno reagito opponendosi opportunisticamente a ogni lotta di piazza e nei luoghi di lavoro e puntando solo su girotondi e disciplinate veglie con candele. Non riescono a capacitarsi che la cosiddetta globalizzazione di Hardt e Negri esiste solo per un quinto dell’umanità, al quale è possibile estendere usi, costumi e indirizzi economici degli USA, dai McDonalds alle finanziarizzazioni. Tutti gli altri restano fuori e, o consumano, o forniscono forza lavoro a basso costo, o sono, come dice il tuo titolo, Popoli di troppo e vanno liquidati tipo afgani, palestinesi, iracheni, africani in genere”.

Il Financial Times ci ha messo del suo a indebolire l’attrazione dei giovani verso i moderati del no-global, con una micidiale inchiesta che documentava come i gruppi più in vista del Movimento si fossero fatti reintegrare nell’odiato sistema venendone profumatamente foraggiati. Non si parla tanto di dirigenti stipendiati da ministri le cui iniziative anti-immigrati venivano contestate in piazza, quanto di organizzazioni internazionali, come Attac, con le sue sovvenzioni della fondazione Rockefeller (tradizionalmente legata al governo Usa) e con la sua vicepresidente Susan Gorge che elogiava Bush per la guerra “anti-terrorismo” in Afghanistan. Non stupisce che un’altra fondazione, la Ford, pure legata al governo nordamericano, abbia sostenuto Porto Alegre, il cui ex-sindaco Genro Tarso fa finanziare, pubblicare e distribuire i suoi libri dalla Banca Mondiale. Infatti, molte forze politiche nel Sud del mondo denunciano il presunto terzomondismo dei no-global come sostegno a una strategia protezionista dei paesi industrializzati, con tanti saluti al cosiddetto neo-liberismo. Da qui la profonda spaccatura verificatasi a Porto Alegre tra “moderati” e “antimperialisti” del Sud e di cui la stampa di sinistra non ha saputo darci conto.

Tra i maggiori finanziatori di alcuni dei gruppi no-global, oltre alle fondazioni citate, il Financial Times elenca il superbandito della speculazione finanziaria George Soros (emissario del FMI prima nei paesi del socialismo reale e oggi tra i “movimenti”), che della Tobin Tax ha detto: “Meglio farsi tassare un pochino, ma in compenso essere legittimati”. E poi alcune delle grandi multinazionali. La Ruckus Society, per esempio, uno dei gruppi USA più forti, quest’anno ha ottenuto 100.000 dollari dalla Unilever, il grande inquinatore chimico. Eppure la Ruckus aveva addestrato i militanti più combattivi della battaglia di Seattle. Altri 5 milioni di dollari sono stati fatti arrivare, tra gli altri, a Global Exchange, organizzazione no-global di San Francisco, dalla Ben & Jerry’s, transnazionale del gelato che si definisce “socialmente consapevole”. Se vuoi batterli, soffocali nel denaro. In questi ultimi tempi la recessione USA e occidentale, racconta ancora il Financial Times, ha ridotto questo flusso di elargizioni a organizzazioni anti WTO o FMI, che, compromesse, ma più povere, si sono dimostrate ormai incapaci di rilanciare un discorso coerentemente “contro”.

John Catalinotto, dirigente del WWP che si occupa delle relazioni internazionali anche dell’IAC, mi illustra le motivazioni della crescente coscienza antimperialista e rigorosamente anticapitalista della Sinistra di classe. “In questi mesi gli USA, nella più classica delle strategie imperialiste e colonialiste, hanno lanciato la più grande guer-ra di terra e di aria dal tempo del Vietnam. Questo ha promosso un riaggiustamento nella mobilitazione del potere popolare, in linea con i grandi movimenti di liberazione del ‘900. Vengono liquidati interi popoli, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Palestina alla Somalia, all’America latina. Si impoveriscono e disarmano dei propri diritti milioni di lavoratori, anche nel Primo Mondo in corso di fascistizzazione. Il bilancio di guerra USA è di 400 miliardi di dollari e impoverisce le classi deboli nel nostro stesso paese. I paesi imperialisti d’Europa, con l’eccezione del maggiordomo britannico, si piegano all’illimitata arroganza USA ma devono affrontare crescenti contraddizioni e conflitti sociali e per la democrazia. I regimi fantoccio, dalla Serbia all’Arabia Saudita,
temono rivolte di popolo. L’inin- terrotta sequenza delle manifestazioni di ANSWER e di altre coalizioni, a partire da subito dopo l’11 settembre, contro la guerra e la demolizione delle garanzie democratiche, la disoccupazione in crescita vertiginosa e la flessibilità e a sostegno dei popoli aggrediti o minacciati, rappresenta la nascita di un movimento di massa diversificato ma unito nella percezione della contraddizione principale.
Quella a cui i socialdemocratici del movimento, che a volte ci osteggiano con durezza, non vogliono rassegnarsi. Questo movimento di massa dirà all’amministrazione USA e al mondo che il popolo degli Stati Uniti non si farà ingannare o dividere dagli appelli a uno psicotico nazionalismo patriottardo, o al moderatismo centrista. Perché è al popolo americano che le vittime delle aggressioni USA guardano per vedere crescere un autentico movimento per la pace e la solidarietà”.

Rafforza il concetto Sarah Floun-ders: “Un milione di licenziamenti dal giorno delle Torri Gemelle, il 40 per cento dei senzatetto sono operai alla fame. La repressione razzista ha imprigionato quasi 2000 civili afro-americani, asiatici, musulmani, negandogli ogni diritto legale e ne ha espulso altre decine di migliaia. È stato all’estito un mostruoso superministero “della sicurezza” che, con CIA e FBI privati di ogni freno, fa di noi uno stato di polizia. Con che cosa si deve reagire a questo massacro sociale e biologico? Con il Terzo Settore, presunto no-profit e re del lavoro nero? Con la Tobin Tax che dovrebbe paradossalmente incentivare le speculazioni per ottenere un buon gettito? Voglio ribadire che nessuno si può dire padrone del Movimento, ma noi ci siamo imposti di non reagire ai continui attacchi dello schieramento moderato, i cui leader carismatici, va ricordato, sono fortemente sostenuti dai media, mentre la sinistra viene annegata nel silenzio e boicottata. Dal Partito Comunista, dall’età piuttosto avanzata, lontano dal movimento e mobilitato quasi solo su Cuba, si sono avvicinati a noi molti giovani. Potrebbero essere un ponte verso una tradizione un po’ arrugginita. Da noi si parla di lotta di classe, imperialismo, rivoluzione, Stati-nazione forti e aggressivi e Stati-nazione che costituiscono un intralcio al dilagare del capitalismo imperialista, ma che i moderati vogliono e auspicano in declino. Abbiamo alle spalle quasi un’annata di continue e crescenti mobilitazioni, come non le si erano viste prima dell’11/9 e nonostante un evento che si voleva tale da compattare dietro a un governo corrotto, autoritario, guerrafondaio e ladro tutta la nazione.
E ora, pur avendo davanti altre importanti scadenze, che vanno da Mumia Abu Jamal alla Palestina, dalle multinazionali alle guerre, accentuiamo il nostro lavoro tra i lavoratori. Lo spazio è sempre più grande: da presunta ragione della democrazia occidentale, dei diritti umani e della lotta antiterrorismo, la guerra sta diventando, nella consapevolezza di molti, uno strumento di sterminio di popoli e diritti, il biglietto d’ingresso dei ricchi nel paradiso”.

Ridisceso in strada, nell’ora buia dei barboni e delle signore dei cartoni, che è anche l’ora dei barbagli dell’USA e getta a Times Square, mi si tornano a infilare tra le mani i volantini di un sindacato dei lavoratori neri di New York che chiede a tutti di partecipare al prossimo assalto al cielo, stavolta per i prigionieri di Guantanamo e per i “Cuba Five”, i cinque patrioti cubani condannati in Florida. E già, nella “pancia del mostro”, sopito dal tempo del Vietnam rivive l’Internazionalismo.