Nel decennale della morte del compagno Alessandro Vaia

Sono passati 10 anni dalla scomparsa di Vaia e, come spesso succede anche nei confronti delle persone più care, il tempo guarisce il dolore e tende a stemperarne il ricordo.
Ma Alessandro Vaia è stato uno di quei personaggi speciali il cui ricordo sfida anche il fatale usurarsi biologico dei nostri neuroni perchè te lo ritrovi continuamente, non tanto e non solo nella memoria che a sua volta comincia a risentire del peso degli anni, ma perchè lo riscopri trapiantato nel tuo modo di pensare e nel tuo agire politico. Persino la sua pacata gestualità e i suoi atteggiamenti riflessivi ti accorgi che ti aiutano a controllare gli scatti d’ira e le tentazioni stroncatorie verso qualche ottuso interlocutore pentito, ansioso di seppellire la sua (la nostra) storia sotto l’infamante etichetta di stalinismo. Ed allora cerco di capire quando, dove e perchè sia cominciato questo lungo processo di integrazione della sua con la nostra generazione e cerco di raccontarlo, senza svolazzi retorici, proprio come Vaia avrebbe voluto.

Il mio primo incontro con il compagno Vaia avvenne nel 1948 presso la Scuola centrale dei quadri femminili del PCI, quando venne a tenerci una lezione sulle teorie riformistiche di Bernstein e le tendenze opportuniste della socialdemocrazia internazionale. La maggioranza di noi frequentatrici di quel corso-convitto era molto giovane e salvo alcune compagne provenienti da famiglie di radicata tradizione comunista, eravamo delle neofiti specie sul piano teorico, anche se animate da grande passione politica e con un bagaglio di esperienze di lavoro di Partito alle prime armi, acquisito chi in fabbrica, chi nelle organizzazioni di massa, chi presso le proprie Federazioni. E poco o nulla sapevamo anche di Vaia: certo, sapevamo che era uno dei dirigenti del Partito; ma non della sua preparazione teorica, della sua storia di galeotto comunista, di Comandante delle Brigate Garibaldi in Spagna, di Comandante partigiano nella Resistenza.
La sua riservatezza, il suo aspetto severo seppure di modi semplici, incuteva in tutte noi rispetto ma, accentuava nel contempo la già nota timidezza a “prendere la parola” , come avveniva del resto nel corso di ogni lezione. Un timore che si sciolse via via a fronte della capacità con la quale Vaia riuscì a coinvolgerci attorno ad una problematica assai complessa, in modo tale da suscitare in noi non solo ammirazione ma anche la consapevolezza che il compagno che avevamo di fronte era dotato di una qualità particolare: sapeva parlare, farsi capire anche da un uditorio del nostro livello, sapeva stabilire un rapporto diretto con tutte noi, mettendoci completamente a nostro agio. E grande fu poi il nostro divertito stupore quando nell’intervallo di mensa, in cui solitamente si giocava a dama o a bocce, o si ascoltava musica, Vaia chiese ad alcune di noi di fare un giro di ballo con lui.
Negli anni che seguirono, nel corso della mia attività di Partito ebbi mol te altre occasioni di incontro con Vaia. Indimenticabile la sua presenza, il suo agire di dirigente politico e di formatore di quadri, quan do mi trovai a lavorare in un settore della città, diretto da una Segreteria di compagni della quale facevo parte. A queste riunioni di Se greteria Vaia, che allora era Vice-Segre tario della Federazione di Milano e responsabile dell’Ufficio di organizzazione, partecipava di frequente.
Colpiva il suo stile di lavoro, il suo rigore, il suo evidente fastidio per ogni manifestazione di faciloneria e di improvvisazione e come di recente ha scritto il compagno Sacchi su Liberazione “… L’importanza, che Vaia attribuiva anche ai problemi apparentemente secondari dell’organizzazione del partito, l’importanza che dava al modo in cui si dovevano concludere le riunioni, con delle decisioni e con la distribuzione di compiti, il controllo sull’attuazione delle decisioni prese e sulla permanente iniziativa politica”.
Da Vaia, compagno di “poche parole” , dall’ aspetto “burbero” che taluni confondevano per indifferenza o insensibilità, ho ricevuto una lezione di umanità che pure a distanza di tanti anni non dimentico. In una riunione di cellula dell’apparato della Federazione, ci trovammo a dover assumere una decisione nei confronti di una compagna che si era appropriata di denaro del Partito. Io, come altri compagni soprattutto giovani, assunsi una posizione dura, senza riserve, proponendo la sospensione della compagna dal Partito. Vaia ci lasciò discutere a lungo, poi prese la parola con molta calma: ci richiamò a riflettere sulle condizioni che indussero quella compagna a compiere un atto certo deplorevole, ma nel contempo richiamandoci a capirne sino in fondo le ragioni umane e pertanto ad assumere una decisione il cui effetto doveva essere certo quello di indurre la compagna a rendersi conto della negatività del suo atto, ma a farci capire che dal nostro comportamento nei suoi confronti dipendeva la possibilità per la compagna di ritrovare nel collettivo la forza e il coraggio per superare la situazione in cui era venuta a trovarsi. Una sua sospensione dal Partito si sarebbe al contrario tradotta in una sorta di isolamento che non l’avrebbe certo aiutata, nè l’avrebbe ricondotta all’impegno politico con il sentimento di fraternità e fiducia che univa il nostro collettivo.
Un lungo e comune impegno di lavoro nella CGIL con la compagna di Vaia – Stellina Vecchio –che maturò tra noi due un’amicizia profonda, mi offrì l’opportunità di trascorrere presso la famiglia di Vaia molte serate e giornate festive. Ebbi così modo di conoscere anche il Vaia “marito” e “padre”. Ricordo con piacere come in famiglia si prestasse a svolgere mansioni semplici che spesso, troppi compagni, ritengono siano da riservare alle proprie mogli.
Colpiva il suo interesse e la sua attenzione a tutto ciò che di nuovo veniva avanti, soprattutto nel mondo giovanile, in quello del lavoro, nella cosiddetta nuova sinistra; e la sua curiosità sul femminismo, che mi sorprese.
Voleva conoscere sempre l’opinione di chi lo ascoltava e con esso confrontarsi. Ogni sua valutazione sui vari eventi non era mai disgiunta dal rapportare gli stessi ad un quadro più generale, sia sul piano nazionale che internazionale. Ricor do, nel corso di una passeggiata a Rapallo dove Vaia aveva casa ed io ero ospite di mia sorella, una conversazione in cui manifestava tutta la sua preoccupazione per le manovre messe in atto dagli Stati Uniti nel Golfo Persico, la sua apprensione per tutto ciò che quelle sottointendevano, i pericoli che in realtà minacciavano la giovane Repubblica dell’Afganistan e del come quella vicenda non trovasse nel Partito ladovuta attenzione.
Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa del compagno Vaia, ma in me come nei molti compagni che hanno avuto il privilegio di conoscerlo, di lavorare con lui, i suoi insegnamenti sono vivi più che mai. Indimenticabile il suo contributo di orientamento, la sua determinazione nella lotta politica che in molti conducemmo contro la deriva del PCI e il suo scioglimento; una determinazione nella quale si avvertiva e ci spronava a respingere ogni posizione di chiusura o di settarismo.
È con commozione che ricordo il nostro ultimo incontro presso la sua casa di Rapallo, durante le festività natalizie del 1990.
Come sempre mi accolse con affetto, mi servì lui stesso il the con i pasticcini chiedendomi come andava, teso a “calmare” la mia irruenza contro ciò che ormai si profilava come ineluttabile: lo scioglimento del PCI. Alle mie tante domande sul che fare che riversavo su di lui, una dopo l’altra, ascoltava con un sorriso paterno e guardandomi con quei suoi piccoli occhi vivaci, mi rispose “ed ora cominceremo con il costruire i circoli comunisti, ovunque è possibile – con fiducia– per unire e agire con tutti coloro che non intendono rinunciare a restare comunisti. E questo con il tempo darà i suoi frutti”.