Capire cos’è oggi la Nato comporta un’opzione ermeneutica radicale, un salto interpretativo. Esso consiste nella rinunzia a intendere la Nato, quale oggi si presenta, secondo le categorie interpretative, politiche e giuridiche, che servivano a spiegare la Nato del secondo cinquantennio del XX secolo. Ad onta della identità del nome, la Nato che il 24 aprile 1999 a Washington ha assunto come proprio orizzonte e propria durata “tutto il secolo” che stava per iniziare, è una cosa del tutto diversa da quella che sta scritta negli atti istitutivi, nei dibattiti dei Parlamenti, nella memoria delle opinioni pubbliche e nella storia della guerra fredda. Non può ingannare la pretesa ufficiale secondo cui dalla vecchia alla nuova Nato ci sarebbe solo continuità ed evoluzione; si tratta di una tesi di comodo, che serve ad evitare il vaglio di nuovi passaggi parlamentari e di nuove ratifiche, e soprattutto serve a costituire e mettere al sicuro un fatto che sarebbe impossibile produrre come diritto, stante l’ordinamento vigente. In realtà “la Nato del 21° secolo”, come è proclamata dal vertice di Washington ed è stata tenuta a battesimo del fuoco nei Balcani, non è più la Vecchia Alleanza, ma è una Nuova Alleanza. Tra l’una e l’altra c’è una discontinuità radicale. Questa è una nuova creatura, che ha un’altra origine e un’altra ragione rispetto alla precedente e appartiene anche ad un mondo diverso, che è oggi quello della globalizzazione e del mercato unico, mentre ieri era quello del pluralismo e del confronto di sistemi, e in funzione dell’imperialismo è caratterizzata più dalla categoria dell’esclusione che da quella dell’estensione e della conquista. Il fattore determinante della discontinuità tra la prima e la seconda Alleanza è nel diverso rapporto con la guerra. Gli Stati che avevano contratto la prima Alleanza non disponevano del diritto di guerra, in quanto appartenevano ad un ordinamento che l’aveva ripudiata, messa fuori del diritto e dichiarata “un flagello”. La guerra restava, in quell’ordinamento, come diritto “naturale” di difesa, cioè come reazione legittima a una condotta illegittima, ovvero a un attacco armato che si fosse subìto; ma anche tale diritto era condizionato nelle modalità (un’autotutela armata, ma non nelle forme totali della guerra) e nel tempo, fintantoché cioè il Consiglio di Sicurezza non avesse preso “le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.
Il diritto di fare la guerra
Questo dice l’art. 51 della Carta dell’ONU. Non disponendo dunque del potere di guerra, gli Stati contraenti del vecchio Patto non potevano conferire all’Alleanza ciò che essi stessi non avevano; perciò la Nato, per una scelta non discrezionale, ma istituzionalmente obbligata, nasceva come un’alleanza di difesa, il cui scopo non era di condurre più efficacemente e vittoriosamente le guerre, ma di impedirle, e di dissuaderne ed anzi “terrorizzare” chiunque ne avesse anche solo l’intenzione. Questa discriminante della sola difesa, consacrata nell’art. 5 del Patto Atlantico, è ora lasciata cadere; e al suo posto i documenti di Washington assegnano all’Alleanza il compito della “gestione delle crisi” e delle “risposte alle crisi”, dentro e fuori l’area di competenza, che non è più delimitata territorialmente e su cui, dal Pacifico al Pacifico, non tramonta mai il sole (la cosiddetta “area euro-atlantica” comprendente ormai anche la Russia come “partner”). Riappropriandosi del diritto di guerra, e attrezzandosi per farle e per vincerle (ma in modo, oggi tecnologicamente possibile, per cui si muore da una parte sola), il nuovo Patto non si inscrive più nel vecchio ordinamento, da cui la guerra era invece bandita, e si surroga all’ONU in quelle che erano le sue competenze specifiche (pace e sicurezza), e solo sue. La guerra torna quindi ad essere prerogativa del potere sovrano. Ma poiché la guerra non è stata restituita ai singoli Stati, ma all’Alleanza come tale (è stato infatti Solana a “dichiarare” la guerra alla Federazione jugoslava) ne consegue che tale sovranità non è dei singoli Stati, ma di questo nuovo soggetto sovrano, un Super-Stato, che si pone perciò come sovrano universale (benché questa nuova forma nella “realtà effettuale” coincida sostanzialmente con gli Stati Uniti). Il movente e il modo di formazione di questa nuova entità politica sembra riprodurre, con sconcertante esattezza, il modello descritto da Thomas Hobbes nel Leviatano per spiegare la nascita dello Stato sovrano moderno. Secondo Hobbes (che aveva dinanzi a sé lo spettacolo delle guerre civili europee del XVI e XVII secolo) gli uomini, prima che sorgesse lo Stato, (o in mancanza di esso), vivevano in uno stato “incivile”, dove tutti avevano diritto a tutto e tutti potevano uccidere tutti, per cui dominava l’insicurezza e la paura; non solo paura di perdere i beni, ma di perdere la vita: la paura della morte. Da questa paura nasce la rinuncia a gestire e difendere se stessi, e l’alineazione di questo potere a una persona sovrana, a una macchina collettiva, lo Stato, unico titolare della violenza, che agisce per tutti e su tutti: il Leviatano, dotato di poteri assoluti all’interno e del potere di guerra all’esterno. Come sintetizza felicemente Carl Schmitt: “Punto di partenza della costruzione dello Stato, in Hobbes, è la paura dello stato di natura; scopo e punto terminale è la sicurezza della condizione “civile”. Nello stato di natura ognuno può uccidere chiunque… nella condizione civile e statuale, invece, tutti i cittadini dello Stato hanno assicurata la loro esistenza fisica: qui regnano pace, sicurezza e ordine.
Nessun diritto, c’è il mercato
Questa è notoriamente una definizione della polizia. Stato moderno e moderna polizia sono sorti insieme e l’istituzione più essenziale di questo Stato di sicurezza è la polizia… Il terrore dello stato di natura fa riunire gli individui pieni di paura, la loro paura sale all’estremo; scossa una scintilla della “ratio” e improvvisamente davanti a noi si erge il nuovo Dio”. Naturalmente non si tratta di un vero Dio, è un Dio mortale, una “macchina”, dice Hobbes: donde il celebre nome. Nella condizione della globalizzazione, torna la paura. Tutti hanno diritto a tutto (non per nulla la Dichiarazione dei diritti dell’uomo è “universale”), ma solo pochi possono goderne. La realizzazione dei diritti non è più affidata alla politica, che ha un compito “universale” (il “bene comune”, l’”interesse generale”), ma al mercato, che è selettivo, che include gli uni, esclude gli altri. Gli esuberi non solo sono esclusi di fatto, ma ridotti a non aventi diritto. Dove i diritti sono amministrati e distribuiti dall’economia, che è la scienza della scarsità, anche i diritti sono scarsi. Sul piano mondiale ciò significa che un quinto dell’umanità vive e prospera, e i quattro quinti sono nel ristagno e nell’abbandono; e una grande moltitudine – oltre un miliardo – è lasciata alla fame e alla disperazione, esuberi non solo delle fabbriche e del mercato, ma della vita. E mentre prima vigeva l’illusione dello sviluppo, oggi non ci si crede più; si sa che, con questa economia globale potrà aumentare il numero dei ricchi e anche quello dei sopravviventi, ma non potrà essere sanata la ferita, l’amputazione, la contiguità con la morte delle grandi maggioranze escluse. Perciò il mondo è molto pericoloso; non ci sono più le armate contrapposte dell’Est e dell’Ovest a tenere l’ordine, e non c’è neanche il movente che prima spingeva gli uni e gli altri ad attenuare l’ingiustizia e a ridurre le ragioni di disperazione nel proprio campo. E il quinto appagato – che sta quasi tutto nei Paesi ricchi del Nord del mondo – ha paura. Teme le crisi: ma le crisi non possono non esserci, perché il mondo stesso è in stato di crisi, in uno “stato incivile”; ed è questo stato incivile che il “post-moderno” del liberismo realizzato e del mercato globale considera secondo natura, considera l’”optimum”, il modello, non la fine ma “il fine” della storia. E allora il quinto che ha paura, costruisce il suo Leviatano. Chissà che non sia lui a salvarlo. Chissà che non possa esorcizzare la paura della “collera dei poveri”, della rivolta degli esclusi, della “ribellione” dei non aventi diritto che il vecchio ordinamento, quello che ripudiava la guerra, considerava come l’estrema risorsa, come “l’ultima istanza” cui l’uomo, non protetto dalle norme giuridiche, sarebbe “costretto a ricorrere” (preambolo della Dichiarazione universale). Perciò ci vuole la guerra; perché senza guerra un mondo così non si può governare, non si può tenere a bada. E perciò l’imperialismo non è più universale conquista; è globale dominio, ma col bisogno di una ferrea immunità nei confronti delle maggioranze escluse. Ed è così che lo Stato della moderna polizia, di cui parlava Schimitt, diventa il Super-Stato della moderna milizia imperiale. Certo, ora c’è la democrazia. Ma, nata nell’assolutismo, la costruzione teorica di Hobbes ha potuto perfettamente trapiantarsi in contesto democratico. Il Super-Stato euro-atlantico non pretende di assommare in sé tutti i poteri degli Stati membri, di confiscarne le competenze, di esercitare una potestà diretta e immediata sui loro cittadini; questo lo fa più l’Unione Europea che la Nato. Ma non è questo che occorre al Leviatano. Esso, diceva Hobbes, può trasferire il potere di coniare denaro, di decidere in questioni d’eredità o il diritto di prelazione sui mercati, e tutte le altre prerogative di legge, senza con ciò perdere il potere di proteggere i sudditi; ma non può trasferire il potere della milizia, non può cedere il potere di levare imposte, non può abbandonare il governo delle dottrine, senza venir meno nella sua stessa essenza sovrana.
L’antropologia della diseguaglianza
Nella Nato c’è questa estrema concentrazione di poteri sovrani: la milizia, il prelievo (tutto il mondo finanzia il debito degli Stati Uniti, mentre i Paesi poveri sono assoggettati mediante il debito), e il governo delle dottrine (pensiero unico e dominio dell’informazione). Come ha osservato Roberto Esposito (in Communitas), in questa concezione hobbesiana dello Stato si dissolve l’idea di comunità, si sacrifica la relazione tra gli uomini e perciò, in qualche modo, si sacrificano gli uomini stessi. Essi sono paradossalmente sacrificati alla propria sopravvivenza, la vita viene sacrificata alla sua conservazione. Ottengo la vita in cambio di un’obbedienza a chi può darmi anche la morte, perché c’è uno scambio politico tra protezione e obbedienza. Gli uomini vivono nella e della rinunzia a convivere. Conquistando l’immunità hanno perso la comunità. Questa rottura della comunità, che è già grave dentro lo spazio protetto della Nato, è devastante sul piano mondiale. La militarizzazione del confronto tra il quinto appagato e la maggioranza inappagata e inappagabile, rompe l’unità della società umana, ripristina, anche se dissimulate e mascherate, le vecchie antropologie della diseguaglianza, nega la comunità universale delle nazioni e ne mette in crisi l’ordinamento. Ma con l’ultima e più grave conseguenza: poiché tale ordinamento, che abbraccia tutti i popoli, è tuttora e nonostante tutto vigente, la guerra civile mondiale. Che è la peggiore delle guerre. Come diceva anche Carl Schmitt nel 1946: La guerra civile ha qualcosa di particolarmente crudele. Essa è guerra civile perché è condotta all’interno di una comune unità politica comprendente anche l’avversario e nell’ambito del medesimo ordinamento giuridico, e perché le due parti in lotta al tempo stesso affermano assolutamente e negano assolutamente questa comune unità. Entrambe, assolutamente e incondizionatamente, pongono l’avversario nel non diritto. Esse tolgono il diritto dall’avversario, in nome però del diritto… Ne viene che la guerra civile non può essere altro che giusta, nel senso di convinta delle proprie ragioni…. Più pericolosamente che in ogni altra specie di guerra, ogni partito è costretto a dar spietatamente per presupposto il proprio diritto e, con altrettanta spietatezza, il non diritto dell’avversario… L’interferire di argomentazioni e istituzioni di tipo giuridico avvelena la lotta. La porta e durezza estrema, facendo degli strumenti e dei metodi della giustizia gli strumenti e i metodi dell’annientamento. Ci si erge a tribunale senza cessare di essere nemici…. Le diffamazioni e discriminazioni legali pubbliche, il dichiarare qualcuno nemico dello Stato, del popolo e dell’umanità non hanno il senso di conferire all’avversario lo status giuridico di nemico nell’accezione di parte belligerante. Intendono, al contrario, togliergli anche quest’ultimo diritto. Hanno il senso di una totale privazione di tutti in nome del diritto. L’ostilità diviene a tal segno assoluta, che il dubbio sul proprio diritto è considerato tradimento, l’interesse per l’argomentazione dell’avversario, slealtà; il tentativo di una discussione diviene intesa col nemico.
Non è precisamente ciò che è avvenuto con la guerra dei Balcani?