La grande e diffusa crisi politica ed ideologica che ha coinvolto in quest’ultimo decennio la sinistra moderata italiana, non è solo istituzionale e partitica, ma trova immediato riflesso anche nella cosiddetta società civile. Una società che ha smarrito i propri valori fondativi e di riferimento quali la solidarietà, la democrazia della rappresentanza e della partecipazione, delle sue radici antifasciste, costituzionali e repubblicane. Tutto questo si è immediatamente tradotto nell’incapacità, da parte dei partiti politici di quella sinistra moderata appunto e delle organizzazioni sindacali, di interpretare, rappresentare e difendere i bisogni e gli interessi dei lavoratori, se non attraverso gli strumenti della mediazione politica e della concertazione sindacale, che hanno entrambe, per scelta, un punto di caduta debole. Scelta questa dettata dalla necessità di riscuotere maggiore credibilità, affidabilità e legittimità dalla controparte, rappresentata dai ceti finanziari che detengono il potere economico nel Paese e dai partiti moderati di centro alleati o dai sindacati più disponibili all’utilizzo di tali pratiche.
Se da un lato questo ha generato negli anni un apparente clima di pacificazione sociale, che comunque cova sotto la sua cenere disagi e nuove povertà, dall’altro ha fatto nascere e sviluppare tra la gente una diffusa rinuncia alla difesa conflittuale dei propri diritti, che si è via via tradotta in un arrogante rafforzamento del padronato che ha saputo consolidare le proprie posizioni egemoniche fino a rimettere in discussione diritti acquisiti con decenni di lotte sindacali, politiche e sociali. A partire dalla scala mobile, i lavoratori hanno visto sottrarsi, via via, diritti e certezze in nome di uno sviluppo economico e sociale che non è mai arrivato. Il Sud depresso ha continuato ad alimentare gli sterili dibattiti sullo sviluppo e l’economia d’intere regioni che per decenni sono state, e continuano ad essere, ostaggio di politiche clientelari. Qui le grandi imprese, pubbliche e private, hanno trovato terreno fertile per esercitare la propria egemonia utilizzando spesso strumenti ai limiti della legalità. Il varo di adeguate leggi che hanno aperto una nuova ed inattesa opportunità sull’uso delle flessibilità contrattuali e salariali, hanno fatto il resto.
La tanto decantata modernizzazione, sbandierata elettoralisticamente dai partiti di governo ed in particolare dai Ds, si è trasformata in un vero e proprio boomerang, rispetto al quale i lavoratori, maggiormente quelli giovani neo assunti con i famigerati contratti flessibili e precari, hanno decretato tutto il loro rigetto, in particolare per una politica che decide dal palazzo il modello di società e di vita che ciascuno di noi deve svolgere per compiacere lor signori.
Dove termini come new economy o mercato globale sembrano essere diventati l’alibi per ogni sopruso o prevaricazione nei confronti dei lavoratori o di chi è ancora disoccupato.
Come sorprendersi allora quando giovani disoccupati, sottoccupati e comunque sfruttati non si riconoscono più in questo modello di società, fino a decidere di astenersi dal voto elettorale non riconoscendolo utile strumento al soddisfacimento ai propri bisogni personali e sociali?
Come trovare una giustificazione plausibile ai tanti morti che dall’inizio dell’anno ad oggi ci sono stati nel nostro Paese? Quale modello di sviluppo moderno può giustificare o restituire a famiglie straziate dal dolore i loro cari caduti sul lavoro perché i padroni, per risparmiare qualche soldo, non gli hanno garantito i livelli minimi di sicurezza?
Se oggi indaghiamo sui luoghi di lavoro, troviamo insoddisfazione, disagio, sfiducia rispetto alle forme della rappresentanza politica e sociale, ma anche rabbia rispetto al contenuto del proprio lavoro, al suo valore nella società.
Tuttavia, i falliti referendum per l’abrogazione dell’art.18 sui licenziamenti e per l’introduzione di nuove forme di flessibilità alla Zanussi, le nuove lotte sindacale che la Fiom e le organizzazioni sindacali di base stanno cercando di avviare alla Fiat di Melfi ed in altri grandi stabilimenti, ci parlano di una rinnovata volontà dei lavoratori di recuperare rapidamente terreno sul campo dei diritti perduti o ancora da conquistare, anche rimettendo in discussione, all’interno della stessa Cgil, quel perverso rapporto privilegiato (unità sindacale?) che si vuole mantenere a tutti i costi con Cisl e Uil, rinunciando invece ad una più genuina e naturale interlocuzione con altri lavoratori e compagni che militano nelle organizzazioni di base ed hanno rinunciato da tempo, a proprie spese, alla concertazione ed alla mediazione al ribasso.
C’è anche un’altra ragione a decretare il fallimento della concertazione. È il fatto che ormai sono gli stessi lavoratori a non volerla più. O meglio, se mediazione deve essere, ogni lavoratore vuole ormai trattare con il padrone per se stesso, raccogliendo per sé tutti i frutti di quella mediazione, senza dover pagare provvigioni o percentuali a chi ha mediato per lui. In Abruzzo, alla Sevel questo, da tempo, è già realtà.
Stabilimento del Gruppo Fiat nato alla fine degli anni ’70 per produrre 300 veicoli commerciali Ducato al giorno con 3.500 dipendenti, alla fine del 2000 ne produrrà ben 1.000 con 5.000 tra dipendenti, terziarizzati, esternalizzati, cfl, interinali, a tempo determinato e presto magari anche a contratto week-end e con un terzo turno nato come sperimentale ed ormai strutturale.
Certo la scelta dell’allocazione geografica dello stabilimento non è stata casuale. La Sevel doveva nascere, ed è nata, là dove la sindacalizzazione fosse prima di allora sconosciuta e dove un basso tasso di disoccupazione ed un reddito già medio alto rispetto ad altre aree del Paese, non le permettesse di svilupparsi rapidamente.
Già perché alla Sevel così come a Melfi ed in altre grandi nuove zone industriali del Paese, i primi ad essere occupati sono i metalmezzadri, contadini cioè, che lavorano 8 ore in fabbrica ed altre 8 o magari anche 10 in campagna. È evidente che una mano d’opera di questo tipo non creerà mai “grane” all’azienda né, tanto meno, sarà conflittuale. Poiché la sua unica esigenza è quella di poter usufruire delle ferie e dei permessi individuali in corrispondenza dei periodi della mietitura, della raccolta delle olive e del tabacco o della vendemmia. Non saranno certo questi lavoratori a scioperare per un rinnovo di contratto insoddisfacente. Tutti gli altri lavoratori invece, e sono sicuramente la maggioranza, sono poveri cristi che sbarcano il lunario con il loro misero salario da operai, ai quali ogni giorno viene detto e ribadito che se non fosse arrivata la Sevel oggi forse sarebbero a fare gli emigranti in Germania o chissà dove. Poi vi sono i giovani, i nuovi assunti con contratti flessibili (interinali, a termine, cfl ecc.), a volte laureati, quasi sempre diplomati, ai quali troppo spesso viene detto dalle famiglie e dalla società normale, che è meglio un posticino in fabbrica vicino casa, piuttosto che un lavoro anche meglio retribuito ma lontano. Tra questi lavoratori, uguali nel colore delle tute, con lo stesso sguardo stanco all’uscita dalla fabbrica dopo 8 ore di massacrante lavoro, non c’è ormai quasi più nulla in comune se non il fatto di essere sfruttati dallo stesso padrone che in qualsiasi momento può decidere di licenziarli perché produrre il Ducato in Polonia od in Brasile piuttosto che in Turchia, può costare la metà e quindi garantire maggiori utili aziendali.
È possibile ripartire da questo per spiegare a questi lavoratori, anche ai metalmezzadri (che forse tra tutti sono proprio quelli maggiormente sfruttati), che hanno molte cose in comune e molte sono le ragioni per le quali è giusto far rispettare i propri diritti?Alla Sevel, fiore all’occhiello di Fiat per la decantata ma falsa adozione di processi produttivi rivoluzionari nell’auto, vi è un elevatissimo numero di richieste di riconoscimento di malattie professionali per ernie al disco, tendiniti, tunnel carpali. Vi sono giovani che praticavano sport a livello agonistico e il gioco del calcio militando in squadre di semiprofessionisti. Molti sono stati costretti a smettere a causa di infortuni subiti in fabbrica o per il sopraggiungere di patologie legate al lavoro ripetitivo svolto con avvitatori pneumatici e chiavi dinamometriche ad elevata taratura e attrezzi inidonei.
Vi sono donne che non riescono a portare avanti le gravidanze perché i carichi di lavoro insopportabili ne hanno notevolmente ridotto la propria capacità di procreazione.
Ogni mattina ci sono operaie madri, mogli, che si svegliano alle 3 e mezza per essere in fabbrica alle 5,45 e sono costrette a lasciare i propri figli o i genitori anziani in balia di se stessi, senza avere la certezza che avranno le cure di cui hanno bisogno, poiché nessuno si è mai preoccupato di creare infrastrutture adeguate per il sostegno alle famiglie, anzi in molti comuni montani chiudono scuole, asili, ospedali e consultori, in nome di una necessaria ed indispensabile efficienza dei servizi, mentre autostrade, ferrovie, capannoni e servizi vari sono stati forniti alle aziende a costo zero. Quelle stesse aziende che, obbligate da una legge giusta sono costrette ad assumere lavoratori disabili, se ne liberano non appena questi non sono più produttivi o non si sforzano abbastanza per cercare di essere come quelli normali evitando di far pesare sull’economia dell’azienda i loro difetti fisici. A tutto questo è ora di dire basta!
Ma bisogna farlo in un modo più incisivo, più determinato, in un modo nuovo.
Per questo un gruppo di compagni della sinistra Cgil, del sindacalismo di base (Sin Cobas – Cisal) e semplici lavoratori della Sevel, ha deciso di iniziare a ragionare su tutto ciò, magari facendo con umiltà, ognuno di essi, un passo indietro rispetto al senso di appartenenza alla propria sigla sindacale, mettendo invece al centro dell’attenzione gli interessi ed i bisogni dei lavoratori.
È un’operazione difficile, che non permette scorciatoie e che va portata avanti con serietà e sacrificio. Magari rinunciando all’inizio ad affrontare temi di grande rilevanza come magari può essere un rinnovo di contratto o la sigla di un accordo aziendale, cose rispetto alle quali le opzioni sono sicuramente differenti. Ma sulla sicurezza, sui carichi di lavoro, sulla inadeguatezza dei cicli e dei processi produttivi, o sui trasporti pendolari e la mensa aziendale o magari sui servizi sociali esterni all’azienda quali scuola e sanità, le convergenze possono esserci davvero.
È da queste cose che abbiamo deciso di ripartire per ricominciare a restituire ai lavoratori dignità e diritti fino ad oggi sacrificati in nome di una crescita e di uno sviluppo i cui frutti in questi anni sono andati solo ai padroni.