Musica e rivoluzione

DAVVERO I MOVIMENTI E LA MUSICA DEGLI ANNI SESSANTA SONO STATI SOLTANTO UN GRANDE CIRCO CHE HA AGITO FUORI E CONTRO LA POLITICA E IL CONFLITTO DI CLASSE?

Non è la prima volta che gli anni Sessanta ci vengono raccontati con parole improprie e concetti estranei, ma il dibattito di questi ultimi tempi sul rapporto tra movimento e politica sembra aver contribuito ad accelerare un processo di revisione della memoria. Come per altri e forse più importanti concetti e racconti, se si cede alla tentazione di piegare alle ragioni di oggi la storia di ieri, quel che ne esce alla fine è una marmellata buona solo per chi è d’accordo con il cuoco. Film, ricostruzioni, episodi decontestualizzati, tutto concorre a formare un quadro di riferimento pre-masticato, destinato a corrodere la memoria. Scomodare una parola importante come “revisionismo” mi pare eccessivo, ma il processo è lo stesso.
L’immagine del “mitico Sessantotto” e degli anni che lo precedono e lo seguono è divenuta una cartolina molto colorata che parla di scelte destinate a cambiare il costume soltanto perché si ponevano fuori dalle ragioni della politica e della lotta di classe. La storia che ci raccontano prevede due sole caratterizzazioni dei protagonisti: o “figli dei fiori” o una sorta di anarchici nichilisti prigionieri di un’avventura destinata a finire male. Il recente dibattito sulla non-violenza ha poi aggiunto un’altra pennellata al quadretto: il movimento di quegli anni sottendeva la scelta della non-violenza come opzione primaria ed è stato proprio l’affermarsi di opzioni violente l’elemento determinante della sua sconfitta. Se sia vero o no, non importa. Nella società della comunicazione la memoria è una variabile indipendente, la conoscenza è un’inutile orpello e attorno al falò mediatico vince chi sa recitare meglio il suo racconto. È tempo di cominciare a smontare il meccanismo, introducendo qualche elemento di discontinuità nella narrazione, qualche dubbio. La materia meriterebbe un’analisi ricca e approfondita, uno spazio che non si può chiedere alle pagine di una rivista. Si può però cominciare a raccontare un’altra storia, quella vera, e tentando, pezzo dopo pezzo, una sorta di ricomposizione della memoria stimolata dalla scoperta che quello che ci stanno raccontando è una favola per bambini. C’è molto da fare, perché tante parole sono state disperse al vento e il pensiero unico non ammette dubbi, ma per punti, argomenti, questioni ed episodi è tempo di cominciare, magari andando proprio a guardare ciò che in genere, essendo lontano da noi, è più facile da mistificare: la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.

I GIOVANI RIBELLI INGLESI: APOLITICI E NON VIOLENTI?

Periodicamente qualcuno accende i fari sui “favolosi anni Sessanta” della cosiddetta ribellione generazionale inglese. Ecco allora che rispunta il mito della “Swingin’ London” vista come una sorta di coreografico musical. A guardare i servizi televisivi e le cronache nostalgiche sembra quasi che la ribellione dei giovani di Londra (e non solo di Londra) avesse i seguenti obiettivi, non nell’ordine: farsi crescere i capelli (i ragazzi), mettersi la minigonna (le ragazze e Mary Quant), impasticcarsi un po’ con le anfetamine (i Mods), andare in moto (i Rockers) o in scooter (i Mods) in attesa di comprarsi la Mini Minor, vestirsi con i colori della bandiera nazionale, fare lo struscio a Londra in Carnaby Street (anche quelli di Liverpool o Manchester?) e chiedere più spazio per le chitarre elettriche in radio e televisione. Questo sarebbe stato, in estrema sintesi, il movimento capace di cambiare morale, costumi e di allargare la democrazia. Senza alcun senso del ridicolo, qualcuno fa di più e lo indica come un passaggio emblematico che parla anche ai movimenti di oggi. In più c’è sempre qualcuno che fa notare come quello britan-nico degli anni Sessanta sia stato un grande movimento di giovani cresciuto senza alcuna tentazione violenta e senza mettere in discussione il sistema. Capito il senso? Peace and love, fiori, minigonne e, magari, una bella Mini Minor… Ma era davvero così? No che non lo era. In realtà, i cosiddetti anni della Swingin’ London accompagnano la fine dell’impero britannico e sono ricchi di pulsioni, sensazioni e movimenti in cui suoni neri del blues si mescolano alla voglia di protagonismo delle giovani generazioni. Grazie a un nuovo protagonismo dei giovani delle periferie industriali, la musica si salda con le istanze di cambiamento sociale. È l’epoca in cui Londra e, più in generale, la Gran Bretagna, rappresentano un punto di riferimento importante per le nuove generazioni dell’Europa intera. È una vera e propria rivoluzione culturale quella che parte dalle rive del Tamigi, che mescola istanze anche radicali di mutamento nei rapporti sociali con una creatività senza precedenti in campo musicale e artistico. In musica, per esempio, parlare solo dei Beatles rischia di cancellare una straordinaria colonna sonora a più mani i cui suoni non portano soltanto la firma dei quattro ragazzi di Liverpool, ma parlano di altre sigle: Hollies, Freddie & The Dreamers, Animals, Rockin’ Berries, Who, Rolling Stones, Yardbirds, Kinks e tanti altri. Parlano anche di club come lo “Studio 51” o il “Marquee” dove un fenomeno underground come la “fratellanza del rhythm and blues” esce allo scoperto e spiega al mondo che il razzismo è un’idiozia, che i suoni bianchi e quelli neri possono contaminarsi, mescolarsi e fondersi, come le culture. Tutto ciò avviene in un epoca in cui negli Stati Uniti ancora esistono due classifiche discografiche: una per la musica nera e una per il resto. Il vento del cambiamento non si ferma soltanto alla musica, ma investe tutta la produzione artistica. Il cinema racconta storie nuove come I giovani arrabbiati di Tony Richardson, Billy il bugiardo di John Schlesinger, Sabato sera, domenica mattina di Karel Reisz, lo stesso regista cui si deve, nel 1966, Morgan, matto da legare, la storia del pittore rivoluzionario che finisce in manicomio a fare aiuole a forma di falce e martello. Se dal piano culturale ci si sposta su quello dei movimenti sociali, la favola della rivoluzione “non-violenta” e apolitica appare poi ridicola. La ribellione generazionale di quegli anni deve fare i conti con la violenza fin dall’inizio. Il movimento è percorso da pulsioni accese che si sostanziano, soprattutto nei primi anni, in due grandi bande giovanili: i Mods e i Rockers. Nel 1964 a Clayton si svolge uno dei più accesi e violenti confronti tra bande giovanili che la storia ricordi. Gli scontri iniziano nel primo pomeriggio del 28 marzo e durano due giorni. La violenza si scatena su due fronti: da un lato Mods contro Rockers e dall’altro le due bande insieme per liberare i giovani fermati e rinchiusi nei cellulari. Il bilancio finale è di un numero incalcolabile di feriti e di centinaia di fermati. Per quel che riguarda la politica, infine, è un altro mito. La partecipazione dei giovani alle lotte sindacali e studentesche di quel periodo è talmente massiccia che mette in discussione e scompiglia le stesse organizzazioni della sinistra tradizionale. Un esempio su tutti è, in campo studentesco, la nascita della RSA (Radical Student Alliance), composta prevalentemente da giovani laburisti e comunisti che rompe con la pratica concertativa della National Union for Students, il sindacato tradizionale degli studenti, e apre un fronte di contestazione contro l’aumento delle tasse universitarie per gli stranieri e i tagli alle borse di studio. Fa anche di più. Per la prima volta, pone la questione del salario garantito a chi studia. Come si vede la ribellione generazionale britannica non racconta soltanto di strusci in Carnaby Street né di urletti al cielo in onore dei Beatles. Capelli lunghi, minigonne e musica beat non sono certo un simbolo di disimpegno per gli studenti della London School of Economics che il 31 gennaio 1967 organizzano un meeting di protesta contro la nomina del nuovo direttore Walter Adams, per il suo passato come direttore dello University College nella razzista Rhodesia. Né sono pacifici i tafferugli che nascono quando le autorità accademiche proibiscono ai contestatori l’accesso ai locali dell’Università. Chissà se sognano davvero la Mini Minor i ragazzi dell’università del Sussex che costringono al silenzio il rappresentante dell’ambasciata americana venuto a parlare della guerra del Vietnam? O quelli che nell’università dell’Essex contestano il deputato conservatore Enoch Powell rivendicando il diritto di non far parlare nelle sedi accademiche coloro che sostengono posizioni colonialiste o razziste? Gli stessi protagonisti del rinnovamento musicale, poi, non vivono in un mondo dorato e separato, ma partecipano in prima persona alle mobilitazioni politiche. C’è anche Donovan tra i dimostranti che il 22 ottobre 1967 manifestano a sostegno della lotta del popolo vietnamita davanti all’ambasciata americana di Grosvenor Square e molti appartenenti a varie band partecipano alla campagna contro il Centro di ricerche microbiologiche di Porton Down, responsabile di fornire agli americani gas mortali per l’aggressione al Vietnam.
Altri esempi? A Cambridge viene fischiato il discorso di Denis Healey, segretario alla difesa mentre gli studenti dell’Università di Leeds prendono a calci nel sedere Patrick Wall, deputato di estrema destra sostenitore del regime razzista rhodesiano. Episodi simili costellano e accompagnano tutto il periodo di quella che viene chiamata “ribellione generazionale britannica”.
Raccontarli servirebbe, forse più di tante chiacchiere inutili, a capire perché nascono canzoni come My generation, Revolution, Universal soldier o Street fighting man. Se non lo si fa è perché si vuol far credere che le abbia portate la cicogna o siano nate sotto un cavolo.

IL SESSANTOTTO ANTIMPERIALISTA E ANTIRAZZISTA DEGLI USA

Il salto di qualità del movimento americano avviene il 18 maggio 1968 a Berkeley, in California, quando migliaia di studenti occupano il campus universitario. L’obiettivo immediato dell’occupazione è quello di bloccare i procedimenti della magistratura contro 866 studenti che si sono rifiutati di combattere in Vietnam. Per la prima volta, le parole d’ordine del movimento diventano un generalizzato atto d’accusa contro l’imperialismo americano. Nello stesso giorno anche gli studenti della Columbia University di New York occupano la loro università per protestare contro la requisizione “per pubblica utilità “ di un campo giochi per i bambini di un’area abitata da famiglie afro-americane. I due fatti sono emblematicamente indicativi della saldatura tra lotte antimperialiste e per la pace, diritti civili e istanze di cambiamento sociale. La lotta degli studenti universitari americani non nasce, però, nel Sessantotto, non si esaurisce lì. In più, non nasce per caso, visto che i leader che guidano gli scioperi degli studenti si sono formati all’inizio del decennio oltre che nel movimento di massa contro la guerra fredda e la minaccia di distruzione nucleare anche nelle rischiose azioni dei Freedom Riders contro il segregazionismo negli Stati del Sud. Proprio l’esperienza di questi ultimi dimostra come la non-violenza non fosse un’opzione generalizzata e assunta ideologicamente. I Freedom Riders, infatti, sono gruppi di studenti organizzati, bianchi e neri che vanno negli Stati del Sud per “de-segregare” materialmente i luoghi pubblici con atti, anche punitivi, nei confronti dei razzisti. Le loro azioni sono supportate da un’accurata preparazione e prevedono vari livelli di resistenza, non tutti pacifici e non-violenti. Il primo punto di svolta del movimento universitario era avvenuto nel 1964. Due avvenimenti l’avevano segnano. Uno era l’inizio dell’escalation statunitense in Indocina dove l’appoggio dato da Kennedy al governo “fantoccio” del Vietnam del Sud contro “i comunisti del Nord” iniziava a tramutarsi in aperto impegno bellico. L’altro era la rivolta di Harlem che dava inizio a una lunga serie di rivolte dei ghetti neri, spesso represse nel sangue. La mobilitazione contro la guerra nel Vietnam è ricca anche di momenti di azione diretta, come la cacciata dalle università degli addetti al reclutamento e dei politici in visita mentre dalle azioni di solidarietà con la rivolta dei ghetti nascono i nuovi quadri dirigenti dei movimenti radicali neri. È un processo destinato a proseguire negli anni successivi, fino a raggiungere la fase di massima espansione nel 1970, dopo l’invasione della Cambogia e l’uccisione da parte della Guardia Nazionale di quattro studenti nella Kent State University dell’Ohio. Questo fatto ispirerà a Neil Young la canzone Ohio, che diventerà un singolo di successo nell’interpretazione di Crosby, Stills, Nash & Young. In quegli anni c’è anche chi tenta di saldare il movimento studentesco con la classe operaia. L’esperienza più interessante si sviluppa nella città industriale di Detroit.
Qui le lotte degli antimperialiste dei campus tentano di aprire un’interlocuzione con pezzi di classe operaia e di proletariato urbano bianco e nero. In questo laboratorio nasce il White Panthers Party, un’organizzazione politica d’estrema sinistra che si definisce apertamente “guevariana”. Uno dei suoi dirigenti, John Sinclair, intuisce che il rock è il mezzo di comunicazione più immediato per parlare alle nuove generazioni e affida il compito di diffondere il messaggio politico del movimento agli MC5 (Motor City Five), una band formata da Rob Tyner, Michael Davis, Dennis Thompson, Fred “Sonic” Smith” e Wayne Kramer. Sulle ali di un rock violentissimo i cinque portano in tutti gli Stati Uniti il messaggio antagonista delle “pantere bianche” e all’inizio del 1969 la Elektra pubblica il loro primo, splendido album, Kick out the jams, registrato dal vivo a Detroit il 31 ottobre 1968. All’apice della popolarità, diffondono idee di rivolta e fanno a pezzi sul palco la bandiera a stelle e strisce. La reazione non si fa però attendere. Contro il gruppo parte una campagna di stampa senza paragoni, mentre l’FBI mette sotto stretto controllo i cinque musicisti. Vengono diffuse foto che li riprendono in atteggiamenti intimi con le loro compagne, si raccolgono petizioni e, soprattutto, si chiede all’Elektra di ritirare dal mercato l’album, ritenuto indecente ed offensivo. La casa discografica per qualche tempo tiene duro, anche perché il disco vende bene, ma è poi costretta a cedere alle pressioni e il 16 aprile 1969 licenzia il gruppo e ritira l’album. È la fine. Mentre il White Panthers Party è bersagliato da più parti, la polizia “trova” addosso a John Sinclair due sigarette di marijuana che gli costano una condanna a ben cinque anni di carcere. Due anni dopo John Lennon scriverà sulla vicenda il brano John Sinclair.
Nel 1970 gli MC5, tentano invano di continuare “ammorbidendo i toni” con un paio di album di scarso significato.
Di loro non si parlerà più fino al 17 settembre 1991, quando l’ex cantante Rob Tyner muore d’infarto a Detroit e un gran gruppo di vecchi militanti delle Pantere Bianche vince la paura di mostrare in pubblico la propria appartenenza, indossa le magliette con il simbolo dell’antico movimento e lo accompagna nell’ultimo viaggio.
È solo una storia delle tante che si potrebbero raccontare di un Paese che ha vissuto momenti di grande mobilitazione e anche una selvaggia e scientifica repressione.
Bisognerebbe raccontarne altre, ma non è lo scopo di queste righe.