Quando, il tre luglio del 2001, come Fiom decidemmo di non sottoscrivere il testo di un accordo che non era stato approvato dai lavoratori, non lo facemmo con leggerezza. Già allora eravamo consapevoli di trovarci di fronte non solo ad una inedita offensiva di Confindustria e Governo, ma anche ad un profondo cambiamento nel modo d’essere e di rapportarsi ai lavoratori di Fim e Uilm.
Lo scenario era questo: attacco ai diritti ed alle garanzie del mondo del lavoro sferrato con durezza nel tentativo di cancellare la voce dei lavoratori erodendo il potere dei loro rappresentanti; l’inflazione programmata come strumento per comprimere i salari al di sotto dell’inflazione effettiva, riducendo il potere d’acquisto e lasciando alle imprese la possibilità di distribuire elemosine unilateralmente; la crisi di importanti settori produttivi gestita a suon di licenziamenti sulla base della nota quanto sbagliata teoria secondo cui i lavoratori sono un costo e non una risorsa per l’impresa. In questo quadro, già sufficientemente cupo, si è inserita la decisione delle categorie metalmeccaniche di Cisl e Uil di impedire, per la prima volta dal 1985, che i lavoratori si esprimessero attraverso un referendum su una ipotesi di accordo che, tra l’altro, riduceva il salario. Non si è trattato di un semplice gesto di arroganza, di un accordo sancito senza il mandato dei diretti interessati. La firma del 3 luglio ha reso esplicita l’esistenza di due modelli di sindacato. Non un incidente di percorso, quindi, ma la prima tappa di un percorso che ha avuto poi come approdo la firma del Patto per l’Italia al quale la Cgil si è giustamente opposta.
Ho il timore che della mutazione genetica intervenuta almeno in una delle tre confederazioni sindacali, la Cisl, troppo poco si sia discusso.
In realtà il passaggio è da sindacato che mira a migliorare le condizioni di tutti i lavoratori ad organizzazione che gestisce e fornisce servizi per i lavoratori e contemporaneamente per le stesse imprese, e che in nome dei propri iscritti tratta e cambia le regole del gioco.
Anche per questo trovo banali e irritanti le esternazioni di alcuni esponenti politici della sinistra moderata che, a proposito dello sciopero generale indetto dalla sola Cgil per il 18 ottobre, si premurano di spiegarci che l’esigenza prioritaria è oggi quella di “recuperare il rapporto unitario”. Meglio insieme che divisi? Che intuizione geniale. Sorge il sospetto che in realtà ci stiano suggerendo di abbandonare il nostro ruolo tradizionale di controparti dei padroni per trasformarci in lobby, per gestire il grande business della formazione professionale, delle agenzie per l’impiego, magari anche di pezzi di stato sociale, attraverso gli enti bilaterali.
Abbiamo risposto “no”, il 3 luglio del 2001, a chi ci proponeva di recidere il filo che ci lega ai lavoratori per costruire un rapporto privilegiato con chi, nelle fabbriche e negli uffici, rende ogni giorno più pesante la loro condizione. La grande maggioranza dei lavoratori ha appoggiato con grande determinazione, attraverso la raccolta delle firme per la democrazia nei luoghi di lavoro e due scioperi nazionali di categoria, la nostra decisione. Da allora, in un susseguirsi di mobilitazioni fino alla straordinaria manifestazione del 23 marzo a Roma e allo sciopero generale del 18 ottobre, i lavoratori sono tornati ad essere protagonisti di una opposizione convinta a chi li vuole ridurre a merce.
La Confindustria e il padronato italiano hanno da tempo deciso che per rendere più competitive le imprese italiane sui mercati internazionali è necessario abbassare i costi e comprimere i diritti dei lavoratori. Per questo propongono l’eliminazione dei contratti collettivi di lavoro. Se questo disegno dovesse passare, nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro le uniche leggi sarebbero quelle delle imprese, del profitto e del mercato, ed i lavoratori sarebbero davvero soli e senza nessuna tutela.
Abbiamo dimostrato, in questo lungo anno, una grande capacità di resistenza; abbiamo ottenuto risposte che sono andate ben oltre le nostre stesse aspettative; abbiamo saputo riportare al centro del dibattito la questione del lavoro, del suo valore. Ora, accanto alla battaglia generale per i diritti e la democrazia, dobbiamo uscire dalla difensiva e essere in grado di indicare obiettivi perseguibili. Oggi abbiamo l’esigenza di ottenere dei risultati concreti.
A fine anno scade il contratto nazionale dei metalmeccanici. Abbiamo dovuto prendere atto dell’indisponibilità di Fim e Uilm a seguire un percorso democratico ed unitario per rinnovarlo. A quel punto, non avendo nessuna intenzione di prendere in giro i lavoratori, come Fiom abbiamo discusso e stiamo discutendo con loro una piattaforma da presentare alle controparti; l’ultima piattaforma separata per il contratto nazionale dei meccanici risale al 1962.
La decisione di discutere e presentare una piattaforma separata per il rinnovo del Contratto Nazionale di Lavoro della più importante categoria dei lavoratori dipendenti del nostro paese non può essere sottovalutata da nessuno, perché dovremo attrezzarci a condurre una battaglia insieme alle lavoratrici ed ai lavoratori per sedersi, a pieno titolo, al tavolo delle trattative; poi dovremo conquistare il diritto ad un vero rinnovo del contratto nazionale di lavoro; infine dovremo saper obbligare gli industriali ad accogliere le rivendicazioni contenute nella piattaforma votata dai lavoratori.
Tutto questo non sarà facile, ma, non abbiamo altra scelta. L’alterna-tiva sarebbe quella di trasformarci in quello che non vogliamo essere; l’alternativa sarebbe respingere chi, in questi mesi, ci ha dimostrato fiducia, chi, nonostante gli stipendi da fame (850 euro al mese), è sceso in sciopero ed ha manifestato in piazza con noi.
Sono tre i nodi critici all’interno dei luoghi di lavoro, tre le questioni che provocano insicurezza e malessere: il salario, la precarietà, il peggioramento delle condizioni di lavoro.
Su questi tre perni abbiamo deciso di costruire la nostra piattaforma.
Rivendichiamo un aumento delle retribuzioni che recuperi totalmente l’aumento del costo della vita e distribuisca ai lavoratori una quota della ricchezza prodotta nel settore che non può essere assorbita totalmente dall’impresa. Ciò significa chiedere un aumento salariale tra l’8 e il 10%, e penso che l’aumento salariale derivante dall’aumento del costo della vita deve essere uguale per tutti. Chiediamo che il lavoro precario di cui sono vittima soprattutto i giovani ed i lavoratori provenienti da altri paesi, venga regolato da nuove norme che impediscano il totale arbitrio delle imprese e riducano la durata dei contratti di lavoro temporaneo.
Ma se il lavoro a tempo indeterminato non può essere l’eccezione in un mare di precarietà, allora va imposto, ovunque sia possibile. Così come va affermato il principio della piena parità di diritti e condizioni tra tutti i lavoratori, indipendentemente dal tipo del loro rapporto di lavoro e dal luogo da cui provengono. In caso di esternalizzazione, prassi sempre più frequente, dobbiamo pretendere il mantenimento degli accordi sindacali ed aziendali e l’unicità del contratto di lavoro e dei diritti, oltre ad affermare il principio di responsabilità dell’azienda che cede in caso si verifichino problemi occupazionali nella nuova azienda.
La trasformazione dell’impresa ha rappresentato per la maggioranza dei lavoratori un peggioramento delle condizioni di lavoro: ritmi accelerati, pause ridotte, orari di lavoro che si estendono, turni di notte, il sabato, la domenica, lavoro straordinario utilizzato (senza essere minimamente contrattato) come unico strumento per incrementare un salario con cui è sempre più difficile vivere. In una situazione come questa è inevitabile che, con inquietante frequenza, si verifichino incidenti sul lavoro. Per questo nella piattaforma chiediamo una riduzione aggiuntiva dell’orario per il lavoro notturno e nel fine settimana e l’estensione dell’utilizzo della banca ore in alternativa allo straordinario.
Non dobbiamo nasconderci dietro un dito, sappiamo che l’effettiva riduzione del lavoro straordinario sarà possibile solo se riusciremo ad ottenere un significativo aumento di salario.
Per affermare il valore del lavoro è poi indispensabile riconoscere la professionalità dei lavoratori, e per questo va messo a punto un nuovo criterio di classificazione delle mansioni.
Siamo convinti che solo da un percorso democratico possano scaturire rivendicazioni condivise, per questo stiamo discutendo con i lavoratori in migliaia di assemblee i contenuti della piattaforma che parla direttamente della ed alla loro condizione.
Dopo che, entro la fine di ottobre, l’assemblea dei delegati della Fiom avrà definito il testo della proposta, torneremo nelle fabbriche e negli uffici per chiedere ai lavoratori, attraverso il referendum, il mandato per trattare.
Tra i lavoratori c’è una grande consapevolezza della situazione. Le donne e gli uomini con cui in questi giorni ci stiamo confrontando sentono che la posta in gioco è ben più alta di quel pungo di lire in più per cui ci hanno accusato di rompere l’unità sindacale nel luglio dello scorso anno. In campo, infatti, c’è un’idea di sidacato come strumento per rappresentare bisogni ed esigenze, come mezzo per avanzare richieste, come terminale che trasforma le domande in azioni collettive e poi in risultati.
C’è l’affermazione, nel momento in cui più pesantemente si è attaccati, di un punto di vista diverso da quello dell’impresa, antagonista. C’è la possibilità, forse, di invertire una tendenza che spinge verso l’annullamento di qualsiasi tentativo di affermare che un modo diverso di lavorare e vivere è possibile.
C’è la volontà di ottenere un miglioramento concreto della propria esistenza quotidiana e, magari, di porre le basi per rapporti di potere più equilibrati che consentano, anche, di immaginare un futuro diverso.
I lavoratori sanno, esattamente co-me lo sappiamo noi, che non si tratterà di una strada in discesa, e soprattutto sanno che nessuno è in grado di garantire l’esito di una battaglia che avrà momenti di scontro aspro.
Proprio per questo vorrei che chi non è costretto a passare gran parte della propria giornata nelle fabbriche e negli uffici guardasse a questa esperienza con maggior rispetto.
Vorrei che chi si professa leader di una sinistra per quanto moderata ci risparmiasse prediche banali e luoghi comuni stantii. Così come vorrei che chi, nel gruppo dirigente del sindacato e della stessa CGIL, non vede l’ora che passi la tempesta per ritornare alla propria, tranquillizzante ed ormai sterile, routine si rendesse conto che il tempo rasserenante delle quattro chiacchiere tra amici è un ricordo del passato, e che una sconfitta, oggi, travolgerebbe tutti.
Per questa ragione resto convinto che la lotta per la valorizzazione del lavoro, dell’aumento del salario e la lotta al lavoro precario non sono temi che coinvolgono solamente i metalmeccanici, ma tutte le categorie del mondo del lavoro, e quei sindacalisti che continuano a sottoscrivere, ancora oggi, accordi che rendono il lavoro e il salario più precario, come è avvenuto per il settore del Commercio/Coin, creano un danno non solo alla CGIL ma ai lavoratori interessati.
La vicenda Fiat, con i drammatici sviluppi di questi giorni, dimostra anzitutto l’incapacità di un gruppo dirigente aziendale che ha clamorosamente fallito su tutti i fronti, perché a partire dal 1980 la Fiat ha solamente investito per competere sui mercati internazionali ,contro il sindacato per cancellare diritti e ridurre il costo del lavoro, e oggi, solo grazie a questa politica miope la più importante industria italiana si trova alle prese con un ritardo tecnologico ventennale, e tenta di uscire dalla crisi con lo strumento più vecchio ed inefficace: licenziando i lavoratori, tagliando le linee, chiudendo gli stabilimenti, vendendo società.
La storia di questi anni dimostra che non è trasformando in “esuberi” i lavoratori che si risolvono le situazioni di crisi ma che solo investendo nella ricerca, nell’innovazione e nella professionalità dei lavoratori è possibile invertire una tendenza al declino che prima o poi coinvolgerà tutto il sistema collegato all’industria automobilistica e dei trasporti.
La crisi della più grande industria automobilistica italiana non deve essere affrontata solo dalla FIOM o dai lavoratori interessati (visto che oramai gli altri sindacati FIM/ UILM firmano tutto ciò che la FIAT sottopone loro), ma è necessario che la politica e soprattutto le forze della sinistra intervengano attraverso una grande mobilitazione e con una proposta di politica industriale, affinché il Governo intervenga direttamente, anche con propri capitali, per salvare un patrimonio industriale e professionale di valore strategico nazionale.
In gioco non ci sono solo alcune migliaia di posti di lavoro, ma la possibilità stessa che nel futuro il nostro paese abbia oppure no un’industria automobilistica. È utile ricordare che in Francia e in Germania le due più importanti industrie automobilistiche sono sostanzialmente statali e in Italia non è possibile lasciare che pezzo dopo pezzo la Fiat stia morendo perché gli Agnelli hanno deciso di spostare il centro dei loro affari altrove.
Solo così si potrà evitare che il presente si trasformi in un incubo per migliaia di famiglie. Solo così si potrà ragionare sul futuro; e ricordiamoci che la questione Fiat, per l’importanza che ha, entrerà pesantemente, nel bene o nel male, nella vicenda del rinnovo del contratto nazionale di lavoro.