Movimento contro la guerra e Resistenza irachena

NESSUNA ALTERNATIVA: FUORI LA GUERRA DALLA STORIA.

A mio parere, il movimento contro la guerra e per il ritiro delle truppe dall’Iraq si è arricchito con la recente oscura vicenda delle margherite (intese come Simona e Simona e i due iracheni, non come le rutelliane!) di un importantissimo elemento politico, cioè di tutto il vasto popolo iracheno, mussulmano, mediorientale, arabo che è colpito e impaurito per le prospettive funeste che l’occupazione dell’Iraq suscita in tutta l’area.
Dico incidentalmente che quando – dopo la fine della seconda guerra mondiale – a Yalta ci fu la spartizione delle aree di influenza tra i vincitori, il Medio oriente non fu attribuito e lasciato come zona nella quale sarebbe stata possibile la guerra, probabilmente già allora pensata per il petrolio o perché si voleva appunto che lo scontro fra le due aree vincitrici contro il nazifascismo, ma già ostili tra loro, avesse uno sbocco previsto. Comunque, si tratta di un’area cruciale negli equilibri geopolitici e che deve sempre essere osservata con grande attenzione e preoccupazione. In effetti, è lì che la guerra fredda non c’è mai stata, ma da sempre ci sono scontri armati “caldi”.
Aggiungo che il mio dire sarà fondato, per quel che posso, sulla ragione e anche sulla memoria, cioè sarà sempre contrappuntato su ciò che a me fa venire in mente somiglianze e differenze rispetto alla resistenza italiana, che so benissimo molto differente da quella irachena, ma anche somigliante. Ad esempio, fare sequestri di persone per avere ostaggi da scambiare coi prigionieri che avevano in mano i nazifascismi, era cosa che praticavamo, ed è una forma di azione nonviolenta, dato che lo scopo è di salvare vite umane persino sottostando alle condizioni ineguali poste dagli occupanti. Naturalmente la guerriglia non fa prigionieri perché non ha né carceri né campi di concentramento, tuttavia può fare sequestri transitori per ottenere la liberazione di chi è stato fatto prigioniero o rastrellato etc. Ad esempio, la richiesta di lasciare libere donne irachene carcerate in cambio delle due Simone mi pareva equa e capace di smascherare una volta ancora l’uso illegale da parte degli occupanti di considerare carcerabili dei civili iracheni cui non è stata contestata nessuna accusa davanti a nessun tribunale.
Un’altra cosa che voglio ricordare è che la resistenza è sempre un movimento molto complicato, perché non ha insediamenti di tipo statale ed è clandestina. I timori di infiltrazioni, tradimenti etc. sono continui e inevitabilmente portano anche ad azioni ingiuste e tragiche. C’è una specie di fissazione del tradimento e dello spionaggio: non mi stupisce che le Simone siano state interrogate come possibili spie, specialmente se i servizi segreti USA avevano provveduto a far circolare una notizia di questo tipo. È miracoloso e segno di una grande politicità della resistenza irachena se i sequestratori hanno voluto vederci chiaro. Probabilmente sono ancora colpiti che sia stato ucciso Baldoni, proprio perché nel suo caso non c’è stato un movimento né un’organizzazione dietro le sue spalle che potesse dare garanzie di non coinvolgimento in azioni governative e anzi la Croce Rossa se lo caricava addosso rendendolo sospetto. È una questione su cui indagare, come probabilmente sta facendo la procura di Roma. L’agire della Cr italiana è molto dubbio: la Cr internazionale l’ha già ripresa e censurata alcune volte per non essere indipendente da azioni governative e militari come invece è prescritto nello statuto delle Cr delle varie nazioni.
Vale la pena di convincersi che le “normali” reazioni e relazioni – durante una lotta di liberazione da eserciti occupanti – sono cancellate e tutto diventa molto complicato, sempre mutevole e spesso assai ambiguo: mutano luoghi, tempi, simboli, chiavi di riconoscimento, nomi. Come è noto, la struttura re-sistenziale poggia sulla catena di riconoscimento che ciascuno ha verso chi gli porta i messaggi e gli ordini e la persona cui li deve trasmettere. Se in un punto qualsiasi la catena viene “bruciata”, come si dice in gergo, cioè sorpresa e scoperta, si interrompe subito di necessità, perché nessuno conosce nessun altro e ciascuno deve restare ad attendere che in modo casuale o cercato qualcuno riannodi le fila. Per questo le trattative sono estenuanti e pericolose: chi tratta deve badare molto alla segretezza della catena e alla credibilità degli intermediari. Questo è vero in linea generale, ma in pratica specialmente nei paesi, montagne o luoghi popolati è difficile potersi nascondere sotto un nome falso o una falsa identità e quindi lì vale soprattutto la fiducia e la solidarietà reciproca: la resistenza in montagna è più dura, ma meno stressante; quella in città meno dura ma molto appesantita da paure di tradimenti e rischi. Inoltre, chi nel corso di una lotta di resistenza svolge attività politica umanitaria, per ciò stesso è più esposto a rischi perché non fa uso della clandestinità ed è sempre raggiungibile. Vi è un altro ragionamento da fare, se si debba volere un movimento di resistenza molto compatto o che si allarghi. Chi fa uso della lotta armata quasi esclusivamente, ottiene un movimento di resistenza di tipo strettamente militare e cruento; chi tende ad allargare ad azioni contro le cose (attentati a pozzi, ponti, linee ferroviarie) o di disobbedienza civile, come in molti Paesi europei contro l’occupazione nazi (l’Olanda aprì le dighe e andò sott’acqua, la Norvegia fece un famoso sciopero generale di tutte le scuole, scioperi nel triangolo industriale ci furono anche in Italia in tre ondate tra il 1944 e l’insurrezione, così come sabotaggi organizzati delle macchine in fabbrica e sottrazione dei raccolti alla consegna ai militari sull’Appennino etc.) si ritrova con un movimento politico che senza escludere azioni armate (ma non necessariamente militari) ingloba azioni umanitarie, copertura di prigionieri a favore di perseguitati politici razziali etc. Si tratta di due strade ben diverse. Credo che la Resistenza italiana abbia dimostrato di saper percorrere quella del massimo allargamento e con ciò di essere stata in grado di esercitare una importante influenza politica, ad esempio mettendo subito in funzione un governo anche sotto occupazione e prendendo in mano la proposta di scrivere una Costituzione per la Repubblica.
Ma veniamo alla vicenda delle due Simone, che a mio parere poteva e voleva essere giocata dal governo contro il pacifismo e le ong e che gli si è rivoltata nelle mani: perciò può e deve essere giocata a favore delle richieste di ritiro delle truppe, e della restituzione della sovranità al popolo iracheno. Con questo mi avvicino a una delle cose più curiose della vicenda, cioè come sono state portate via: la resistenza che manda di giorno in una strada frequentata uomini armati e in divisa ad eseguire un arresto, con un elenco di nomi o non è resistenza, ma servizi segreti travestiti, oppure è una resistenza che ha talmente vinto da essere ormai quasi Stato.
Esaminiamo le due ipotesi: che ci siano in mezzo i servizi segreti americani o inglesi, o del governo fantoccio, o anche pezzi di servizi saddamisti ricostituiti, è possibile, e che facciano opera di disinformazione è certo; quindi possono essere stati loro a diffondere la versione che ci è arrivata, dato che le Simone interrogate dicono di non ricordare uomini armati etc. Una buona norma è di non credere quasi nemmeno a ciò che si vede: tanto per dire, non credere al video attribuito ad Al Yazeera (ma da loro rifiutato) sulla liberazione delle due, che per la verità sembra una cosa fatta girare dalla Cri con proprie attrezzature e un’accurata inquadratura con sfondo di moschee. Detto incidentalmente, mi è molto piaciuto che la Simona romana non sia andata alla messa di ringraziamento fatta celebrare dalla Regione Lazio con una botta di fondamentalismo, come invece mi infastidiscono le domande rivolte a non ricordo quale delle due se – dato che conosce l’arabo e il Corano – è intenzionata a convertirsi all’Islam. Dato che ho toccato questioni di laicità e di privacy, vorrei che i politici in genere dessero prova di una discrezione e gelosia delle proprie convinzioni pari a quella delle famiglie dei quattro protagonisti dell’avventura. Invece, sfilate senza costrutto, soliti mezzibusti gloriosi, esaltazioni e vaniloqui che tutto significano tranne un qualsiasi senso di umanità o una qualsiasi ipotesi politica non volta a dare fama e fiato a se stessi.
Mettiamo dunque che la vicenda abbia avuto inizio tramite servizi segreti, ma la gestione politica che ne è stata fatta dalle prigioniere, dalle loro organizzazioni, dal movimento pacifista e dalla stessa resistenza irachena ha dimostrato che si può essere più bravi dei servizi segreti e anche usare le loro procedure per ottenere altri effetti. Decisiva in questo caso è stata la pubblica azione delle moltitudini, che hanno invaso le piazze in molte città gridando Liberate la pace; le folle mussulmane che ovunque hanno chiamato sorelle e amiche le prigioniere, e hanno fatto saltare altri calcoli e addi-rittura reso impossibile una conclusione tragica. Mi spiego: nei casi dei contractors precedenti (che comunque erano persone a fianco degli eserciti occupanti e non pezzi di organizzazioni umanitarie) o nel caso Baldoni (davvero un rimorso per non aver saputo trovare la strada per lui) se qualcosa va storto nei disegni di chi sequestra, la soluzione violenta è inevitabile. Se il caso non viene gestito col massimo di pubblicità, di trasparenza politica, di ricerca di allargamento del consenso intorno alle persone sequestrate: in questo caso anche organizzazioni terroristiche (ma non è detto affatto che i sequestratori siano terroristi: come è noto, il terrorismo stile Al Qaeda non fa parte della tradizione irachena, è cosa importata dall’ Arabia Saudita) sono costrette a fare i conti con l’impopolarità in cui incorrerebbero. Inoltre, agire in modo che molte persone si sentano coinvolte, sentano il dovere di dire, fare, protestare, esserci è la migliore, forse l’unica vera opposizione e risposta al terrorismo, dato che questo fenomeno politico-criminale di estrema destra si fonda sulla capacità di rendere le masse apatiche impaurite e dimissionarie, occupando perciò la scena politica per intero, cancellando la società: insomma una operazione simmetrica a quella della guerra. Ogniqualvolta si riesce a recuperare spazio alla politica, alla parola, alla responsabilità dichiarata, il terrorismo indietreggia, dato che esso è uno specchio della guerre e come la guerra prospera sulla scomparsa della politica, sostituita dalla violenza più bruta e indiscutibile.
Orbene: è ciò che è successo. Intorno a questa vicenda si è aperto un sentimento diffuso che ha alla fine condotto a buon esito l’evento. Ma questo che cosa significa? che l’opinione negativa sulla guerra e sull’occupazione si amplia e diffonde e rieduca le persone. Ormai, oltre a chi già chiese il ritiro delle truppe da subito (anzi era contrario a che venissero inviate), oltre a un governo che le ha ritirate manifestamente, altri che lo stanno facendo di nascosto, imprese che si ritirano da affari troppo costosi in termini di riscatti o pagamento di indennizzi, oltre alla ripetizione di questa richiesta di ritiro fatta propria da alcune forze politiche o da pezzi di altre, oltre alle pressioni perché di ritiro si discuta pubblicamente, addirittura il re di Giordania chiede che l’occupazione americana finisca subito, prima che si possa avviare un qualsiasi discorso di pace. Non ancora Fassino, ma – si sa – è un tipo molto riflessivo, gli ci vuole tempo. Ma torniamo al re di Giordania: la sua è una richiesta importante, la Giordania è il Paese più politicamente filoamericano e filobritannico dell’area e in modo più ragionato e presentabile che non gli Emirati, l’Arabia Saudita o il Pakistan. Fa parte della zona di libero scambio, è nell’area del dollaro. Se dice che gli eserciti stranieri debbono mettere fine all’occupazione significa che, altrimenti, avrebbe difficoltà a conservare le proprie posizioni di politica internazionale.
Come ha fatto la resistenza irachena a ottenere tali risultati? Ha certo ottenuto successi e un aumento automatico del consenso popolare in conseguenza dei terribili bombardamenti che gli americani e gli inglesi hanno continuato (a guerra finita per loro dichiarazione) a scaricare sulle popolazioni civili delle città. Il governo messo su dagli USA non può avere alcun prestigio, sarebbe stato considerato collaborazionista in Europa durante la lotta contro i nazifascisti, (come il governo Pètain in Francia e il governo Quisling in Norvegia). Sarebbe a questo punto augurabile che la resistenza irachena mutasse pratiche, non verso il governo, ma verso chi collabora per fame: è sempre possibile avere utili informazioni o mezzi o sedi da parte di possibili renitenti o disertori politicamente decisi. Chiedere il ritiro – o ottenerlo di fatto con sequestri – delle imprese che portano via tutto il lavoro di ricostruzione con lauti guadagni e rapina di risorse del popolo iracheno, in modo che agli iracheni resti qualcosa da fare oltre che i poliziotti (sembra l’unico lavoro offerto) è pure importante. Sembra di avvertire, in una svolta più “politica”, il peso della in parte ricostituita forza del partito Baath (la richiesta di liberare detenute che erano importanti espressioni del passato regime baathista è significativa): del resto l’unica forza che può cercare di rifare una parvenza di Stato laico. E quindi può anche far filtrare l’idea che sia giusto chiedere un processo per Saddam, la libertà per le scienziate baathiste incarcerate, il che significa mettere le basi di uno Stato non fondato su una scuola coranica, ma su concetti giuridici condivisibili e addirittura lanciare una campagna di riconciliazione nel popolo iracheno, operazione che non può essere gestita dal consiglio degli Ulema, senza che si avvii la costruzione di un miserevole Stato confessionale tremendo. Solo una dimensione laica e politica può far partire una campagna di riconciliazione persino con chi ha lavorato sotto il governo fantoccio quando non si sia macchiato di delitti o violenze, ma abbia solo eseguito azioni di sicurezza e ordine pubblico.
A mio parere ormai, da parte di chi ha sempre sostenuto il diritto del popolo iracheno a resistere come voleva e poteva all’occupazione, sarebbe giusto incominciare ad esprimere giudizi politici sulle varie forme di resistenza, sul tasso di laicità e democrazia delle stesse: avere un atteggiamento critico è il modo migliore per superare anche il fondamentalismo. Qualcosa di simile capitò spesso anche da noi a proposito di carabinieri o polizia o funzionari o impiegati pubblici che si trovavano nelle strutture della repubblica di Salò. Più si avvicinava la fine, più numerosi erano i membri delle forze dell’ordine che facevano una specie di doppio gioco o disertavano o davano indicazioni utili etc. Ciò che sta succedendo, a me fa venire in mente una fase che durò alcuni mesi tra la fine del 1944 e il 1945, fase che fu palesemente di duplicità di poteri.
Per farmi capire racconto un episodio. Nella mia città natale – Novara – la lotta di resistenza fu molto forte, come in tutta la provincia. Sul finire del 1944 o addirittura in gennaio o febbraio del 1945 avvenne un fatto di sangue: un giornalaio, titolare storico, con la sua famiglia, di una edicola che sta nella piazzetta delle Erbe in città, mentre arriva la mattina presto, al buio, perché era inverno, c’era il coprifuoco e l’oscuramento, trova steso nel sangue vicino all’edicola un morente che gli dice “È stato Zurlo!” e poi spira. Spaventatissimo, il giornalaio non sa cosa fare, ma non può nascondere di aver visto un fatto avvenuto proprio a fianco dell’edicola. Perciò, appena arriva la polizia, dice di essere morto di paura e di volere andare a casa, sempre a disposizione per la testimonianza. Si mette a cercare il CLN per sapere che cosa deve fare, dato che, se dice ciò che è successo, di certo viene condannato a morte, come partigiano che ha cercato di resistere o ucciso senza processo per togliere di mezzo un testimone scomodo: lo Zurlo indicato dalla vittima morente come autore del delitto è il capo della squadra politica della questura di Novara, detta popolarmente “la squadraccia”. Il Miramonti (questo il cognome della famiglia dei giornalai) sa che se dice il vero sarà a sua volta ucciso, ma se dice il falso dà l’impunità a un pericoloso assassino. Dal CLN vuole avere indicazioni sul che fare. Il CLN di Novara poteva fruire come consigliere giuridico di Scalfaro, allora giovane vice-procuratore del re presso il tribunale cittadino. Il consiglio che il Miramonti riceve è di rendere una testimonianza reticente, in modo che si possa – dopo la Liberazione – fare un giusto processo. Interrogato, dice che il ferito era fuori di sé, non connetteva e dopo aver detto “È azzurro” era spirato. Il procedimento contro ignoti viene chiuso e archiviato dai fascisti e lo si riapre dopo il 25 aprile nel tribunale rivoluzionario fatto da un comandante partigiano, da una giuria popolare che subito ripristinammo e da Scalfaro come Pubblico Ministero: si fece il processo e Zurlo che era stato catturato poco prima dell’insurrezione, fu riconosciuto colpevole di omicidio, aggravato dal fatto che lui era un appartenente alle forze dell’ordine, che aveva abbandonato un morente senza soccorso etc. La testimonianza del Miramonti fu molto importante per consentire a Scalfaro, applicando il codice fascista, di chiedere la pena di morte e subito, per mostrare che noi non eravamo d’accordo con quel codice, di avanzare domanda di grazia e trasformare la condanna in ergastolo. Era già d’accordo con Parri, che senza timori concesse quella come altre grazie.
In quel periodo era relativamente possibile che dei soldati della Wermacht cercassero abiti borghesi: insomma vi erano indizi di cedimento. A me sembra che, con tutte le differenze del caso, anche in Iraq si stia delineando qualcosa di simile con l’incrudimento delle operazioni di guerra da parte degli occupanti (bombardamenti selvaggi e continui sulle città ribelli) e anche con l’apparire delle differenze di schieramento tra i resistenti: anche tra noi le discussioni si facevano più serrate e aspre, ad esempio con i monarchici e sul futuro del Paese etc. In questo periodo chi si avvicinava alla resistenza non era necessariamente un opportunista, poteva anche essere una persona sprovveduta che si rendeva conto di ciò che stava succedendo; altri invece pensavano di stare a margine per potersi schierare con i vincitori, altri avevano paura magari perché avevano profittato del mercato nero e fatto soldi sulla fame dei più, e temevano vendette, i fascisti e gli occupanti si comportavano essi pure così. Un periodo di transizione può durare mesi ed è pericolosissimo e pieno di ambiguità: per questo è molto importante che le posizioni politiche di chi vuole la fine della guerra e dell’occupazione siano ferme, limpide e acquisiscano consenso.
Oggi è questo il compito principale del pacifismo: dichiarare che spetta al popolo iracheno decidere, che nessuno può fargli lezione di democrazia, che nel 1945 noi venivamo da vent’anni di dittatura, e dagli orrori della guerra e del nazismo e non volevamo accettare di essere sotto tutela nemmeno di quelli che avevano legittimamente vinto una guerra che noi gli avevamo scatenata contro: cercammo subito di discutere del nostro destino e di ridiventare padroni della nostra storie. Il tentativo di rimettere su i Savoia fu fatto e respinto. Non so davvero come un Berlusconi o un Fini abbiano la faccia di dire che ce ne andremo dall’Iraq quando in quel Paese ci sarà una democrazia rappresentativa – Fini, erede di chi spense anche quel poco che prima c’era, e Berlusconi che marcia a tappe forzate verso il potere personale e il presidenzialismo, andiamo! Solo dopo l’affermazione dei diritti del popolo iracheno possono venire le dispute tra noi su chi si preferirebbe vincesse in Iraq: dopo gli interventi di occidentalizzazione forzata vi è sempre stato un fiorire di fondamentalismo e probabilmente ci sarà pure lì, ma non credo – per quanto mi riguarda – che lo giudicherò favorevolmente. Non mi sono battuta tanti anni fa contro il fascismo per far tornare lo Stato pontificio, proprio no.
La situazione in Afghanistan non è molto migliorata né per la sicurezza né per la libertà. Sarà così anche in Iraq? Forse bisognerà attivare sedi di confronto teorico e di culture, sarebbe anche di grande interesse e potrebbe essere un bel compito del l’Unesco, ma forse i popoli a maggioranza mussulmana vorrebbero prima avere tempo e spazio per confrontarsi tra loro. Un certo rischio di etnicismo o di islamismo o di clericalismo c’è, ma mi pare che non siamo molto in buona salute laica nemmeno noi europei con le nostre “radici cristiane”, le leggi che vietano il velo, le ministre che vorrebbero non si insegnasse l’evoluzionismo o i presidenti del senato che chiedono crociate, o lo Stato che si intriga di decisioni personali sulla riproduzione. Facciamo tutti e tutte un passo indietro, raffreddiamo un po’ le passioni e cerchiamo di rimettere in circolo un po’ di razionalità umana calda di cuore.
E lasciatemi ricordare, in conclusione, una osservazione che mi è capitato di fare anni fa: dopo la seconda guerra mondiale nessun esercito regolare ha mai più vinto una guerra: Francia e USA le hanno prese in Vietnam, i Sovietici in Afghanistan, non si dirà che Israele sia riuscito a venire a capo di un popolo a lungo senza terra e malridotto come i Palestinesi, o che Bush abbia vinto in Afghanistan o stia vincendo in Iraq.
È del pari vero che le resistenze vittoriose nei Paesi citati (esclusa la Palestina sempre insanguinata) abbiano poco visto fiorire la democrazia: come mi capita di dire con un cortocircuito mentale: in Vietnam ha vinto militarmente Hanoi, ma politicamente Saigon, dato che il Vietnam è ora alleato degli USA. Le armi non sono buone nemmeno quando sono “buone”. Bisogna uscire da questa stretta disperante accorgendosi e dichiarando che la guerra per la sua dismisura è uscita da una qualsiasi possibile legalizzazione: nessuna causa per quanto nobile e sacrosanta legittima l’uso della guerra e siamo “obbligati/e” alla pace come strumento politico, non come anelito delle anime belle. Ci tocca trovare strumenti di analisi e di denuncia precoce ed efficace dei conflitti, di loro raffreddamento e contenimento, prima che degenerino in scontri armati, di loro risoluzione concordata; insomma, ci tocca fare la pace per davvero, come abbiamo gridato noi femministe nel 1991 allo scoppiare della prima guerra del Golfo, che ha inaugurato un periodo di barbarie senza paragoni e il rilancio della guerra come base della politica e addirittura del diritto: “Fuori la guerra dalla storia!”: non è solo un grido di insofferenza, è il risultato di una analisi sulla guerra e sulla pace del tutto politica, che chiede di essere considerata allargata e accresciuta di ragionamenti e procedure: insomma, ci sarebbe lavoro e gloria per chiunque .

PER YASSER ARAFAT

Mentre andiamo in stampa, ci giungono le notizie relative all’agonia di Arafat. Per questo numero non abbiamo più il tempo materiale per parlare del grande leader del popolo palestinese. Ci torneremo sul prossimo numero. Ci appare comunque doveroso rievocarne la statura e lo facciamo attraverso le parole della compagna Luciana Castellina tratte da un suo articolo apparso su il manifesto dello scorso 30 ottobre ( giorno della manifestazione a Roma contro la guerra e contro la Costituzione europea), dal titolo “La pace non si esilia”.

LA PACE NON SI ESILIA

…Sì, angoscia e infinita tristezza. Perché Arafat non è un simbolo vuoto come vorrebbero tanti interessati denigratori del presidente palestinese, è la testimonianza di una fase decisiva della storia di questo popolo che grazie alla sua rottura, operata quasi 40 anni fa con l’ambigua tutela di regimi arabi complici e conservatori, ha saputo costruire la propria autonoma soggettività nazionale. Non so se qui da noi i più giovani avvertano in queste ore il nostro stesso turbamento. Per noi Arafat ha rappresentato la scoperta di un’ingiustizia che ignoravamo, venuta prepotentemente alla ribalta grazie a una coraggiosissima guerriglia popolare, intrecciata a una spregiudicata iniziativa diplomatica, a una politicizzazione di massa che ha consentito di evitare i gesti esemplari ed isolati (si pensi alla condanna da parte di Al Fatah del dirottamento degli aerei operato a suo tempo dal Fronte popolare) perché non rendevano partecipi la collettività. Un movimento nato da una costola del nazionalismo ma che rapidamente si era imbevuto della cultura del movimento operaio internazionale col quale si trovò subito consonante. Da quell’esordio sono passati molti anni e la tragica immagine di Arafat prigioniero da due anni e mezzo in un edificio diroccato di Ramallah, costretto a ricevere da Sharon la pelosa libertà di uscirne per entrare in un ospedale di Francia da cui non si sa se potrà mai rientrare nel suo paese, mentre case e uliveti della sua gente vengono divelti dai bulldozer israeliani e i corpi di fratelli e sorelle dilaniati dalle bombe di Sharon che passa per un «eroe» perché ha imposto il ritiro di qualche colono dalla Striscia di Gaza, tacendo su cosa vorrà fare della Cisgiordania – tutto questo rischia di farci morire la speranza nel cuore, di indurci a pensare che i feddayn, che il presidente dell’Olp aveva portato alla ribalta della storia sono stati, anch’essi, un mito del `68. Da seppellire con tutti i sogni del `900. Ma che razza di mondo sarebbe quello che dovremmo accettare, dove si deve chinare la testa allo sterminio di un popolo che rivendica il diritto di tornare sovrano su un pezzo almeno della propria terra? Non ha nulla da dire, e da fare, quell’Europa che ieri si è «costituita»? Quelli non erano miti, ma obiettivi che restano sacrosanti. Non possiamo, non dobbiamo abbandonare le speranze anche se i tempi in cui viviamo sono così terribili. Oggi manifestiamo perché il martoriato Medio Oriente dei Grandi Territori occupati, la Palestina e l’Iraq, conosca la pace, chiediamo che gli italiani non siano complici del massacro. E piangendo i 100mila iracheni morti ammazzati dai raid Usa, richiamiamo l’attenzione del mondo sulla moltitudine di vittime palestinesi che, paradossalmente, solo la malattia di Arafat ha riportato sulle pagine di qualche giornale…

Luciana Castellina