Modalità e fasi dell’andamento e della struttura economica nazionale e internazionale

1. Riapertura del dibattito sui processi di internazionalizzazione economico-produttiva

1. L’attuale contesto economico-sociale, le nuove forme di presentarsi del modello di sfruttamento dell’economia capitalista, tende ad ostacolare una convincente lettura di classe dell’attuale società a tutt’oggi non si sono ancora ben delineati i contenuti della trasformazione economica in atto, anche nel campo della nuova imprenditorialità. Si configurano così spesso strumenti, funzioni, figure economiche e sociali che ancora sono oggetto di studio indefinito, poco concreto, dai contenuti non delineati, che sicuramente nulla hanno a che fare con le fasi economico-sociali immediatamente precedenti. La realtà economica è in rapida e ineluttabile evoluzione, ma tende a rendere sempre più evidente la linea di demarcazione fra proprietà- capitale e una classe dei lavoratori che non ottiene forme redistributive della ricchezza né coinvolgimenti nel controllo-governo dell’impresa.

Gli elementi intorno ai quali, quindi, si può rideterminare la mappa delle nuove dinamiche geoeconomiche e produttive internazionali si possono individuare a partire da una corretta analisi di classe della fase evolutiva dei singoli poli internazionali. Diventa così determinante l’analisi dell’organizzazione del ciclo produttivo, delle caratteristiche del tessuto produttivo e sociale, dei rapporti tra le aree internazionali e tra queste e le istituzioni centrali e locali, della struttura economica dell’area e le nuove determinazioni sociali del mercato del lavoro.

Per poter riflettere, studiare ed agire in tal senso bisogna assolutamente capire ed interpretare che la nuova fase di sviluppo liberista è individuabile intorno alla centralità del dominio internazionale basato sui ruoli esercitati da nuove categorie polari, non più Usa e Urss ma, da nuovi soggetti economici che tale modello crea, soggetti economici multinazionali e soggetti-paese o meglio soggetti-polo come aree di influenza ben delineate (area del dollaro per il polo Usa, area dell’Euro per il polo Ue, area Yen, asiatica, ecc.)

2. È a partire da tali modalità di lettura che si possono correttamente interpretare i fenomeni fondamentali del processo di trasformazione che ha portato ad una redistribuzione territoriale del dominio internazionale in genere, a partire da alcune caratterizzazioni che hanno assunto le modalità delle dinamiche dello sviluppo geoeconomico collegate e finalizzate al controllo sociale, al dominio globale.

La redistribuzione territoriale non è determinata da un semplice decentramento del capitale o prodotta esclusivamente dalla valorizzazione di risorse locali ma è dovuta soprattutto ad intensi processi di ristrutturazione del capitalismo che, alla ricerca della competitività sul piano internazionale, determina efficienza a partire soprattutto dall’imposizione di forte mobilità spaziale e settoriale della forza-lavoro e dalla diversificazione dei progetti di flessibilità del lavoro e del salario.

La riflessione complessiva per la riapertura di un dibattito sui processi di trasformazione dell’economia e della società, deve partire da una prima fase di studio, di approfondimento scientifico che consiste nel classificare la geoeconomia internazionale del capitale, le caratteristiche delle unità polari e delle aree di influenza, giungendo conseguentemente ad identificare la forma che spazialmente assume la distribuzione e l’interdipendenza delle attività capitalista.

2. I caratteri della competizione globale

1. Il contenuto effettivo della competizione globale è dato, non dalla mondializzazione degli scambi, ma da quella delle operazioni del capitale, tanto sotto la forma industriale che finanziaria. All’origine della crescita della sfera finanziaria esistono dei flussi verso questo settore di frazioni di ricchezza che sono nate all’interno della produzione e che, prima di essere travasati nelle diverse forme nei vari paesi attraverso la via delle imposte e trasferiti verso la sfera finanziaria a titolo di pagamento degli interessi e di rimborso di una frazione del debito pubblico, avevano assunto la forma di salari e di stipendi, o di redditi operai, contadini e artigiani. Questi flussi sono all’origine dei meccanismi di accumulazione perversi in cui la caccia alle economie nazionali sono finalizzate al dominio del capitale finanziario e sono parte del rapporto di competizione internazionale tra poli imperialisti, mediati da compromessi all’interno delle organizzazioni sovranazionali del capitale finanziario (G8, BM, FMI, OCSE, BEI, BRI, ONU) ed in quest’ambito deve, o almeno dovrebbe, giocare il suo ruolo l’Ue, e quindi l’Euro, con una funzione, inizialmente utile anche agli Usa, come meglio si vedrà successivamente.

L’innovazione tecnologica, l’omogeneizzazione mondiale dei bisogni dei consumatori, la diminuzione delle barriere doganali e la trasformazione produttiva sono senza dubbio tra le principali motivazioni di questo nuovo processo che sta ormai interessando il mercato mondiale. La verità è che l’imprenditore internazionale attraverso le multinazionali, il commercio estero, gli investimenti diretti esteri, è alla continua ricerca di sempre nuovi mercati di sbocco ma soprattutto di nuovi mercati di incetta a basso costo della risorsa umana, il lavoro, e delle materie prime garantendo il capitale nelle aree che si prestano ad isole felici e paradisi fiscali.

La generalizzazione della produzione flessibile, con quelle che sono le sue esigenze nei termini di vicinanza tra coloro che fanno le ordinazioni e i fornitori di pezzi, di semiprodotti e di servizi, ha lo stesso peso sulla scelta della localizzazione a scapito dei paesi a medio sviluppo, in particolare, ad esempio, di quelle industrie dei Balcani e dell’Est Europeo in cui il basso costo del lavoro si associa a livelli medio-alti di specializzazione della manodopera, ivi comprese certe industrie a impiego intensivo di manodopera. Questi stessi fattori spiegano la marginalizzazione non solo di gran parte dei paesi in via di sviluppo ma dei paesi soprattutto dell’Europa centro-orientale, poi dell’Africa mediterranea. Le opportunità di delocalizzazione della produzione in direzione dei paesi a salario molto basso, rese possibili dalla liberalizzazione degli scambi pressoché completa, si tramutano per molti paesi dell’Europa dell’Est o anche parti di interi continenti (essenzialmente l’Africa) soltanto in assoluto movimento di mondializzazione del capitale, provocando un nuovo colonialismo nella forma di marginalizzazione anche degli stessi processi finanziari.

2. Si arriva così alla realizzazione dell’”impresa globale” che considera il mercato globale nel suo intero; la differenza tra questo nuovo tipo di impresa globale e l’impresa multinazionale consiste soprattutto nel fatto che mentre la prima valuta il mercato internazionale come composto da tutti i mercati degli altri paesi senza distinzione, l’impresa multinazionale invece tende a mantenerli separati.

Ma se si aumenta in tal modo la diffusione dell’impresa globale e del ruolo delle multinazionali attraverso la delocalizzazione produttiva internazionale, a tali dinamiche di diffusione territoriale corrispondono forme e processi intensi di diffusione del controllo attraverso forti meccanismi di concetrazione della proprietà.

Negli ultimi anni si è assistito al moltiplicarsi di concentrazioni industriali, bancarie e commerciali in tutti i paesi a capitalismo avanzato. In sostanza si è reso necessario attuare delle alleanze tra le imprese che hanno portato a sempre maggiori concentrazioni delle stesse.

A fronte dei processi di internazionalizzazione economica e ai processi di delocalizzazione produttiva, si assiste nei più importanti poli capitalistici a continue fusioni, acquisizioni e concentrazioni finanziarie ed industriali che spesso assumono la forma di processi a carattere nazional-capitalistico alla ricerca di spazi concorrenziali. Nella quasi totalità dei casi di concentrazione della proprietà si invoca l’efficienza e la competitività che si traduce in drastiche riduzioni del personale, in esternalizzazioni di fasi del ciclo che producono lavoro nero, precario e flessibile, in condizioni vessatorie per i fornitori ed in genere in forme di redistribuzione tutte favorevoli al profitto.

3. Il processo che ha caratterizzato lo sviluppo industriale degli ultimi venti anni nei paesi a capitalismo avanzato è stato contraddistinto da un forte aumento della produttività del lavoro a cui è corrisposto un risparmio di lavoro che eccede decisamente la creazione di nuove opportunità occupazionali. In effetti gli incrementi massicci di produttività dovuta ad intensi processi di innovazione tecnologica e ad una conseguente ridefinizione del mercato del lavoro, hanno fatto si che tali incrementi di traducessero esclusivamente in aumenti vertiginosi dei profitti e delle varie forme di remunerazione del fattore produttivo capitale. Il fattore lavoro non ha avuto alcun tipo di beneficio in termini di redistribuzione reale di tali incrementi di produttività, in quanto, non si è realizzato incremento occupazionale, né corrispondenti incrementi nell’andamento dei salari reali, né tanto meno relativi andamenti decrescenti nell’orario di lavoro ed infine neppure il mantenimento dei precedenti livelli di salario indiretto quantificabili attraverso la spesa sociale complessiva. Dal punto di vista degli investimenti si nota altresì un evidente rallentamento, poiché in quasi tutti i paesi a capitalismo maturo sono fortemente diminuiti gli investimenti pubblici (tranne quelli imputabili alle spese militari in genere) ed anche gli investimenti materiali reali privati stentano a crescere, se non in alcuni casi dove comunque dimostrano una sostanziale staticità. Ciò a significare che i processi di investimento e di accumulazione capitalistica di tipo flessibile stanno mutando completamente orizzonte. La competizione globale assume sempre più connotati finanziari, pertanto gli incrementi di produttività che sono andati ad esclusivo vantaggio del profitto e del capitale, si tramutano prevalentemente in investimenti finanziari, interni od esteri, e in investimenti in risorse immateriali del capitale intangibile rendendo del tutto residuali quegli investimenti produttivi capaci di realizzare occupazione.

È chiaro, quindi, che il quadro del capitalismo internazionale nell’era post – fordista – taylorista si caratterizza attraverso incrementi di produttività che non si redistribuiscono in maniera equa ma che si indirizzano sempre più verso il capitale, capitale che determina le sue forme di investimento, e quindi di accumulazione, attraverso processi di finanziarizzazione e di incremento delle risorse immateriali del capitale intangibile, che trovano nell’informazione e nella comunicazione i loro elementi strategici portanti. Questo è il quadro di riferimento dell’attuale processo internazionale di un Profit State globale incentrato sul modello di accumulazione flessibile, a partire dai diversi contesti attuativi dei sistemi d’impresa.

4. Pertanto le dinamiche e i mutamenti che le imprese capitalistiche hanno avuto in questi ultimi dieci anni, hanno determinato un diverso il processo di globalizzazione finanziaria e produttiva e di controllo sociale che ha interessato tutti i paesi occidentali influenzando l’intero sistema del vivere economico e sociale. È per questo che è interessante osservare le nuove modalità di investimento che danno una lettura delle linee innovative dell’internazionalizzazione capitalistica, e che evidenziano come si sviluppano le dinamiche dell’imperialismo attraverso la moderna dizione di geoeconomia.

I processi di globalizzazione dell’economia e loro finanziarizzazione, le nuove forme di accumulazione flessibile e la turbolenza dei mercati diventano, quindi, fattori di estrema importanza e capaci di influenzare fortemente i processi decisori in materia di creazione di valore degli investimenti e dell’accumulazione complessiva.

Il processo mondiale di ristrutturazione capitalistica ha determinato turbolenze e instabilità che sta provocando, nel conflitto aspro tra le diverse economie capitalistiche, una crescita dell’inflazione e un aumento degli interventi sul bilancio pubblico, a cui si è aggiunta la turbolenza di precari rapporti monetari. Oggi è il mercato finanziario a dettare le regole della flessibilità operando una modificazione profonda dell’organizzazione del lavoro, della produzione e quindi dell’occupazione. Il potere di controllo sociale sui lavoratori è stato l’oggetto di uno scardinamento prodotto dalla ristrutturazione e dalla grande offensiva politica al cui centro c’è stato l’attacco al costo del lavoro, a tutte le forme di salario diretto e differito, compresa la sua proiezione sullo Stato sociale, attraverso la ristrutturazione del mercato del lavoro; il tutto accompagnato dalle cosiddette regole della stabilità monetaria e finanziaria e dal ruolo affidato alla comunicazione, alla telematica, ed in genere alle risorse del capitale immateriale.

5. Anche la nuova ondata di progresso tecnologico in settori come l’elettronica, l’informatica e le telecomunicazioni, pur aumentando l’andamento già in crescita della produttività totale non è stata accompagnata da una corrispondente crescita dei livelli occupazionali. In effetti le risorse create con i nuovi investimenti non sono state riutilizzate e la relazione tra creazione e distruzione di lavoro non poteva essere positiva, né sono state create le condizioni per occupare la crescente forza lavoro e ridurre la disoccupazione.

Tutto ciò ha comportato per la nuova borghesia imprenditoriale una nuova forma di sviluppo capitalistico, il cosiddetto ciclo post-fordista dell’accumulazione flessibile che si è evidenziato negli ultimi venti anni anche attraverso trasformazioni profonde nell’ambito della società civile e politico-istituzionale. Trasformazioni che hanno generato la nascita di nuove esigenze per l’accumulazione realizzate soprattutto attraverso forme nuove di investimento, accompagnati da flessibilità del lavoro e dei salari imposta ai nuovi soggetti del lavoro e del lavoro negato, comprimendone il soddisfacimento dei bisogni legati ai diversi modi di vita e alla mutata struttura economico-produttiva.

In tale scenario si sviluppa il quadro macroeconomico mondiale degli anni ‘90 contemporaneamente caratterizzato da tassi di crescita molto deboli del Pil, compresi i paesi come il Giappone che hanno svolto una funzione trainante nei confronti del resto dell’economia mondiale; una deflazione crescente; una congiuntura mondiale estremamente instabile, inframmezzata da sussulti monetari e finanziari; aumento di investimenti che si accompagna alla crescita della disoccupazione di massa e la sua natura tecnologica e strutturale coniugata al contenimento dei salari reali, da flessibilità e precarizzazione del lavoro e le condizioni del lavoro medievali in molti paesi in cui la manodopera viene sfruttata all’estremo. Si determina così l’accentuarsi delle diseguaglianze di reddito e di condizioni di vita all’interno anche dei paesi a capitalismo maturo che si accompagna alla marginalizzazione di intere regioni del globo dal sistema di scambi e ad una concorrenza internazionale sempre più intensa. Nel caso dei paesi OCSE, circa i tre quarti delle operazioni d’investimento all’estero hanno preso la forma di operazioni di acquisizione e di fusione di imprese esistenti, ovvero di cambiamento di proprietà del capitale esistente, spesso seguiti da ristrutturazioni di processo e di prodotto che hanno determinato disoccupazione senza creazione di mezzi di produzione nuovi e laddove ci sono stati investimenti produttivi questi non hanno necessariamente diminuito la disoccupazione, anzi il contrario. In molti mercati, i tassi di concentrazione mondiale sono dunque analoghi a quelli di trent’anni fa tipici delle economie chiuse. La priorità nelle operazioni di acquisizione e di fusione di imprese esistenti concerne anche gli investimenti al di fuori dell’OCSE, alla ricerca di concentrazioni compatibili ai movimenti internazionali del capitale finanziario.

6. La competizione fra Europa e Usa punta sul dominio dell’Eurasia con caratteristiche geopolitiche e geoeconomiche realizzate con la collocazione degli Ide (investimenti diretti esteri) e con un intervento in termini di globalizzazione finanziaria che, sfruttando i proventi degli investimenti produttivi esteri, ricicla i profitti in occidente favorendo forme di speculazione finanziaria a facile guadagno e capaci di strozzare le economie deboli o a medio livello di sviluppo a favore delle istituzioni finanziarie, in particolare non bancarie, su cui si basa la crescita dei poli imperialisti. Trionfa, almeno momentaneamente, il modello capitalista americano che ora è maggiormente in grado di unificare e influenzare il mondo attraverso il modello di capitalismo anglosassone, ma ciò non significa certo rottura della politica multipolare realizzata con atti continui di guerra economica che assumeranno sempre più la forma di guerra guerreggiata per l’affermazione delle gerarchie.

L’epoca della globalizzazione vede ormai uno scontro aperto in particolare fra due maggiori poli capitalisti che attraverso il ruolo della “Global Nato” cercano di estendere il dominio del “Profit State Globale” al mondo intero e in particolare su quelle aree ad interesse strategico, in particolare l’Europa centro-orientale e l’area asiatica dell’ex Unione Sovietica, allargando l’ambito di intervento della Nato al fine di comprimere le ambizioni di superpotenza della Russia e l’eventuale costruzione del temibilissimo polo russo-cinese-indiano. L’obiettivo primario del “Profit Global Nato” è quello di imporre, con le buone o con le cattive, la dottrina di dominio della “stabilità politico-economica internazionale”, dopodiché si tireranno i conti interni per la supremazia di uno dei due poli, l’Ue o gli Usa.

3. Il quadro macroeconomico degli anni ‘90 e l’Euro

Vogliamo premettere che considerando congiuntamente l’andamento della crescita dell’economia e dell’occupazione si nota che nel periodo 1970-1992 la minore differenza si ha negli Usa, rispetto all’Europa e al Giappone, ma va considerato che molta della crescita occupazionale statunitense si è realizzata attraverso un’alta flessibilità e precarizzazione del lavoro. L’andamento della crescita economica e dell’occupazione in Europa (periodo 1970-1992) evidenzia che la forbice si allarga in maniera impressionante.

In ultima analisi negli anni 1975-1995 a fronte di una crescita di occupati (cioè lavoratori che hanno un qualsiasi tipo di occupazione) negli Stati Uniti di circa il 45%, in Europa si è avuto un incremento del 12,6% e in Italia il livello di occupazione nel 1995 è cresciuto di appena 400.000 unità rispetto a venti anni prima (nel 1997 si è avuto nell’industria in senso stretto un decremento dello 0,6%). A ciò occorre aggiungere il fatto che la disoccupazione è diversificata oltre che per categorie di persone anche per l’età e per la collocazione territoriale (In Italia tra il 1975 e il 1995 si è registrato un alto differenziale del tasso di disoccupazione tra Nord e Sud).

Nello stesso periodo sia in Europa sia negli Usa si è manifestato inoltre un crescente divario tra la cosiddetta “economia sommersa” e il lavoro “tutelato”. Si registra anche uno sfasamento sempre più marcato tra produzione ed occupazione in quanto se la produzione diminuisce l’occupazione cala mentre non è vero il contrario: ossia ad un amento della produzione non si accompagna un pari aumento di occupazione. Anche l’elasticità nell’andamento della produzione, ossia la misura del prodotto interno lordo e andamento dell’occupazione che in passato era in rapporto tre a uno, (cioè ad un incremento pari al 3% del Pil corrispondeva un aumento dell’1% dell’occupazione) rimasta stabile per diversi anni è ora decrescente. Inoltre, in nessun paese dell’Unione Europea si è riusciti ad assorbire l’aumento di offerta di lavoro femminile e giovanile: in Italia il tasso di disoccupazione femminile è del 16% contro il 13% in Europa e il 5,5% negli Usa; ed ancora in Italia un terzo della disoccupazione totale è rappresentato da giovani mentre in Europa i giovani senza lavoro sono un quinto e negli Usa un ottavo del totale disoccupati.

Il quadro macroeconomico mondiale degli anni ‘90 è stato contemporaneamente caratterizzato da tassi di crescita molto deboli del Pil, compresi i paesi come il Giappone che hanno svolto una funzione trainante nei confronti del resto dell’economia mondiale. Un quadro internazionale che evidenzia: una deflazione crescente; una congiuntura mondiale estremamente instabile, inframmezzata da sussulti monetari e finanziari; la crescita della disoccupazione di massa, raddoppiata da un allineamento dei salari, dalla flessibilità del lavoro e dalle condizioni sempre più precarie del lavoro; l’accentuarsi dell’ineguaglianza tra aree geografico-economiche e delle diseguaglianze di reddito e di condizioni di vita all’interno di ognuno dei paesi industrializzati singolarmente considerato; la marginalizzazione di intere regioni del globo dal sistema di scambi e una concorrenza internazionale sempre più intensa, generatrice di seri conflitti commerciali tra le grandi potenze (Usa, Giappone, Unione Europea).

Questi elementi devono essere interpretati come l’avvisaglia della maturità di un grande regime di accumulazione mondiale nuovo, una accumulazione flessibile, il funzionamento della quale è sottomesso alle priorità del capitale privato e finanziario altamente concentrato.

Il quadro macroeconomico degli anni ‘90 per il complesso dei paesi dell’Unione Europea si è caratterizzato oltre che per la crescita molto debole dei tassi del Pil (nel 1993 è diventato negativo) anche per una deflazione sempre crescente, accompagnata da una congiuntura mondiale molto instabile con continui movimenti monetari e finanziari. La tendenza è quella di una insoddisfacente crescita, che ha anche colpito i livelli occupazionali per tutta la prima metà degli anni ‘90. Durante gli anni 1990-96 la crescita media del Pil nella Comunità Europea è stata solo dell’1,5%, questo risultato è molto più basso del tasso medio di crescita del 3,3% realizzato nella seconda metà degli anni ‘80, ed è inoltre inferiore del tasso medio di sviluppo del 2% registrato durante gli anni 1974-85. La bassa crescita ha colpito fortemente l’andamento dell’occupazione, infatti si sono persi oltre la metà dei 10 milioni di posti di lavoro creati durante il periodo di crescita 1986-90.

Dopo un periodo di espansione avutosi dalla fine del 1993 al primo trimestre del 1995, si è avuto un brusco rallentamento caratterizzato da una recessione particolarmente acuta nei paesi le cui monete sono aumentate di valore durante il turbinio monetario dei primi mesi del 1995. Nei paesi comunitari in generale, l’aumento della formazione di capitale (gli investimenti) si è bloccato e il livello delle esportazioni si è ridotto, sia dentro sia al di fuori dell’Europa.

2. È in questo quadro macroeconomico che viene impressa una brusca accelerazione al processo di unificazione europea, tutto incentrato su intensi processi di finanziarizzazione dell’economia, senza alcun riferimento alle dinamiche politiche e alla salvaguardia delle istanze sociali.

La costituzione dell’Unione Europea può essere considerato un momento politico ed economico tra i più difficili ed importanti che hanno caratterizzato la storia dei paesi europei, di questi ultimi anni. I molteplici ed infiniti “sacrifici” che i cittadini europei, e in particolare la popolazione economicamente più debole, hanno dovuto sopportare in nome dell’Europa di Maastricht hanno acutizzato e non certo risolto i già pesanti problemi economici e sociali che hanno contraddistinto questa fine del millennio.

L’Europa, infatti, dà via libera alla Germania per la riunificazione in tempi rapidi, ottenendo come contropartita l’europeizzazione del marco. L’esigenza di stabilizzare il livello di inflazione, i tassi di interesse, i tassi di cambio, il rapporto fra debito pubblico e Pil e quello fra deficit rispetto al Pil, hanno imposto in questi ultimi anni adeguamenti delle politiche economiche di ogni paese membro con il risultato che sono state adottate misure di tagli alla spesa pubblica, riforme fiscali e tagli occupazionali di enorme portata con ripercussioni sugli strati più deboli e disagiati della popolazione.

Per raggiungere gli obiettivi iniziali dell’Unione Europea è fissato che in ogni paese il debito pubblico non deve superare il 60% del Pil, il deficit pubblico non deve essere superiore al 3% del Pil, l’inflazione non deve essere maggiore di oltre l’1,5% dell’inflazione media dei tre paesi con tasso di inflazione più basso ed, infine, i tassi di interesse a lungo termine non devono superare il 2% della media dei tassi a lunga scadenza dei tre paesi con inflazione più bassa.

Dai dati emerge chiaramente come la maggior parte dei paesi (l’Italia in particolar modo) si siano trovati a dover adeguare ai parametri comunitari situazioni economiche interne di grande diversità nella rincorsa alla germanizzazione dell’Europa, mascherata da una auspicata europeizzazione della superpotenza tedesca. Il processo mondiale di ristrutturazione capitalistica e di riassetto degli equilibri interimperialistici ha provocato, quindi, anche in Europa turbolenze e instabilità che hanno determinato, nel conflitto aspro tra diverse economie capitalistiche, una crescita dell’inflazione e un aumento del debito pubblico che ha realizzato livelli patologici, a cui si è aggiunta la turbolenza di precari rapporti monetari.

3. Oggi è il mercato a dettare le regole e la flessibilità e variabilità del mercato hanno operato una condizione che ha proposto una modificazione profonda dell’organizzazione del lavoro, della produzione e quindi dell’occupazione. Tutto questo in un periodo di crescita rallentata. Il potere di controllo sociale dei lavoratori è stato l’oggetto di uno scardinamento prodotto dalla ristrutturazione e dalla grande offensiva politica al cui centro c’è stato l’attacco al costo del lavoro, a tutte le forme di salario diretto e differito compresa la sua proiezione sullo Stato sociale, attraverso la ristrutturazione del mercato del lavoro.

Va comunque rilevato che la disoccupazione nei paesi dell’Unione Europea è attualmente uno dei problemi di maggiore drammaticità interessando circa 19 milioni di disoccupati ufficiali; è di circa 32 milioni se si considerano anche gli “invisibili” alle statistiche ufficiali. Si noti che nell’Ue negli ultimi 25 anni l’occupazione totale è aumentata di circa il 9% a fronte di un aumento del volume di ricchezza prodotta di oltre il 90%. Oltre ad una sempre maggiore precarietà del lavoro, alla diminuzione dei salari reali si è aggiunto l’attacco sempre più aspro al Welfare, al servizio sanitario , alla previdenza sociale, alla scuola. Pur in presenza di un elevato incremento di produttività non si è realizzata di pari passo una diminuzione del tasso di disoccupazione.

Tutto ciò ha comportato per la nuova borghesia imprenditoriale una nuova forma di sviluppo capitalistico, che si è evidenziato negli ultimi venti anni anche attraverso trasformazioni profonde nell’ambito della società europea, trasformazioni che hanno generato la nascita di nuove esigenze e bisogni legati ai diversi modi di vita e alla mutata struttura economico-produttiva.

Tutti i parametri macroeconomici presentano anche dopo il ‘95 l’andamento dei primi anni ‘90 già evidenziato precedentemente con, in generale tassi di disoccupazione maschile e femminile che aumentano fortemente in tutti i paesi europei e retribuzioni dirette e indirette (in termini salariali e di prestazioni sociali), che si incrementano in modo assai lento senza assolutamente rispondere ad una equa redistribuzione ai fattori produttivi capitale e lavoro degli incrementi di prodotto e di produttività, segnando, infatti, una forte carenza redistributiva verso le forme di remunerazione al fattore lavoro.

Ciò è anche confermato con l’andamento dei parametri macroeconomici per il 1997 che segnano un incremento del Pil sull’anno precedente del 3,8% per gli Usa, dello 0,9% per il Giappone, del 2,2% per la Germania, del 2,3% per la Francia, del 3,3% per il Regno Unito e infine dell’1,5% per l’Italia; rispettivamente negli stessi paesi si hanno variazioni percentuali sull’anno precedente dell’occupazione del 2,3%, 1,1%, -1,4% 0,3%, 1,7% e valori anche estremamente bassi per l’Italia.

Nel 1997 si hanno tassi di disoccupazione del 5% per gli Usa, del 3,4% per il Giappone, dell’11,5% per la Germania, del 12,5% per la Francia, del 5,6% per il Regno Unito e del 12,3% per l’Italia. Per gli stessi paesi è infine importante riferire gli indicatori economici relativi al costo del lavoro per unità di prodotto che realizza rispettivamente incrementi dello 0,9% in Usa, del -2,8% in Giappone, del -5,8% in Germania, del – 3% in Francia, del 3,3% nel Regno Unito e del 2% in Italia; il tasso di disoccupazione, anche destagionalizzato, nel frattempo, si mantiene molto alto in tutta l’area europea.

In Giappone si è registrata nel 1997 una forte riduzione dei consumi e degli investimenti causando una diminuzione del tasso di crescita dell’economia che è arrivata ad appena lo 0,9%; anche il 1998 ha confermato questa tendenza (il Pil è stato nel primo trimestre dell’1,3%). Anche gli Stati Uniti pur ottenendo una crescita media del 3,8% hanno registrato livelli minimi di occupazione; lo stesso dicasi per i paesi dell’Unione Europea, i quali hanno registrato un incremento di prodotto del 2,7% accompagnato però da un alto livello di disoccupazione. La liberalizzazione degli scambi insieme alla deregolamentazione e allo smantellamento della legislazione a tutela dei salari, ha permesso ai gruppi delle multinazionali di sfruttare simultaneamente i vantaggi della libera circolazione delle merci e delle forti disparità tra i paesi, le regioni o i luoghi situati all’interno della stesso mercato unico europeo. Il grande mercato continentale assicura contemporaneamente ai gruppi economico-finanziari delle multinazionali una totale libertà di scelta dei differenti elementi costitutivi di una produzione integrata a livello internazionale, rispondendo anche alle esigenze delle strategie di differenziazione dell’offerta e della fedeltà della clientela, esigenze che sono proprie alla concorrenza oligopolistica.

3. Da quanto detto fino ad ora è evidente che dalla firma del Trattato di Maastricht la disoccupazione è aumentata, la crescita economica ristagna, lo Stato sociale è ovunque in crisi. Il tenore di vita è diminuito, la legittimizzazione degli Stati, a cominciare dall’Italia è messa in questione senza che si intraveda l’alba dell’unità politica europea. Sulla scena politica internazionale, l’Unione europea non esiste.

Per ora sembra solo che la preoccupazione maggiore dei governi sia stata quella di scegliersi l’alleato ideale nella lotta alla supremazia economica e politica, in contrapposizione più o meno marcata rispetto al polo statunitense, imponendo una maggiore centralità del mercato Ue non solo per le multinazionali europee ma anche per quelle esterne.

A prescindere dai conflitti di interessi l’Europa dell’Euro è una scelta nell’ambito della logica spartitoria geoeconomica polare diretta dai principi della globalizzazione finanziaria e della competizione globale.

Ed è proprio per questo che nonostante le apparenze si tratta di un’ideologia molto fungibile e ancora carica di indeterminatezza sulle aree di influenza da aggredire. La teoria dell’Europa unita è ancora troppo debole nei confronti del polo Usa per poter servire progetti differenti, se non opposti: dallo stretto dominio sociale a carattere finanziario ed economico all’interno degli attuali confini statali e comunitari, fino allo stravolgimento della carta geopolitica mondiale mascherato da criteri “etnici” o socio-economici ma determinato, nella realtà, anche nel Terzo Mondo, da logiche di polarizzazione geoeconomica.

4. Tutti i fenomeni connessi alla mondializzazione finanziaria sono perni del progetto dell’Unione Europea così come si sta costruendo e così come è la situazione economica e sociale a livello mondiale fa crescere il dissenso statunitense all’Ue. Si è ormai presa coscienza specialmente da parte degli Usa e della Gran Bretagna, che è tempo di vedere un’Europa sempre più in crisi, poiché tale grande mercato può offrire prospettive di sviluppo neoliberiste in alternativa al polo anglosassone che nelle aree dell’Europa centro-orientale, dell’Africa mediterranea e di molti paesi dell’Asia centrale avrà sempre meno voce in capitolo.

L’Euro è inscritto in una logica mercantilistica, poiché mira a creare un blocco regionale europeo in grado di competere con Stati Uniti, Giappone e Asia anche se apparentemente la competizione globale invece significa apertura dei mercati e delle frontiere. Basta guardare, ad esempio, al vertice di Rio, conclusosi dopo la guerra Nato alla Jugoslavia, in cui l’Ue ha posto le basi per la creazione di un’area transatlantica di libero scambio con l’America Latina, in assenza degli Usa anzi in aperto contrasto con il traguardo con l’Alca, il concorrente interamericano.

La sorte dell’Euro è fortemente condizionata dal contesto esterno, che siano i mercati finanziari nel mondo o la politica monetaria degli Stati Uniti. L’ipotesi Euro continua a prendere consistenza e profilarsi come strumento di guerra commerciale, pertanto gli Usa stanno facendo il possibile per soffocarla. Per gli americani la migliore Europa possibile deve essere sufficientemente unita ma sotto il dominio Usa e, quindi, agiscono per renderla sufficientemente divisa per impedirne l’affermazione come superpotenza concorrente. Gli Usa, dunque, temono oggi più di ieri una moneta destinata a favorire nel tempo le esportazioni europee e nel tempo, a minacciare il rango del biglietto verde come valuta di riserva mondiale. La subordinazione Ue agli Usa è chiara anche durante e dopo la guerra Nato in Jugoslavia, basta vedere come l’Euro perde sul dollaro (circa il 12%) e come la guerra incide in modo decisamente negativo sull’economia dell’Europa dei 15, mentre la crescita in Usa nel periodo bellico è del 4,5% seguendo un forte andamento di crescita già avuto negli ultimi mesi del 1998 in cui l’economia americana si preparava ai nuovi conflitti in Iraq e in Jugoslavia.

4. La situazione economica internazionale a fine anni ‘90

1. Per inquadrare l’attuale situazione economica internazionale si può, tra gli altri, guardare al contenuto della “Relazione del Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea generale ordinaria dei partecipanti del 31 maggio 1999”, riferita ai dati del 1998, dalla quale si possono evidenziare alcuni parametri e alcune dinamiche che hanno caratterizzato l’economia internazionale.

Si nota immediatamente che la crisi finanziaria che nel 1997 aveva interessato solo i paesi dell’Asia Orientale si è allargata all Russia e ad alcuni paesi dell’America Latina, determinando crisi valutarie e del debito ed instabilità economica di molte aree, anche a causa del crollo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime e alla moderata dinamica dei costi unitari del lavoro, con forti ripercussioni moltiplicative che hanno causato anche fenomeni di recessione internazionale.

È interessante notare il differenziale di crescita tra i vari paesi e le diverse aree a disuguale livello di sviluppo. Si noti che nel 1998 il Pil mondiale è aumentato complessivamente del 2,5% mentre nel 1997 l’incremento era stato del 4,2%; si consideri che, escludendo la Cina e l’India che continuano ad avere ritmi di crescita molto sostenuti, i paesi in via di sviluppo asiatici hanno segnalato un decremento del Pil del 5% mentre nel 1997 si era avuto un aumento del 4%; la Russia proprio a causa della crisi finanziaria evidenzia una riduzione del prodotto del 5%; l’America Latina, anche a causa del crollo di prezzi delle materie prime, passa da un incremento del 5,2% del Pil del 1997 ad un aumento del 2,3%.

La crisi internazionale ha fatto sì che i paesi a capitalismo avanzato imponessero una accelerazione ai processi di riforma dei mercati monetari e finanziari internazionali intervenendo anche sulle politiche monetarie e abbassando a più riprese i tassi di interesse, agendo fortemente in chiave di assoluto dominio e di controllo economico e politico sui paesi in via di sviluppo.

2. Per avere un quadro di confronto fra Usa e gli altri dei più importanti indicatori macroeconomici si vedano le Tabb. 1 e 2, in cui si possono leggere i diversi ritmi di crescita complessivi dell’economia, ed in particolare di alcuni elementi del fattore capitale (CLUP, investimenti, ecc.).

Tab.1 Indicatori economici (variazioni percentuali sull’anno precedente)

Voci
Stati Uniti (1)
Giappone (2)
Canada (3)

1989
1992
1995
1996
1997
1998
1989
1992
1995
1996
1997
1998
1989
1992
1995
1996
1997
1998

Pil
3,4
2,7
2,3
3,4
3,9
3,9
4,8
1,0
1,5
5,1
1,4
-2,8
2,5
0,9
2,6
1,2
3,8
3,0

Consumi privati
2,3
2,8
2,7
3,2
3,4
4,9
4,8
2,1
2,1
2,9
1,0
-1,1
3,6
1,8
2,1
2,3
4,1
2,7

Invest.priv.fissi lordi
1,7
5,7
5,5
8,8
8,3
11,4
8,2
-1,5
1,7
11,1
-1,9
-8,8
5,9
-1,3
-2,5
6,6
11,1
4,2

Esportazioni
11,7
6,6
11,3
8,5
12,8
1,5
9,1
4,9
5,4
6,3
11,6
-2,3
1,3
7,9
8,8
5,9
8,0
8,1

Importazioni
3,9
7,5
8,8
9,2
13,9
10,6
18,6
-0,7
14,2
11,9
0,5
-7,7
6,3
6,2
6,4
5,4
13,3
6,4

Occupazione
2,5
0,3
2,7
2,1
2,6
2,6
2,0
1,1
0,1
0,4
1,1
-0,6
2,1
-0,6
1,6
1,2
1,9
2,8

Guadagni orari
2,7
5,1
2,4
3,5
3,5
4,2
5,6
1,2
2,9
2,6
3,0
-0,8
5,4
3,5
1,4
3,1
0,9
2,1

Costo lav.unità prod.
2,1
1,9
1,8
1,0
2,3
1,9
0,8
8,5
-2,2
-1,8
-2,2
6,1
4,5
-1,1
-0,3
2,0
-0,3
2,8

Tasso disoccupaz.
5,3
7,5
5,6
5,4
4,9
4,5
2,3
2,2
3,2
3,4
3,4
4,1
7,5
11,3
9,5
9,7
9,2
8,3

Volume Esportazioni
12,5
7,0
12,5
9,7
15,4
2,3
4,4
1,6
3,5
0,6
11,8
-1,2
0,7
8,0
9,1
5,7
9,0
7,8

Volume Importazioni
4,2
9,6
9,6
10,0
14,7
11,2
7,9
-0,6
13,0
4,9
1,7
-5,3
5,1
7,5
7,5
5,6
16,2
7,4

Per gli Usa: Le esportazioni e le importazioni si riferiscono a merci e servizi; l’occupazione a occupati dipendenti non agricoli; i guadagni orari al settore privato esclusa l’agricoltura e redditi da lavoro dipendente.

Per il Giappone: Le esportazioni e le importazioni si riferiscono a merci e servizi; i guadagni orari si riferiscono all’industria manifatturiera e ai guadagni mensili; il costo del lavoro per unità di prodotto all’industria manifatturiera; il tasso di disoccupazione (livello).

Per il Canada: Le esportazioni e le importazioni si riferiscono a merci e servizi; i guadagni orari si riferiscono all’industria manifatturiera; il costo del lavoro per unità di prodotto si riferisce all’industria manifatturiera e ai salari e stipendi; il tasso di disoccupazione (livello).

Fonte: FMI, OCSE

Tab.2. Indicatori economici (variazioni percentuali sull’anno precedente)

Voci
Germania 1)
Francia 2)
Regno Unito 3)

1989
1992
1995
1996
1997
1998
1989
1992
1995
1996
1997
1998
1989
1992
1995
1996
1997
1998

Pil
….
2,2
1,7
0,8
1,8
2,3
4,3
1,2
2,1
1,6
2,3
3,2
2,1
0,1
2,8
2,6
3,5
2,1

Consumi privati
….
2,8
1,9
0,9
0,7
1,8
3,1
1,4
1,7
2,0
0,9
3,8
3,3
0,4
1,7
3,6
4,0
2,7

Invest.priv.fissi lordi
….
4,5
-0,7
-0,9
0,6
1,8
7,9
-2,8
2,5
-0,5
0,3
4,1
5,9
-0,7
2,9
4,9
6,9
8,3

Esportazioni
….
-0,8
5,8
5,3
10,9
6,5
10,2
4,9
6,3
5,2
12,6
6,3
4,8
4,1
9,5
7,5
8,6
3,1

Importazioni
….
1,5
5,7
3,4
8,2
8,0
8,1
1,2
5,1
3,0
8,0
8,0
7,4
6,8
5,5
9,1
9,4
8,4

Occupazione
1,4
-1,7
-0,2
-0,8
-0,8
0,4
1,5
-0,7
0,8
0,3
0,2
2,1
2,9
-2,8
1,7
1,9
1,8
1,2

Guadagni orari
4,2
9,6
4,1
4,3
1,1
1,7
5,1
4,8
1,6
2,6
3,2
1,9
8,8
6,6
4,5
4,4
4,3
4,5

Costo lav.unità prod.
1,0
5,1
-0,3
-1,2
-5,5
-2,9
-0,2
0,4
-2,3
-0,2
-3,0
-2,6
4,9
0,4
3,8
5,4
3,3
4,3

Tasso disoccupazion.
7,1
7,7
9,5
10,4
11,5
11,1
9,4
10,4
11,6
12,3
12,5
11,8
6,2
9,7
8,0
7,3
5,5
4,7

Volume Esportazioni
9,7
0,4
6,5
4,7
11,6
5,9
9,0
4,8
7,9
5,1
12,5
6,8
5,8
2,5
7,8
7,1
8,0
0,4

Volume Importazioni
9,7
1,3
7,2
3,1
8,0
6,3
8,2
0,9
5,8
2,5
7,8
8,4
8,2
6,6
4,5
8,9
8,9
3,8

Per la Germania: I consumi privati includono i consumi delle istituzioni senza scopo di lucro; le esportazioni e le importazioni si riferiscono a merci e servizi; per i guadagni orari ci si riferisce alle industrie manifatturiere ed estrattive; il costo del lavoro per unità di prodotto ci si riferisce a salari e stipendi nelle industrie manifatturiere ed estrattive; tasso di disoccupazione si riferisce (livello).

Per la Francia: le esportazioni e le importazioni si riferiscono a merci e servizi; i guadagni orari si riferiscono all’industria manifatturiera; il costo del lavoro per unità di prodotto si riferisca a salari e stipendi nelle industrie manifatturiere; tasso di disoccupazione (livello).

Per il Regno Unito: le esportazioni e le importazioni si riferiscono a merci e servizi; per i guadagni orari ci si riferisce alle industrie manifatturiere e ai guadagni settimanali; tasso di disoccupazione ( livello).

Fonte: FMI, OCSE

Si nota per il Giappone negli ultimi anni una situazione economica che continua a peggiorare, realizzando un calo del Pil di circa il 3%, e un crollo degli investimenti fissi con variazioni spesso negative, rispetto all’anno precedente; si tratta inoltre di crisi che ha colpito fortemente l’andamento occupazionale e dei salari. Nonostante alcuni interventi sul mercato monetario che per favorire la domanda e gli investimenti hanno portato i tassi di interesse a brevissimo termine ad una percentuale molto vicina allo zero, è avvenuto che l’enorme liquidità così liberata è continuata ad affluire sui mercati internazionali e non sul mercato interno, accentuando la posizione netta sull’estero del Giappone. Ciò comporta alti rischi sul mercato internazionale di cambi visto che gli Stati Uniti registrano invece un disavanzo corrente per il 1998 di 80 miliardi di dollari e l’area dell’euro evidenzia una diminuzione di 20 miliardi dell’attivo.

Sempre per il 1998 i paesi dell’area dell’euro hanno registrato un incremento del Pil del 2,8% contro l’aumento del 2,5% del 1997; tale performance è stata la più alta degli ultimi dieci anni, dovuta anche ad un buon andamento della domanda interna, anche se all’incremento del prodotto nell’Unione Europea non è però corrisposto un miglioramento dell’andamento del mercato del lavoro che segnala ancora circa un 11% medio del tasso di disoccupazione.

3. Anche per il 1999 le prospettive di sviluppo non possono certo definirsi buone per i paesi a basso e medio livello di sviluppo, anche perché i vari organismi internazionali segnalano un rallentamento del Pil mondiale che dovrebbe segnare complessivamente una crescita contenuta, con un risultato inferiore alla media nell’area dell’Euro (area nella quale la Germania e l’Italia evidenziano uno sviluppo ancora più incerto) ed un ulteriore ristagno dell’economia giapponese insieme ad una situazione fortemente critica per l’America Latina. Pertanto anche per il 1999 la domanda mondiale è stata essenzialmente sostenuta soltanto dagli Stati Uniti, che hanno raggiunto un incremento del Pil superiore alla media, ma con le stesse logiche di dominio colonialista ed imperialista che caratterizzano la loro politica economica, la quale anche in questi ultimi anni ha evidenziato in tal modo una fase espansiva, che dura ormai da oltre otto anni, raggiungendo un aumento del prodotto del 3,9% dovuto ad una alta dinamica degli investimenti, in particolare in attrezzature informatiche e in quel macrosettore che può individuarsi come area produttiva dell’economia di guerra, ed anche a continui aumenti della produttività.

5. Il cambiamento della fase economica internazionale: crescita senza redistribuzione

Dai dati congiunturali (Fonte FMI, BCE, OCSE, Banca d’Italia, ISTAT, ISAE) risulta che nel 1999 e nei primi mesi del 2000 l’economia internazionale è in ripresa, dopo i risultati negativi del 1998 dovuti anche alla crisi asiatica del 1997. Le stesse crisi della Russia nel 1998 e del Brasile (gennaio 1999) non hanno fatto emergere gravi situazioni di ristagno economico internazionale.

La situazione che si prospetta è quella di una vera e propria modifica di fase economica che, dopo i periodi di crisi e stagnazione avuti per tutti gli anni ‘90 e fino al 1998 (con l’eccezione degli Stati Uniti), fa intravedere processi di crescita economica internazionale.

Infatti, le previsione dell’FMI davano per il 1999 una crescita mondiale del 3%. In effetti, la crescita c’è stata e a ciò ha contribuito una impostazione espansiva moderata delle politiche di bilancio, in particolare delle politiche monetarie, non più a carattere restrittivo come gli anni precedenti, ma più temperate e orientate ad una ripresa complessiva dell’economia internazionale, anche se di fatto tale ripresa è coniugata all’assenza di sviluppo occupazionale e complessivo, alla mancanza di politiche redistributive dei redditi e in particolare della ricchezza prodotta verso il fattore lavoro, ed, infine, da una domanda reale non particolarmente sostenuta da aree come quella dell’Euro e dello Yen.

2. Infatti, anche per il 1999 e i primi mesi del 2000 è quasi esclusivamente l’economia americana che continua a sostenere la domanda complessiva internazionale. In Cina il tasso di crescita del Pil è stato ancora molto elevato con politiche economiche di sostegno della domanda. In genere, dopo la crisi del 1997, i paesi dell’area asiatica mostrano forte miglioramento con crescita dei flussi di esportazione e con graduali ritorni dei flussi esteri di capitale.

In particolare nell’area asiatica si è evidenziato per il 1999 un arresto della recessione in Giappone, dove si nota una forte crescita degli investimenti pubblici ma non di quelli privati. Si può sostenere in generale che l’economia giapponese ha ristagnato dopo la caduta economica del 2,5% del ‘98, continuando il processo deflazionistico di prezzi e salari con andamento negativo della domanda interna. I primi mesi del 2000 mostrano una dinamica non positiva dell’attività produttiva dopo la risalita segnalata nel ‘99.

3. Nell’area dell’Euro si sono avuti già a partire da inizio ‘99 segnali di un rilancio positivo della congiuntura. Si stima comunque in quest’area un aumento del Pil del 2,2% per il ‘99, con una diminuzione relativamente al 2,8% del ‘98. La crescita economica complessiva europea per il 1999, evidenziata da una forte ripresa delle esportazioni, è sicuramente da attribuire soprattutto al guadagno di competitività dovuto al deprezzamento dell’Euro, anche se si continua a segnalare un tasso complessivo di disoccupazione intorno al 10% anche per il 1999.

Va evidenziato che la Germania e l’Italia continuano ad avere ritmi di crescita inferiore (rispettivamente dell’1,5% e dell’1,4%) in confronto ai restanti paesi dell’euro (Francia 2,7%, Spagna 3,7%); ciò è dovuto soprattutto ad una scarsa dinamica dei consumi interni e a redditi disponibili per le famiglie non adeguati. Si è quindi avuto un comportamento di consumo molto prudente da parte delle famiglie, infatti i consumi privati in Italia hanno evidenziato il più basso incremento tra tutte le economie dell’area dell’Euro. Non può dirsi la stessa cosa per quanto concerne la dinamica degli acquisti di beni strumentali da parte delle imprese che hanno segnalato forti ritmi di crescita anche per quanto concerne i processi di accumulazione del capitale fisso.

In particolare in Italia i consumi finali interni delle famiglie hanno seguito una dinamica molto lenta aumentando di solo l’1,7%, quindi, con un rallentamento rispetto al ‘98 che aveva segnato un incremento del 2,3%; ciò è stato dovuto principalmente a scarsi incrementi occupazionali a forte contenuto di precarietà, a mancanza di forme di sostenimento del reddito e alle modestissime evoluzioni dell’andamento salariale retributivo pro-capite inferiori certamente alle aspettative, a politiche fiscali che non favoriscono i consumi e alla ripresa inflazionistica, dovuta all’aumento del prezzo del petrolio, ai corsi delle materie prime energetiche, il tutto ovviamente coniugato al forte sovrapprezzamento della quotazione del dollaro (si consideri che la crescita dei consumi è soprattutto dovuta all’acquisto di autovetture per la sostituzione di quelle non catalizzate). Anche per l’Italia la componente più dinamica della domanda globale è dovuta all’andamento degli investimenti fissi lordi che a prezzi costanti sono aumentati nel ‘99 del 4,4%.

In effetti i due paesi che più hanno sostenuto la crescita nei paesi dell’area dell’Euro sono state la Francia e la Spagna con intense dinamiche della domanda globale interna.

La parte corrente della bilancia dei pagamenti dell’area dell’Euro è passata dai 60,3 miliardi di Euro del ‘98 ai 43,2 miliardi di Euro del ‘99 (rispettivamente l’1% e lo 0,7% del Pil); in Italia in particolare tale percentuale si è dimezzata passando dall’1,8% allo 0,9%.

I piccoli segnali positivi di incremento di occupazione in Italia e nell’area dell’Euro provengono fondamentalmente non da veri nuovi posti di lavoro ma da forme di riallocazione degli occupati dall’industria al terziario e da forma contrattuali sempre più precarie e flessibili.

Inoltre l’indebolimento dell’Euro e la crescita delle quotazioni del petrolio hanno accelerato le dinamiche inflazionistiche in tutta Europa con valori più alti in Italia (le aspettative di inflazione per il 2000 sono di un tasso annuo dell’1,7% nella media europea e del 2% per l’Italia).

Nell’area dell’Euro l’indebitamento netto della Pubblica Amministrazione è diminuito dal 2 all’1,2% del Pil, e a tale diminuzione ha fortemente contribuito la flessione degli interessi e l’aumento sostenuto delle entrate fiscali e tributarie con un inasprimento, quasi ovunque, sui redditi da lavoro.

In Italia, in particolare l’indebitamento netto è sceso dal 2,8 all’1,9% del Pil soprattutto per la diminuzione della spesa per interessi che passa dall’8,1 al 6,8% del Pil; nel nostro Paese si mantiene sempre molto alto il rapporto debito pubblico/Pil che è del 114,9% con una riduzione dell’1,4% rispetto al 3,5% del ‘98.

In Italia continua inoltre la fase di espansione ciclica del sistema produttivo soprattutto per la ripresa del dinamismo delle esportazioni dovuto all’espansione della domanda estera e anche per l’effetto di indebolimento dell’Euro. I segnali di ripresa dipendono anche dalle favorevoli prospettive di crescita dell’economia internazionale, in particolare di quella europea. Il sistema economico del nostro Paese continua a mantenere differenziali negativi di crescita significativi rispetto agli altri partners europei e ciò è dovuto sia a fattori relativi ad una non buona competitività dei nostri prodotti in termini di prezzo e di qualità dei servizi di assistenza commerciale, ma anche a fenomeni indiretti quali quelli di una non buon assetto infrastrutturale e dei servizi pubblici; ciò potrebbe confliggere con una dinamica favorevole della produzione industriale e con il ritmo sostenuto delle esportazioni.

4. Gli Stati Uniti continuano a sostenere la domanda mondiale anche nel 1999, ma al contempo presentano forte disavanzo corrente della bilancia dei pagamenti, i consumi interni sono finanziati da notevoli incrementi dell’indebitamento delle famiglie, con condizioni del mercato del lavoro a forte connotazione di intermittenza, flessibilità e precarietà.

Gli ultimi mesi del ‘99 evidenziano in particolare un rilancio dell’economia internazionale con crescita annua del commercio mondiale dell’8%. In particolare gli Stati Uniti hanno evidenziato una accelerazione dell’espansione economica con un incremento annuo del 4,1%, accompagnato da intensi aumenti della produttività anche per l’inserimento di nuove tecnologie di produzione. Ciò si è coniugato con una bassa dinamica dei costi, in particolare dei costi del lavoro a causa del continuo ricorso ad alte forme di flessibilità e precarizzazione che hanno reso tese le condizioni del mercato del lavoro, nonostante si sia raggiunto un tasso di disoccupazione intorno al 4%, cioè l’indice più basso dal ‘68. Ma vogliamo continuare a sottolineare che tale tasso è ottenuto attraverso indagini statistiche nelle quali la determinazione quantitativa delle forze di lavoro, degli occupati e dei disoccupati avviene con rilevazioni che favoriscono l’abbassamento degli indicatori di disoccupazione se confrontati con analoghe rilevazioni che vengono effettuate diversamente, con criteri diversi, in altri contesti internazionali, (vedi ad esempio l’Italia e molti altri paesi europei).

La crescita statunitense è comunque sostenuta dai consumi delle famiglie e dagli investimenti privati, quindi da una domanda globale interna che si accompagna ad una elevata ricchezza finanziaria dei privati (imprese e famiglie).

Va però sottolineato che a sostenere la domanda è il forte indebitamento dei privati, infatti il debito lordo delle famiglie nel 1999 è cresciuto del 9,5% arrivando al 103% del reddito disponibile; anche l’indebitamento delle imprese non finanziarie è aumentato a tassi maggiori del 10%. Va inoltre ricordato che continua ad aumentare fortemente il disavanzo della bilancia dei pagamenti di parte corrente; tale disavanzo passa dal 2,4% del Pil del ‘98 al 3,5% del ‘99 ed è finanziato esclusivamente da investimenti diretti esteri provenienti dall’Europa e da investimenti di portafoglio i quali nei fatti sono i veri artefici del sostenimento del corso del dollaro e dei buoni andamenti borsistici. In pratica l’eccesso di import rispetto all’export accumulato negli ultimi cinque anni, ha portato si a sostenere la domanda mondiale ma attraverso una fortissima esposizione debitoria netta sull’estero che passa dal 2,5% del Pil del ‘94 al 20% del Pil del ‘99.

5. Nei primi mesi del 2000 continua l’espansione economica degli Stati Uniti a ritmi molto sostenuti. Si possono però intravedere dei mutamenti di tendenza nelle dinamiche di crescita dell’area del dollaro e dell’area dell’Euro, poiché la caduta dei corsi azionari verificatasi nei primi mesi del 2000 negli Usa e il consolidamento di aspettative di politiche monetarie restrittive da parte della Federal Reserve, accompagnata da un indebitamento e da un disavanzo della bilancia commerciale che stanno diventando ormai insostenibili, dovrebbe portare negli Stati Uniti ad un rallentamento della crescita economica già probabilmente a partire dai prossimi mesi.

Parallelamente continua a precipitare quotidianamente l’Euro sui mercati finanziari in rapporto al dollaro, giunto ormai a quotazioni record con una perdita di cambio Euro/dollaro che dall’inizio del ‘99 supera ampiamente il 25%.

Si ha pertanto un quadro in Europa che da una parte segnala una ripresa economica con buoni andamenti della produzione industriale accompagnato da un forte aumento dei prezzi alla produzione, (specialmente in Italia, a marzo 2000 è del 5,4% dovuto al rincaro dei prodotti petroliferi ma soprattutto all’andamento del dollaro) ma dall’altra parte una fluttuazione con variazioni fortemente negative dell’Euro rispetto al dollaro. Se ciò sta significando un maggior export per i paesi europei, significa allo stesso tempo anche previsioni di potenzialità di crescita per l’Europa, anche perché i fondamentali macroeconomici dell’area dell’Euro sono in netto miglioramento (Pil, andamento della produzione industriale, commercio con l’estero, ecc.).

La situazione attuale è certo dovuta ad una particolare forza dei mercati finanziari statunitensi che attirano capitali europei con grosse prospettive di guadagno per gli investitori che trovano negli Usa rendimenti finanziari sicuramente superiori a quelli dell’Europa. Si tratta pertanto, di aspetti inerenti l’economia finanziaria che prevalgono sugli aspetti legati all’economia produttiva reale e che favoriscono fortemente i movimenti di capitale in particolare di quelli speculativi.

In effetti l’Euro può scendere ancora anche perché manca un’unità politica dell’Europa, non esiste cioè un vero governo europeo che sappia imporre un proprio autonomo e forte modello di sviluppo; non è un caso che dei 276 miliardi di dollari di crescita dell’economia mondiale nel ‘99 ben 145 miliardi di dollari sono assorbiti dagli Usa, con un boom della Borsa di Wall Street cresciuta di circa il 25% (circa 5 milioni di miliardi di lire, cioè oltre 2 volte il Pil italiano), e con tassi di interesse molto alti che attirano i capitali dall’estero; ma ricordiamo sempre che negli Usa si ha un mercato del lavoro sempre più teso e con un indebitamento del sistema statunitense arrivato al 130% del Pil (se gli investitori esteri ritirassero i loro soldi dagli Stati Uniti l’economia di questo paese crollerebbe nel giro di poche ore !!). Un differenziale, quindi, molto alto in termini di cambi tra dollaro e Euro ma che non significa lo stesso differenziale in termini di crescita complessiva reale. Ciò anche perché internamente l’Euro è abbastanza stabile, i bilanci pubblici sono migliorati e la domanda globale in parte tiene. Si può sicuramente sostenere che il dollaro è sopravvalutato e tale situazione non può reggere a lungo anche perché una fetta importante degli scambi di ciascuno degli undici paesi dell’Euro avviene fra gli stessi membri dell’area e quindi in Euro; ciò fa si che l’Euro si possa difendere in una sorta di area protetta.

Per il momento, Euro debole significa prezzi bassi per i beni e servizi destinati al mercato dell’area del dollaro (non è un caso che da Febbraio ‘99 allo stesso mese del 2000 le esportazioni siano aumentate del 23%). Il fatto che le istituzioni monetarie europee non siano particolarmente allarmate dalla debolezza dell’Euro, è dimostrato dall’intervento della BCE di questi ultimi giorni che ha innalzato i tassi di interesse solo lievemente non rafforzando le aspettative degli investitori per far affluire capitali in Europa ma lasciando alta la propensione all’investimento dei capitali verso gli Usa, dove si hanno tassi del 6% contro quelli del 3,5% dell’Ue. Tassi così alti perché, come si è scritto, negli Stati Uniti manca il risparmio privato, il disavanzo della bilancia commerciale è altissimo, e quindi la domanda interna e le importazioni possono essere sostenute solo con l’afflusso di capitali esteri. E poi la crisi valutaria dell’Euro, e non la crisi economica dell’Europa poiché l’economia è in crescita, serve ai vari governi nazionali per continuare il ricatto sulle politiche di stabilizzazione, sulle riforme strutturali del Welfare e delle politiche dei redditi, attaccando ancora il salario sociale per favorire i profitti ,le ristrutturazioni e riconversioni industriali con politiche tutte favorevoli alle imprese, il tutto in attesa di rilanciare un’Europa più forte sul piano non solo economico, ma soprattutto politico.

6. E se il problema fossero gli Usa e non l’Europa? E se in prospettiva il vero problema non fosse l’Euro bensì il dollaro? La sfida imperialista fra l’area del dollaro e l’area dell’Euro si gioca proprio su questo punto e gli scenari di guerra economico-commerciale e di guerra guerreggiata, come resa dei conti fra i due poli (vedi Jugoslavia) sono fattore di forte instabilità ma di forte presenza e attualità.

Probabilmente l’Italia e gli altri paesi europei si preparano a politiche non più di carattere restrittivo forte, politiche di crescita ma non sul modello keynesiano classico. Si tratterà cioè di politiche restrittive temperate, moderate, che sappiano far convivere la ripresa economica con il risanamento del bilancio pubblico, con la riduzione del debito pubblico, per lanciare definitivamente l’Euro con la stabilità dovuta alle cosiddette riforme strutturali forti. Ma per far questo servono ancora politiche di taglio allo Stato sociale, al sistema previdenziale e assistenziale, con scarse possibilità di crescita della massa salariale e degli incrementi retributivi in genere, senza quindi importanti forme redistributive del reddito e in particolare della ricchezza prodotta.

Lo scenario prevedibile è, quindi, quello di un ribilanciamento nei cambi tra quotazione del dollaro e quotazione dell’Euro, un ribilanciamento che in sostanza ridefinisca ed evidenzi una sostanziale stabilità e potenzialità di crescita economica dell’Europa ed evidenzi nel contempo le debolezze e gli squilibri interni ed esterni degli Stati Uniti.

In Europa e in particolare in Italia il nuovo scenario, però, sarà quello di una crescita che non si accompagna ad uno sviluppo economico generale, cioè ad aumenti occupazionali, ad incrementi dei consumi e a forme redistributive della ricchezza verso il fattore lavoro. La previsione è, quindi, quella di una crescita senza forme redistributive, una crescita senza politiche espansive complessive, una crescita che significherà ancora rafforzamento del fattore capitale a danno del fattore lavoro, dei profitti a danno del salario sociale complessivo.

È con tale ipotesi, con tali scenari di mutamento di fase, di conflittualità accesa fra area del dollaro e area dell’Euro, con attenzione sempre alla variabile asiatica e alla probabile nascita di un polo russo-iraniano-indiano-cinese con forti mire espansionistiche sull’Eurasia, che nell’immediato futuro saremo chiamati a fare i conti.

Il CESTES, PROTEO, le RdB devono rafforzare le capacità critiche di analisi, perché da una corretta analisi di fase dipendono le sorti non solo di questa organizzazione sindacale, ma quelle del rilancio complessivo di un antagonismo sindacale e sociale al pensiero unico neoliberista. Dallo studio, dalle inchieste, dalle analisi scientifiche, non si sfugge!!

È così, quindi, ragionando insieme che si può verificare se esiste una aderenza fra nuova identità sindacale, modello di ragionamento ed economico sullo sviluppo e crescita di nuove identità sociali capaci di ricomporre un’unità di tutti i lavoratori, garantiti e non garantiti, per ritrovarsi nella capacità di proporre diverse forme di dissenso sociale, uscendo dalle battaglie difensive, riproponendo conflittualità offensive e verticalizzate fra capitale e lavoro.

Si tratta in un’ultima analisi di realizzare una nuova e più avanzata ricomposizione di classe, un’unità di classe a partire dalle nuove povertà, dai nuovi soggetti marginali, emarginati e non compatibili per proporre da subito la nuova questione sociale con al centro una rielaborazione scientifica per rilanciare battaglie offensive sulla socializzazione dell’accumulazione, per la redistribuzione della ricchezza.

È quindi a partire da una nuova soggetualità sindacale coniugata alle mille forme dell’antagonismo sociale che si può riorganizzare l’unità di interessi del mondo del lavoro , la solidarietà e la forza che negli anni ’60 e ’70 la classe operaia si era data a partire dall’organizzazione in fabbrica.

La società del terziario avanzato, del nuovo ciclo post-fordista dell’accumulazione flessibile crea nuovi bisogni, ma con l’attuale modello di sviluppo crea nel contempo nuove esclusioni. Diventa allora immediato porre al centro del dibattito una progettualità complessiva per un programma minimo di controtendenza ad iniziare dal rivendicare forme di un diverso modello di sviluppo in cui strategiche siano le compatibilità ambientali, la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito, il riconoscimento di forme di Reddito Sociale Minimo per disoccupati, precari, pensionati al minimo e la socializzazione della ricchezza complessivamente prodotta.

Questo articolo (pubblicato in esclusiva da l’ernesto) è la seconda parte della relazione di Luciano Vasapollo (dal titolo Modalità e Fasi dell’andamento e della Struttura Economica Nazionale e Internazionale) al terzo Congresso della Federazione Nazionale RdB, Montecatini – Palazzo dei Congressi, 12/13/14 Maggio 2000