MEDIO ORIENTE E COOPERAZIONE INTERNAZIONALE: INTERVISTA A STEFANIA SINIGAGLIA

Quale e’ stata , tra le tante, l’esperienza di cooperante che avuto piu’ valore per te? E perche?

Se ripenso – e lo faccio spesso in questo periodo di stasi ad Ancona, incerta sul da farsi – ai miei trenta anni esatti di cooperazione internazionale, i quattro anni passati in Mozambico dal 1978 al 1982 risplendono di luce propria. Dalle date è chiaro che si è trattato della mia prima esperienza di lavoro nel cosiddetto sottosviluppo, che è poi una realtà ben concreta, materiale, palpabile anche se non certo circoscrivibile geograficamente come alcuni possono pensare. L’aspetto che più colpiva era che, accanto alle difficoltà economiche sociali politiche enormi, c’erano un entusiasmo, una energia travolgenti, un ottimismo in cui sembrava che tutti gli ostacoli fossero sormontabili con un lavoro indefesso, con la forza di una visione politica nuova e l’appoggio popolare. “O povo”, il popolo era il richiamo costante, onnipresente in ogni discorso, il protagonista che doveva aprire tutte le porte. Nel ’78 erano appena passati tre anni dalla proclamazione dell’ indipendenza dai portoghesi, dopo la rivoluzione dei garofani del 1974. Ho avuto un gran privilegio, quello di conoscere da vicino una classe dirigente africana unica, quale non si era mai vista e mai più, purtroppo, si vedrà. Competente, onesta, uscita dalla lotta di liberazione, nera, bianca, indiana, mulatta. I “cooperantes internacionalistas” occidentali erano abbastanza pochi: le cooperazioni dei paesi nordici, che avevano aiutato la Frelimo nella lotta di liberazione, erano ufficiali, mentre italiani, inglesi, francesi, ed altri occidentali erano là per lo più a titolo individuale, almeno all’inizio. Poi c’erano i cooperanti dei paesi socialisti, molti cubani soprattutto, buffi questi ultimi perché credevano di parlare portoghese continuando a esprimersi nello spagnolo strascicato sudamemericano, e gli studenti universitari che avevano l’avventura di averli per professori non capivano un’acca delle spiegazioni. Ma era un vero internazionalismo vissuto in prima persona.

A Maputo, l’antica Lourenço Marques, parte degli abitanti della “cidade de caniço”, la citta di canne detta così per le baracche di canne e foglie di palma, che si stendeva (e credo tutt’ora si stenda, ben dilatata da allora) intorno all’aereoporto, per la prima volta erano tracimati nella città di cemento, avevano accesso ad acqua corrente e luce elettrica (beh, quando ce ne erano per tutti), l’assistenza sanitaria era praticamente gratuita (mi pare di ricordare che qualsiasi intervento costasse 7 “meticais”, poche lire), c’erano campagne di scolarizzazione massicce. Io ho lavorato per quasi due anni al Ministero dei Trasporti e Comunicazioni, prima insegnando inglese agli impiegati del Ministero, poi nei programmi di alfabetizzazione e educazione degli adulti delle Imprese dipendenti dallo stesso Ministero. Tanto per dare un esempio dell’atmosfera di democrazia paritaria che si respirava nel 1978, vorrei citare il fatto che il Ministro stesso, che aveva studiato alla facoltà di Sociologia di Trento, convocava ogni sabato tutti i lavoratori del Ministero, una trentina o poco più, all’ultimo piano dove era il suo Gabinete e per circa un’ora si discuteva apertamente di tutti i problemi incontrati durante la settimana, o anche di politica più in generale. Si interloquiva apertamente con il Ministro stesso. Dopo un tragico errore del Capo Gabinetto (forse aveva fatto l’ottava classe se va bene), che aveva inviato l’elenco telefonico mozambicano, dietro richiesta, al Transvaal, un Bantustan sudafricano ovviamente non riconosciuto dal Governo Mozambicano, si leggevano e commentavano le notizie più importanti della settimana dal giornale Noticias o dal settimanale Tempo. Purtroppo questo aureo clima si incrinò poco a poco, per tanti motivi e non certo ultimo l’inizio della guerra di destabilizzazione scatenata dal Sudafrica dell’apartheid con dietro gli Stati Uniti naturalmente. Comunque durante tutti i quattro anni di lavoro là l’adesione profonda a quello che facevo non è mai venuta meno, nonostante inevitabili frustrazioni e conflitti con singole persone, e a dispetto del mio innato scetticismo. Non ero affatto sicura che “la vittoria fosse certa”, ma tanto valeva provarci. E’ stato un periodo irripetibile, unico, che sono immensamente felice di avere vissuto.

Come vedi il futuro della cooperazione internazionale?

Non posso dire di essere ottimista, con un eufemismo. Articolare adeguatamente questo giudizio porterebbe a uno sproloquio forse insopportabile, così devo per forza semplificare. Quando si dice “Cooperazione Internazionale” si parla di un universo complesso, di migliaia di organizzazioni e istituzioni, di aiuto pubblico allo sviluppo di decine e decine di Stati, rivolto a moltissimi Paesi di 5 continenti (includendo paesi europei come Kosovo e Albania e le isole del Pacifico, di migliaia e migliaia di imprese e ditte commerciali. Quindi diciamo che mi baso su quel che ho vissuto e su quel che ho visto, studiato e forse capito. Non sono ottimista perché ci sono troppe contraddizioni tra politiche palesi e interessi occulti, tra politiche che da un lato fanno finta di favorire “la lotta alla povertà” (e chi non è d’accordo, detto così?) e allo stesso tempo favoriscono o addirittura puntellano governi marci che praticano quella che Jean François Bayart ha chiamato “la politique du ventre”, non sono ottimista perché il neocolonialismo è una realtà concreta (basti pensare all’appoggio recente della Francia al governo barcollante del Ciad, e prima ancora a quello della Repubblica Centrafricana, e quando c’era lo Zaire, a Mobutu, o gli ossequi al padre padrone del Gabon, Omar Bongo). Basta pensare a come l’occidente ha distrutto l’agricoltura di gran parte delle campagne africane e del Sudest asiatico, alla desertificazione che avanza senza che iniziative adeguatamente finanziate siano messe in campo, alla depredazione delle acque internazionali che ha impoverito milioni di pescatori dal Marocco alla Mauritania, dal Senegal al Benin, dalle Filippine allo Sri Lanka, all’”affaire” del petrolio i cui proventi non finanziano mai progetti sociali. Basta pensare alla distruzione delle politihe sociali apportata in tanti paesi poveri negli anni 80/90 dal famoso “Aggiustamento Strutturale”, che ha tagliato tutti i sussidi, ha abolito la scolarizzazione e l’assistenza sanitaria gratuita, ha alzato i prezzi delle derrate di largo consumo, ha spopolato ulteriormente le campagne. Per colmo della beffa, ricordo anche l’approccio “umanitario” dell’Unicef, “l’aggiustamento dal volto umano!” E sono stati gli anni in cui l’AIDS ha messo le radici. E che dire delle sovvenzioni agli agricoltori ricchi in occidente che non si riesce ad eliminare? E allora, che vuol dire “cooperazione”? Si disfa la notte ciò che si fa finta di fare durante il giorno. Insomma, credo in sostanza che “la cooperazione” testimoni semplicemente il fallimento di una reale prospettiva di emancipazione e di rivoluzione sociale nel sud del mondo (e anche nel nord). E le cosiddette “ONG” o NGO’s con acronimo inglese sono dentro questa realtà, rischiano di essere degli ammortizzatori sociali che attutiscono gli scossoni più brutali che derivano dallo scatenamento degli appetiti dei mercati e delle politiche succitate. Un discorso a parte poi meriterebbe l’emergenza, comprese quelle annunciate con largo anticipo e evitabilissime come le carestie, spesso generate ed esasperate da guerre inflitte per scopi politici, vedi attualmente Somalia.

Esiste un futuro dignitoso per l’Africa? Cosa pensi delle politiche delle ONG internazionali in questo martoriato continente?

. In tutti i paesi africani in cui ho lavorato o che ho visitato ho constatato sempre l’esistenza di enormi tesori di saperi, di energie, di inventiva, di forza creativa. Ricordo un colloquio, una notte di Natale, in un grosso villaggio del Mali alla frontiera mauritana, Nara, nel 1986. C’era una festa e stavo cercando di socializzare con il mio francese ancora zoppicante con una debordante maliana piuttosto giovane. Faceva il commercio, come moltissime donne maliane, viaggiava su grandi camion su e giù per le piste polverosissime del paese, comprando qua e vendendo là, di tutto, generi alimentari e abiti, tessuti e pentole. Quando le feci domande più precise su come si era procurata il capitale iniziale, e come avesse imparato a capire il mercato, mi rispose: je me débrouille, che è un po’ come dire: me la cavo. Ma è una traduzione che non rende. La “débrouillardise” è un’arte in tutta l’Africa Occidentale, è la capacità di trarsi sempre d’impaccio, è una bandiera di baldanza. E ricordo le donne di centinaia di villaggi maliani e del Benin con cui ho lavorato come persone meravigliose, da cui ho appreso come si possa danzare con una verve e energia incredibili per delle notti intere pur avendo mangiato una zuppa di miglio scondita in tutto il giorno e vivendo con dieci litri d’acqua a testa quotidiani. E quindi, anche se sono certo amareggiata quando guardo statistiche a picco e indicatori sociali che peggiorano, quando leggo rapporti e previsioni scientifiche, ho molta fiducia in questo patrimonio di risorse umane. E’ la stessa vitalità, sono la costanza, l’ottimismo che vediamo nei migranti che respinti una volta dalle nostre scostanti frontiere, ci riprovano e si imbarcano ancora sulle piroghe, remano con quello che hanno, non si arrendono, cercano falle nelle muraglie di protezione dei paesi ricchi: in queste persone ho fiducia. Cerco di ripetermi l’ultimo ritornello dell’ inno nazionale mozambicano (che spero non abbiano cambiato!): Africa vencera, Africa ganhara, na luta pa’ libertade Africa ganhara. Penso non ci sia bisogno di traduzione.

Come donna di sinistra e pacifista pensi che la pace tra arabi ed ebrei sia possibile? E come?

Debbo rilevare che dici “ebrei” quando immagino intendessi dire “ebrei israeliani”. C’è una bella differenza, ma purtroppo non sei il solo a equivocare. Gli ebrei della Diaspora sono una realtà, e tutt’altro che omogenea, ben distinta dagli ebrei israeliani, quelli o emigrati o nati in Israele, varie generazioni ormai. E per “pace” intendi la pace tra lo Stato Israeliano e lo Stato in fieri Palestinese, mentre le due diaspore, ebrea e palestinese, non c’entrano se non come presenze sullo sfondo. Anche se svolgono un ruolo, e forse lo potrebbero svolgere meglio. Ma questo è un altro discorso che porta lontano.

Rispondendo alla tua domanda così puntualizzata, dico che non solo deve essere possibile, ma è inevitabile, ineluttabile anzi. Quando e come, solo l’Oracolo di Delfo o la Pizia potrebbero dirlo se esistessero.Dopo Oslo la pace sembrava una meta che già si intravvedeva, ora le cose sono così ingarbugliate che è arduo cercare di discernere una via d’uscita. Credo che le classi dirigenti sia israeliane che palestinesi abbiano grosse responsabilità, fermo restando che le responsabilità maggiori sono palesemente israeliane, in modo preponderante. Un intellettuale come Edward Said aveva previsto con grande perspicacia il fallimento di Oslo. E dal 2000 in poi è iniziata una china di cui non si vede il fondo.

E’ chiaro che il ritiro israeliano dalle zone occupate nel 1967 sarebbe l’inizio della soluzione di tanti problemi, ma è anche chiaro che gli israeliani non hanno alcuna intenzione di farlo. E il campo palestinese è oggi diviso orribilmente e indebolito da lotte di potere che fanno il gioco israeliano. Tanto più che con la politica dei fatti compiuti il famoso 22% della Palestina storica che spetterebbe allo Stato Palestinese si è già ridotto un bel po’, quindi ogni accomodamento su un brandello di terra spezzettato dalle colonie israeliano sarebbe solo una beffa irricevibile.

Credo che la stessa voracità israeliana abbia creato e stia ogni giorno di più creando le premesse per quello che non so quando dovrà essere uno Stato unico multinazionale, magari federale, quando ci si renderà conto della follia del protrarsi di una distruzione mutua delle rispettive compagini nazionali, e i costi diventeranno insostenibile da ambo le parti. Purtroppo non sappiamo quanto durerà ancora. Speriamo che il contesto internazionale cambi in meglio con la dipartita del peggior Presidente Statunitense che mente umana potesse concepire e le circostanze storiche produrre.

Cosa si e’ rotto (in Europa) nello storico rapporto di amicizia tra popolo ebraico e parte della sinistra anticapitalista?

Mah. Io farei la tara su quello che chiami “storico rapporto”. E’ un rapporto che si era costruito soprattutto nel secondo dopoguerra, poiché le leggi razziali del 1938 avevano definitivamente allontanato gli ebrei italiani dal fascismo. Ma mi pare di ricordare che i ceti abbienti ebrei degli anni venti e dei primi anni trenta non fossero poi costituzionalmente degli antifascisti Sai bene che dopo la costituzione dello Stato d’Israele la Russia Sovietica appoggiò il giovane stato, e quindi magari si spiegano anche le simpatie a sinistra delle comunità ebraiche degli anni 50 e primi anni 60. Oltre a quello che ovviamente dopo la Shoa rappresentò il fascismo per gli ebrei, la persecuzione e le morti en masse, quindi un obbrobrio. Ma tra gli ebrei italiani è molto diffuso l’appoggio e direi la quasi identificazione con Israele, vista come un simbolo di rinascita nazionale, di successo politico e di libertà culturale (per gli ebrei ovviamente), e siamo molto pochi a criticarne le politiche di oppressione e prevaricazione. D’altra parte anche il dissenso dentro i confini d’Israele esiste, ma è purtroppo molto minoritario.

Inoltre alla fine degli anni 60 in molte importanti comunità italiane arrivarono ebrei medio-orientali religiosi, conservatori, a volte ortodossi. Questo ha fatto spostare molto a destra gli orientamenti di queste comunità, ad esempio, quella tradizionalmente molto aperta di Milano.

Per concludere, un aneddoto. Qualche anno fa, credo dopo l’invasione di Jenin, parlavo di questi fatti con un ex compagno di scuola, unico ebreo coetaneo conosciuto in tenera età ad Ancona. Questi, alle mie rimostranze per il silenzio della comunità ebraica di Ancona rispetto ai fatti di Jenin, se ne uscito con un“Right or wrong, my country!” Che vuoi dire a una persona del genere? Mi ha fatto ammutolire. Che serviva ricordargli che il suo paese, fino a prova contraria, è l’Italia? Lui si identificava con Israele evidentemente in maniera acritica e ahimè totale.

Come forse sai abbiamo creato delle reti alternative di ebrei,e non solo in Italia. Ci sono reti di ebrei dissidenti europee e negli Stati Uniti. In Italia ci sono gli “Ebrei contro l’occupazione” e “Il campo della pace”. Il “Martin Buber” è vagamente critico. Purtroppo poca cosa, ma meglio di niente…Servono almeno a far capire che non si può parlare di “ebrei” come se fossimo uno schieramento compatto…Anzi, dieci ebrei, dieci pareri diversi.

Hai viaggiato tanto in giro per il mondo ed hai vissuto in mezzo a molti popoli di molte razze e religioni. Perche’ hai sentito nel corso della tua vita la necessita’ e la volonta’ di viaggiare cosi spesso?

D’istinto ti dico: perché dopo sei mesi di permanenza a casa, mi brucia la terra sotto i piedi, come ora comincia a bruciarmi. E poi più che viaggiare, ho abitato in paesi diversi, anzi spesso per impegni di lavoro non ho potuto visitarli adeguatamente come avrei desiderato. Per esempio, quando ho accettato un contratto di due anni in Mali mi sono detta: che bello, andrò finalmente a Timbouctou! Invece in Mali ci ho poi lavorato tre anni, a a Timbouctou non sono mai riuscita ad andare, in compenso credo di avere visto almeno la metà dei villaggi della Seconda Regione. E poi certo c’è lo spirito d’avventura, e l’avversione per la routine. Anche io come Nietzsche amo le corte abitudini, se penso che ciò che faccio lo farò ad aeternum fino ad estinzione o pensionamento mi si accappona la pelle addosso.

Credo che sostanzialmente, per quanto riguarda la motilità, l’umanità si divida in due categorie, i nomadi e gli stanziali. Ho un’amica di Milano dei tempi dell’Università Bocconi che mi promette un visita da circa 40 anni. All’idea di saltare l’indomani su un treno si sente male, per fare un viaggio di 100 km si deve preparare mentalmente una settimana prima. Invece a me piace l’altrove, quello che però mi disturba in maniera crescente è l’idea che per soddisfare questo desiderio o meglio bisogno di altrove, debba vendere l’anima a dei progetti che non mi convincono più.