Marisa Musu: una donna per la libertà

“Con Marisa Musu si è spenta una luce del passato, ma viene anche meno un riferimento per l’oggi e per il domani”. Proprio da una personalità della sinistra italiana, spesso in polemica con la tradizione storica e organizzata dei comunisti, come Livio Maitan emergono queste parole che, più sinteticamente d’altre, riescono a condensare quel groviglio di sentimenti e idealità suscitate dalla morte di Marisa Musu, grande figura della Resistenza ma anche dirigente di spicco nella storia del Pci. Non è di solo lutto che si tratta, ma anche di un filo della memoria che si assottiglia e rende ancor più gravoso riattualizzare quelle ragioni fondative della tradizione comunista in Italia rintracciabili nella stessa Resistenza e nella formazione del gruppo dirigente del Pci. Un profilo di Marisa Musu
non può prescindere da questi due assi politici, teorici e storici.
È vero anche che – per chi ha vissuto dall’interno la storia del Pci – questa straordinaria compagna non può non suscitare memorie e ricordi personali. Chi scrive ne rammenta l’impegno, nell’immediato dopoguerra, nella faticosa ricostruzione dell’organizzazione giovanile di massa del partito comunista. E si
trattava, beninteso, di un partito che fuoriusciva da uno stato ventennale di clandestinità e illegalità, colpito più volte nei vertici, nei quadri intermedi e alla base. Nonostante i comunisti fossero stati in prima fila nel suscitare l’impianto militare e organizzativo della Resistenza, era della massima urgenza, nel dopoguerra, costituire le fila di una presenza di massa nel Paese. È a questo periodo che risalgono, appunto, i miei primi ricordi personali di Marisa Musu. Al fondo della sua personalità c’era un tratto di vitalità e passione – di “irrequietezza” – che non si limitava a segnare la sua militanza politica, ma traboccava anzi anche nei ritagli della sua vita privata. Tra una riunione e l’altra delle strutture giovanili del partito, Marisa dava fondo al suo carisma e alla capacità di trascinamento. Di fronte a lei, chi scrive – all’epoca poco meno che ventenne – si sentì quasi designato, scelto, dall’amicizia di una compagna già dirigente per il ruolo svolto nei Gap centrali romani, nonostante la giovane età. Ricordo di essere stato pressoché travolto da Marisa in più d’una occasione, quando approfittando dei rimasugli del tempo libero, voleva che l’accompagnassi a bordo della sua motocicletta nelle gite a Ostia.
È allora che conobbi il suo grande amore per il mare, la sua abitudine di raccogliere le idee nei lunghi bagni. Con la stessa determinazione che dimostrava nelle discussioni politiche, sfidava anche il clima e le stagioni pur di rinnovare il piacere del mare. Tra gli aneddoti ricordo con il sorriso sulle labbra un bagno nelle acque di Ostia in pieno mese di novembre che procurò al sottoscritto i postumi di un raffreddore, a differenza di Marisa che non accusò minimamente il colpo. Era come se in quei momenti emergesse Marisa la giovane, caparbia, determinata, innamorata della vita. Lei che la sua vita aveva messo a repentaglio più volte, da gappista, nella lotta contro le forze occupanti naziste, rischiando la tortura, le sevizie, la morte nelle tetri carceri fasciste.
Questi ricordi, quand’anche forniscano solo alcuni dettagli frammentati della sua biografia privata, possono tuttavia dare un contributo a collocare il profilo personale di Marisa nella sua lunga militanza politica, da gappista prima e da dirigente del Pci poi, fino all’adesione a Rifondazione comunista. Lei stessa ce ne ha lasciato testimonianza scritta in due libri. Il primo, “La ragazza di via Orazio”, è una prosa avvincente che ricostruisce i numerosi viaggi – dalla Repubblica popolare cinese alla Cecoslovacchia – e quel particolare intreccio tra personale e politico che sempre ha segnato la vita di Marisa, senza tralasciare episodi in cui la sua irrequietezza la portò anche a dissidi. Nel lavoro instancabile per conto del partito non mancarono momenti di contrapposizione, come quando – valga ad esempio – abbandonò il suo ufficio di contatto con il partito comunista cinese, contro le stesse indicazioni di Longo.
Il secondo libro è “Roma ribelle”, anche questo di ricostruzione, ma di un periodo diverso della sua formazione umana e politica.
Una lettura a tutt’oggi valida non solo per la documentazione del ruolo da protagonista svolto da Marisa all’interno della Resistenza romana, ma anche per comprendere le ragioni di un intreccio tra storia collettiva e storia individuale. “A 15 anni – sono le parole di Marisa Musu– mi fu evidente che il fascismo era dannoso e feci il possibile per abbatterlo. A 18 mi fu evidente che l’occupazione tedesca era orribile e combattei per eliminarla. A 20 non ebbi dubbi sul fatto che i comunisti italiani lottassero per eliminare lo sfruttamento degli uomini sugli uomini, per impedire una nuova guerra, per sbarrare la strada a tentativi illiberali e scelsi di lavorare nelle loro organizzazioni. E più tardi volli dare una mano alla lotta per l’indipendenza dei popoli colonizzati. Della giustezza di queste scelte ero convinta quando le feci e sono convinta ancora oggi”.
L’antifascismo di Marisa è non solo un accumulo di esperienze nel vivo della lotta di Liberazione, ma anche un tratto ereditario della propria famiglia di provenienza – sarda di origine ed emigrata a Roma. La madre, Bastianina Martini, era già nota alla polizia fascista per le sue tendenze politiche repubblicane che la
spinsero, durante la Resistenza, ad aderire al Partito d’Azione. Ma al di là dell’educazione ricevuta in famiglia, Marisa apprende la vera natura del fascismo negli anni di frequentazione del liceo, a contatto diretto con la pedagogia propagandistica e razziale del regime. Sotto la stretta dei tempi e della guerra l’ingresso nelle file del Pci e nell‚organizzazione dei Gap centrali si consuma nel giro di pochi mesi. È già l’8 settembre quando riceve il primo incarico da Giorgio Amendola, in una città sulla quale si allarga l’ombra nera dell’occupazione nazista. In sella a una bicicletta si affretta a comunicare un contr’ordine a una divisione del nostro esercito che sta marciando verso il Colosseo, già presidiato dai tedeschi.
La notizia comunicata dalla giovanissima Musu ottiene l’effetto di spostare la divisione a Porta S.Paolo, dove invece si combatte ancora. Certo, la scelta di impugnare le armi contro il fascismo – “se una cosa è giusta va fatta”, amava ripetere – suscita persino tra i comunisti qualche perplessità se a farla è una donna, e per giunta poco più che adolescente. C’è una coerenza stringente nell’adesione alla Resistenza armata, senza se e senza ma – diremmo oggi – e che cancella ogni esitazione quando chiede di entrare nei Gap. Smentendo tutti i pregiudizi legati al suo essere donna, Marisa Musu partecipa alle azioni con bombe e rivoltella, insieme agli altri protagonisti tra cui Bentivegna, Gerratana, Carla Capponi e Salinari. Fino all’ultimo sarà una sua preoccupazione sottolineare il carattere complessivo della Resistenza: l’apparato organizzativo e militare, la valenza politica, il sostegno popolare intorno ai gappisti. L’azione di via Rasella, ripeterà sempre, “fu solo una delle tante”.
Allo stesso modo, un filo ideale e biografico unisce il periodo partigiano di Marisa con l’attività politica successiva da dirigente nel Pci.
Nel dopoguerra è impegnata – come già ricordato – nella ricostruzione dell’organizzazione giovanile comunista, nella Fgci, e si profonde nell’incarico stabile di funzionaria del partito, in Italia ma anche all’estero.
Nel 1956 arrivano i fatti d’Ungheria, e per Marisa è il segnale di una cesura nel suo lavoro, come per tanti altri comunisti. Non è semplice passare sotto silenzio i dubbi e gli interrogativi, e decide di abbandonare gli incarichi di partito per passare alla professione di giornalista a Paese Sera. Nei suoi articoli traspare un interesse crescente per la scuola, la pedagogia, la formazione educativa dei giovani, che assorbono gran parte delle sue energie intellettuali.
Sarà sempre il tratto irrequieto del suo carattere a spingerla a non rinnovare la tessera tra il ‘63 e il ‘65 e ad allargare ulteriormente il suo sguardo all’internazionalismo. Dal momento in cui passa a l’Unità compirà una serie di viaggi nei paesi che stanno, faticosamente, avviando il processo dell’indipendenza nazionale e della decolonizzazione: Bolivia, Tanzania, Mozambico. Una vocazione che in Marisa non si spegnerà mai, che ne segnerà l’impegno politico fino all’ultimo respiro di vita, fino al suo ultimo lascito del progetto “Gaz-zella” di aiuti ai bambini del popolo palestinese.