Oggetto di questa lettura dei “Grundrisse” sono le pagine che Marx dedica, tra la fine del quaderno VI e l’inizio del VII, alle trasformazioni che il processo di lavoro subisce in seguito all’introduzione dei sistemi di macchine automatiche sotto il pungolo della necessità di ridurre il tempo di lavoro necessario ed aumentare il tempo di pluslavoro (estrazione di plusvalore relativo). Tale pungolo produttivo caratterizza, come è noto, il modo di produzione capitalistico a partire dall’avvento della grande industria. Esso sostituisce il modo di estrazione del plusvalore che caratterizza la precedente fase storica di accumulazione capitalistica, quella della manifattura (dalla metà del secolo XVI fino ai primi 60 anni del secolo XVIII ). In questa la riproduzione di capitale era ottenuta mediante l’estensione e l’intensificazione della giornata lavorativa complessiva ( estrazione di plusvalore assoluto ). La base produttiva era data dalla cooperazione di lavori singoli coordinati e comandati,ridotti a lavoro parziale dalla divisione del lavoro ma, entro questi limiti, tecnicamente autonomi.
A partire dall’avvento della grande industria domina l’imperativo di aumentare il pluslavoro, cioè il plusvalore, di intensificare lo sfruttamento della forza-lavoro, riducendo il lavoro necessario (la frazione della giornata lavorativa corrispondente al salario) per abbassare il valore della forza-lavoro ed aumentare, di conseguenza, la frazione della giornata lavorativa appropriata dal capitalista.
Ciò viene realizzato non solo con l’introduzione di sistemi centralizzati di macchine automatiche sempre più complessi ma anche con una crescente sussunzione al macchinario del “general intellect”, delle forze produttive generali della società ( scienza, combinazione produttiva dei saperi, socializzazione del lavoro, ecc. ), quel che Marx chiama “ lavoro storico-universale”, “lavoro della collettività”, potenze sociali ed intellettuali del cui sviluppo il capitale beneficia gratis, in quanto, cioè, valore d’uso gratuito.
Da tutto ciò deriva che il capitale fisso, figura sviluppata del mezzo di lavoro in quanto capitale, nella forma di sistema di macchine, si rende sempre più indipendente dalle abilità produttive della forza-lavoro e gli operai divengono sempre più “solo organi coscienti di esso” (Q.VI, p.390). Infatti, dice Marx: “L’attività dell’operaio, ridotta ad una semplice astrazione di attività, è determinata e regolata da tutte le parti dal movimento del macchinario, e non viceversa.” (Q.VI, p.390). E ancora: “Il processo di produzione ha cessato di essere processo di lavoro nel senso che il lavoro lo soverchi come l’unità che lo domina.” (Q.VI, p.391).
Tale passaggio dall’estrazione di plusvalore assoluto (manifattura) all’estrazione di plusvalore relativo (grande industria) corrisponde, per Marx, al passaggio compiuto dalla sussunzione formale alla sussunzione reale della forza-lavoro nel capitale.
Nel libro I de “Il Capitale”, parlando della cooperazione che caratterizza la manifattura, cooperazione basata sulla divisione del lavoro, Marx così distingue sussunzione formale e sussunzione reale (attribuendo quest’ultima già alla manifattura): “Così pure in principio il comando del capitale sul lavoro si presentava solo come conseguenza formale del fatto che l’operaio, invece di lavorare per sè, lavora per il capitalista, e quindi sotto il capitalista. Con la cooperazione di molti operai salariati il comando del capitale si evolve a esigenza della esecuzione del processo lavorativo stesso, cioè a condizione reale della produzione.” (Il Capitale, libro I, p372).
Nella manifattura, tuttavia, il lavoro vivo resta, come indipendente abilità lavorativa parziale degli operai, la sola base tecnico-lavorativa della valorizzazione (creazione di plusvalore come lavoro sociale medio). Nella grande industria, invece, il dominio del capitale sulla forza lavoro si esprime sempre più anche come espropriazione lavorativa della classe operaia, come dominio del valore d’uso del capitale fisso (macchinario automatico) sul valore d’uso della forza-lavoro (appendice viva della macchina).
Questa espropriazione produttiva della classe operaia, conseguenza necessaria dell’uso capitalistico delle macchine finalizzato al massimo sfruttamento, configura in forma estrema e compiuta l’estraneazione sociale del proletariato.
Qui, infatti, nelle macchine, prodotto del lavoro in forma di capitale, questo non si contrappone agli operai soltanto come costrizione sociale al lavoro salariato ma come integrale subordinazione tecnica allo sfruttamento, come distruzione di ogni autonomia produttiva. Questa sussiste, sotto il capitale, finchè il lavoro è immediato ed il mezzo di lavoro è la sua mediazione dell’oggetto, ma ora il lavoro salariato è mero organo della macchina dalla quale dipende la produzione materiale dei valori d’uso.
Nella sussunzione reale della manifattura, dunque, il capitale sottopone a cooperazione comandata abilità lavorative che si formano e si tramandano al di fuori di sé stesso. Nella sussunzione reale della grande industria automatizzata, invece, il capitale assorbe le potenze cognitive e tecniche della collettività dentro il capitale fisso e le piega alla sua logica di sfruttamento. In tal modo esso socializza ulteriormente dentro di sé il processo produttivo, cattura sapere e socialità dentro il capitale, perché fa del capitale fisso, come macchina, il valore d’uso che regola l’accumulazione di pluslavoro
In queste pagine di Marx concetti fondamentali della critica dell’economia politica e della dialettica materialistica, come alienazione e feticismo, acquistano una straordinaria pregnanza storica. Nello sfruttamento per mezzo del capitale fisso automatizzato l’alienazione operaia ed il feticismo della merce non sono più semplicemente contraddizione tra valore di scambio e valore d’uso della forza-lavoro ma contraddizione tra valore d’uso della forza-lavoro e valore d’uso del capitale, scissione ed opposizione delle forze produttive da parte del capitale che le sviluppa.
In generale, l’alienazione è la estrinsecazione estraneata dell’attività umana, la sua oggettivazione separata ed ostile all’uomo. Tale contrapposizione nasce in quanto l’oggettività, il risultato dell’attività umana, che è sempre presupposto materiale di possibilità della prassi, disponga ed assegni a priori tali possibilità all’esistenza sociale dell’individuo.
Nella figura del capitale fisso automatizzato, come comando non solo sociale ma anche intellettuale sulla forza lavoro, alienazione e feticismo penetrano e plasmano l’agire produttivo anche dal suo lato materiale (processo di lavoro) e non più solo dal suo lato formale ( processo di valorizzazione ). Qui Stato, diritto, società civile e capitale si compenetrano con il massimo vigore sistematico.
Anticipando questa problematica nel Quaderno V, Marx osserva che “la forma più estrema di alienazione […] contiene già in sé, solamente ancora in forma rovesciata, a testa in giù, la dissoluzione di tutti i presupposti limitati della produzione, ed anzi, crea e produce i presupposti incondizionati della produzione e quindi le condizioni materiali per lo sviluppo totale, universale, delle forze dell’individuo.” (Q.V, p.150).
Qui la critica dell’economia politica, la teoria della storia e la dialettica materialistica mostrano una straordinaria concentrazione e nettezza concettuali:
1) il superamento della centralità tecnico-lavorativa del lavoro immediato da parte del capitale è la forma più estrema di alienazione;
2) il rovesciamento rivoluzionario del rapporto di capitale libera dall’alienazione le forze produttive socializzate che, dal punto di vista materiale, sono già diventate presupposti incondizionati della produzione, cioè vettori di libertà produttiva;
3) l’intero corpo del lavoro sociale, del sapere produttivo generale, è presupposto incondizionato della produzione, in quanto immediata mediazione umana della natura, individualità sociale produttiva;
4) per questo suo carattere immediatamente sociale il lavoro necessario della collettività, in quanto processo materiale di produzione, non ha più bisogno dell’apriori del denaro, del capitale come sintesi sociale, poiché esso riproduce direttamente la società come totalità, ovvero l’individuo come genere.
Torniamo ora alle pagine sulle macchine dei “Grundrisse”, addentriamoci nella prodigiosa potenza dell’analisi marxiana, seguendone l’intero sviluppo.
Il testo esordisce con una chiarificazione preliminare che pure non ha evitato equivoci interpretativi e manipolazioni politiche come quelli degli ideologi post-marxisti della “fine del lavoro”.
“In senso più ampio l’intero processo di produzione e ogni suo momento, al pari della circolazione –finchè la si considera dal lato materiale- non è altro che un mezzo di produzione del capitale, per il quale solo il valore è fine a sé. Dallo stesso punto di vista materiale la materia prima è mezzo di produzione per il prodotto ecc.” (Q.VI, p.387).
Per comprendere l’importanza di questa premessa di Marx bisogna richiamare una sua fondamentale distinzione: il rapporto di capitale da un lato è processo di valorizzazione, incremento di valore, cioè appropriazione di tempo di lavoro non pagato; dall’altro lato è processo tecnico-lavorativo, uso delle condizioni materiali della produzione (materiale di lavoro, mezzo di lavoro, lavoro vivo).
Il passo sopracitato di Marx ha, dunque, un significato chiarissimo: se consideriamo il capitale in quanto riproduzione materiale, a ciascuno dei suoi elementi materiali va attribuito carattere di utilità produttiva come mezzo di produzione, perfino alla materia prima. Anzi, da questo punto di vista, la stessa distinzione tra produzione e circolazione risulta puramente formale, nel senso che anche la circolazione è materialmente produttiva, cioè utile alla produzione di valori d’uso. Nello stesso tempo, ribadendo che per il capitale solo il valore è fine a sé, Marx sottolinea che l’intera produttività materiale, e quindi ciascuno dei suoi momenti, è cosa diversa dalla valorizzazione, cioè dall’oggettivazione di tempo di lavoro medio come valore del prodotto.
Questo concetto, cardinale per l’intera critica dell’economia politica, accompagna tutta l’analisi marxiana delle macchine come capitale fisso. Ad esempio, descrivendo la contraddizione, la tendenziale incompatibilità, tra automazione tecnologica e valorizzazione, Marx scrive: “Nella stessa misura in cui il tempo di lavoro –la mera quantità di lavoro- è posto dal capitale come unico elemento determinante, il lavoro immediato e la sua quantità scompaiono come principio determinante della produzione –della creazione di valori d’uso- e vengono ridotti sia quantitativamente ad una produzione esigua, sia qualitativamente a momento certamente indispensabile, ma subalterno, rispetto al lavoro scientifico generale, all’applicazione tecnologica delle scienze naturali da un lato, e [rispetto alla ] produttività generale derivante dall’articolazione sociale della produzione complessiva dall’altro -…” (Q.VII, p.394).
Il discorso di Marx è nitidissimo: nella stessa misura in cui la valorizzazione elimina tempo di lavoro necessario ( lavoro ridotto ad astratta quantità, cioè semplice e medio), questo cessa di essere determinante per la produzione materiale, cioè per la creazione di valori d’uso; mentre per la creazione di valore resta determinante il tempo di lavoro, per quanto tecnicamente subalterno sia tale lavoro, comunque indispensabile (all’impiego delle macchine non alla creazione materiale di materia prima e di prodotto).
Del resto, a scanso di esiziali fraintendimenti, Marx respinge esplicitamente e ripetutamente, in queste stesse pagine, l’idea che il capitale fisso possa sostituire il tempo di lavoro come fonte di valorizzazione del capitale. Vediamo, ad esempio: “Il capitale fisso, nella sua determinazione di mezzo di produzione, la cui forma più adeguata sono le macchine, produce valore, cioè aumenta il valore del prodotto, solo sotto due aspetti: 1) in quanto ha valore, cioè è esso stesso prodotto del lavoro, una certa quantità di lavoro in forma oggettivata; 2) in quanto aumenta il rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario, mettendo in grado il lavoro, grazie all’aumento della sua produttività, di creare una massa più grande di prodotti necessari al sostentamento della forza-lavoro viva in un tempo più breve. […]. Il capitale impiega la macchina […] solo nella misura in cui essa abilita l’operaio a lavorare per il capitale una parte maggiore del suo tempo. […] E’ vero che, con questo processo, la quantità di lavoro necessario alla produzione di un determinato oggetto viene ridotta ad un minimo, ma solo perché un massimo di lavoro venga valorizzato nel massimo di tali oggetti.[…]
Da quanto si è detto risulta l’assurdità della tesi di Lauderdale [uomo politico ed economista inglese (1759-1839), n.d.r.], che vuol fare del capitale fisso una fonte di valore autonoma e indipendente dal tempo di lavoro. Esso rappresenta una fonte di questo genere solo in quanto è esso stesso tempo di lavoro oggettivato e in quanto crea tempo di lavoro supplementare.” (Q.VII, pp.396-397).
E’ indubbio, allora, che ogni volta che Marx descrive il trasferimento della capacità produttiva al mezzo di lavoro (passaggio dal lavoro immediato individuale cooperativo al lavoro sociale tecnico-scientifico incorporato nelle macchine) si riferisce esclusivamente al processo di produzione materiale e che le macchine sono produttive non in quanto sostituiscono la capacità valorizzante del lavoro vivo ma in quanto l’aumentano riducendo il tempo di lavoro socialmente necessario a beneficio del pluslavoro.
Con ogni evidenza, pertanto, Marx sta parlando della produzione materiale, dell’uso produttivo, quando afferma: “Il lavoro oggettivato, a sua volta, si presenta direttamente, nelle macchine, non solo nella forma del prodotto o del prodotto impiegato come mezzo di lavoro, ma della produttività stessa.” (Q.VI, p.392).
Oppure più avanti: “In quanto poi le macchine si sviluppano con l’accumulazione della scienza sociale, della produttività in generale, non è nel lavoro, ma nel capitale che si esprime il lavoro generalmente sociale. La produttività della società si commisura al capitale fisso, esiste in esso in forma oggettiva e, viceversa, la produttività del capitale si sviluppa con questo progresso generale che il capitale si appropria gratis.” (Q.VI, p.393). D’altra parte, poco più oltre, Marx chiarisce: “dal fatto che le macchine sono la forma più adeguata del valore d’uso del capitale fisso, non consegue minimamente che la sussunzione sotto il rapporto sociale del capitale sia il rapporto sociale di produzione ultimo e più adeguato per l’impiego delle macchine.” (Q.VII, p.394).
Del resto, partendo dalla teoria del plusvalore è impossibile attribuire capacità valorizzante al capitale fisso. Così Marx sintetizza e risolve la questione (distruggendo in radice ogni stupida fantasia post-marxista sulla soppressione tecnologica della classe operaia nel capitale): “Ci si può ben figurare che la macchina in quanto tale, poiché agisce come produttività del lavoro, crei valore. Ma se la macchina non avesse bisogno di lavoro, potrebbe aumentare il valore d’uso; senonchè il valore di scambio che essa creerebbe non sarebbe mai superiore ai suoi costi di produzione, al suo stesso valore, ossia al lavoro in essa oggettivato. Essa non crea valore perché sostituisce lavoro, ma solo in quanto è un mezzo per aumentare il pluslavoro; giacchè solo quest’ultimo è tanto la misura quanto la sostanza del plusvalore creato con l’aiuto della macchina; e quindi, in generale, del lavoro.” (Q.VII, p.486, nota).