Lotta contro la guerra: primo compito del movimento operaio

L’autunno che incombe è senz’altro stagione di grandi contraddizioni e, quindi, di grandi lotte.
Non solo perché vengono a maturazione le contraddizioni connesse alla crisi economica interna, che pure esiste e colpisce, ma soprattutto perché, ancora una volta, queste contraddizioni maturano in una fase alta dello scontro interimperialista.
La guerra permanente dichiarata dagli USA, la nuova dottrina dell’attacco preventivo, la partenza delle navi verso il Golfo dicono chiaramente che si sta per scrivere una nuova pagina della competizione globale dentro cui, ancora una volta, alle vittime del conflitto, si sommerà la restrizione dei diritti e delle libertà democratiche per tutti.
Il milione di persone che hanno invaso Firenze il 9 novembre per dire no alla guerra, hanno di fronte oggi l’obbligo di comprendere bene quali siano i veri motivi di questa nuova avventura bellica, e il sindacalismo di base – che per la verità è stato l’unico in questi anni a scioperare e a lottare contro le guerre – ha ancora una volta l’obbligo di schierare il movimento dei lavoratori.
In uno studio recentemente riportato con grande rilievo dal maggiore quotidiano economico italiano – Il Sole 24 ore – si confrontano le performance che il PIL degli USA, e dell’Europa avrebbero in tre casi: se la tensione con l’Iraq restasse allo stato attuale, se iniziasse la guerra contro l’Iraq, se la guerra si allontanasse come prospettiva. Solo nel caso dell’inizio delle operazioni belliche si vedrebbe un forte aumento del PIL sia degli USA che dell’Europa, esplicitando così le attese che il capitale internazionale ripone nella nuova aggressione militare ad uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo.
Non è da oggi che motivi di dominio sulle risorse e di controllo sulle materie prime e sulla loro disponibilità sono alla base delle avventure di guerra. Dalla prima aggressione all’Iraq, all’intervento militare in Croazia e Bosnia, ai bombardamenti sulla Serbia fino alla ormai prossima nuova aggressione all’Iraq il leit motiv è sempre stato lo stesso. Il controllo delle risorse energetiche e l’intrusione da parte statunitense in territori e continenti non ancora sotto completo controllo; a ciò va aggiunta la necessità per gli USA di fare fronte, oggi, ad una crisi economico-finanziaria che ricorda molto da vicino quella del 1929, e che data da prima dell’11 settembre. La guerra, quindi, non solo come strumento imperialista di dominio, ma anche come volano della ripresa dell’economia attraverso il rilancio delle spese militari e del sostegno diretto all’apparato militare industriale.
Dopo la nascita dell’Unione Euro-pea, salutata da molti come un grande evento, la globalizzazione si è presto trasformata in “competizione globale” tra poli imperialisti. Il rumore dei cannoni si è fatto più intenso proprio a partire dalla necessità di mantenere alto il confronto tra i poli.
L’avvento dell’Euro, possibile nuova divisa di riserva – peraltro già accettata proprio dall’Iraq –, la penetrazione dei prodotti europei, gli Investimenti Diretti Esteri e la volontà dell’Europa di giocare per intero questa partita, dimostrano una nuova aggressività sul piano economico internazionale. Segni importanti e inequivocabili che la competizione è ormai a tutto campo sono la scelta della costruzione del sistema Galileo per le comunicazioni satellitari, per sganciarsi dal GPS USA, e l’avvio della costruzione dell’Esercito Europeo.
Del resto il Medio Oriente e il Nord Africa sono fondamentali mercati per l’Europa: le sue banche sono le più esposte in quest’area, mentre quelle statunitensi hanno interessi quasi irrilevanti; gli stati europei e l’Unione Europea sono i maggiori creditori ufficiali della maggior parte dei paesi dell’area mediorientale; alcuni stati del Medio Oriente sono tra i maggiori fornitori di petrolio, gas e altre materie prime agli stati europei.
È quindi evidente che una instabilità politica in quell’area colpirebbe molto di più l’Unione Europea e i suoi stati di quanto non toccherebbe gli Stati uniti che, invece, mirano, anche attraverso Israele, ad una instabilità permanente, che consenta loro di rendere inevitabile agli occhi del mondo una propria presenza manu militari nell’area.
Insomma, il Medio Oriente è la scacchiera su cui si gioca lo scontro tra l’area valutaria del dollaro e quella dell’euro, e in poche parole l’attacco all’Iraq sarebbe anche un attacco all’euro, e ciò spiega anche come mai la politica europea e quella statunitense esprimano punti di contrapposizione nei confronti del conflitto arabo-israeliano, così come spiega le politiche di segno opposto tra UE e USA sull’Iran, confermate dalla recente decisione europea di aprire negoziati commerciali con questo paese che, per gli USA, appartiene invece all’“asse del male”. L’ineffabile Romano Prodi non ha certo perso tempo, commentando la riuscita della manifestazione internazionale contro la guerra di Firenze, nel rivendicare il diverso atteggiamento dell’Europa rispetto all’aggressione all’Iraq. Lui meglio di tutti conosce qual è la vera posta in gioco!
Se questo è, sinteticamente, il quadro di riferimento della fase, con questo quadro il movimento dei lavoratori si deve confrontare. È assolutamente evidente che la campagna mediatica tesa a far digerire anche questa guerra come una necessità dovuta alla ripresa del terrorismo si accompagnerà alla criminalizzazione di tutti coloro che tenteranno di impedire che l’Italia vi sia coinvolta, anche se la piena riuscita dell’enorme mobilitazione di Firenze renderà questa operazione sicuramente più ardua. Certamente però, assisteremo a tentativi di limitazione degli spazi democratici, così come stiamo già assistendo ad una contrazione dei diritti nel mondo del lavoro e al tentativo di rispolverare la vecchia soluzione di “far pagare la crisi (la guerra) ai lavoratori” orientando gli investimenti e i flussi di capitale verso le spese militari e l’apparato militare industriale piuttosto che verso i contratti e il welfare. Chi nega, come hanno fatto a lungo Cgil, Cisl e Uil, la stretta connessione esistente tra stato dell’economia e guerra, cerca miopemente di nascondere a se stesso la realtà. Probabilmente oggi lo scenario sindacale sarà diverso da quello scandaloso cui abbiamo assistito durante la crisi jugoslava, quando i segretari confederali tentarono di arruolare il movimento dei lavoratori sull’onda della “contingente necessità” della guerra “umanitaria” della Nato. Probabilmente, oggi che il governo italiano è in mano ad una coalizione di centro destra, e che pressoché tutta l’Europa è governata dalle destre, l’atteggiamento sarà diverso. Noi ce lo auguriamo, anche se i segnali sono abbastanza contraddittori. Il sindacalismo di base ha dovuto farsi carico, finora da solo, di una forte mobilitazione contro la guerra. Gli scioperi generali, le manifestazioni nazionali del movimento dei lavoratori – partecipatissime – sono state fin qui appannaggio di chi non legava la propria posizione sulla guerra al quadro politico che la promuoveva.
L’indipendenza, tratto caratteristico e fondamentale del sindacalismo di base, ha consentito solo a quest’ultimo di guidare le grandi mobilitazioni durante le ultime avventure militari. È altresì evidente che una intransigente opposizione alla guerra come strumento di oppressione e di dominio può venire solo da chi la affianca ad una radicale critica al capitalismo e alle sue articolazioni e forme, cosa che non ci sembra sia nel DNA del sindacato concertativo.
Se è quindi la competizione internazionale, forma avanzata e successiva della globalizzazione, il vero motore degli attuali venti di guerra, è solo battendosi contro di questa che sarà possibile affermare la pace senza esitazioni, con o senza l’ONU.