L’ONU e il “progetto per il nuovo secolo americano”

Durante la prima guerra del Golfo un giornale arabo scrisse che l’ONU era diventata “il negozio di abbigliamento giuridico degli Stati Uniti”. Con la guerra contro la Iugoslavia il negozio restò chiuso, la NATO fece tutto da sola, il Consiglio di Sicurezza non fu nemmeno avvertito, e anche D’Alema fece la guerra contro la legittimità internazionale e fuori del quadro delle Nazioni Unite, come inevitabilmente oggi la stessa destra gli rinfaccia.
Con la guerra contro l’Iraq l’ONU ha rischiato la definitiva sepoltura. Se il Consiglio di Sicurezza avesse votato la mozione angloamericana di convalida dell’aggressione, l’ONU avrebbe votato contro il suo Statuto, contro il diritto internazionale consuetudinario, che è patrimonio di tutta l’umanità, contro la sua stessa ragion d’essere e il suo principio fondatore. Essa avrebbe decretato la propria scomparsa, e avrebbe sancito la fine del ciclo storico cominciato nel 1945 con la liquidazione degli Imperi, l’abrogazione del colonialismo, la proclamazione dell’eguaglianza di diritti degli uomini e delle nazioni e la messa al bando della guerra.
L’ONU non avrebbe potuto “autorizzare” l’invasione dell’Iraq quando c’era una forza di spedizione già schierata di duecentomila uomini (e donne), sei portaerei, migliaia di missili e fortezze volanti e la minaccia dell’uso, se del caso, delle stesse armi nucleari.

Sarebbe stato un suicidio

Nessuno degli articoli della Carta che contemplano il ricorso alla forza armata, in deroga al divieto generale del ricorso alla forza e della minaccia dell’uso della forza sancito dall’art. 2 par.4, poteva essere invocato per legittimare l’invasione. Non l’art. 51 che riconosce il diritto “naturale” di autotutela individuale o collettiva, perché questo articolo prevede la difesa contro l’aggressione, e non eventuali motivi di legittimazione dell’aggressione; dunque semmai l’art. 51 doveva essere invocato per proteggere l’Iraq dall’attacco armato, e non per condannarlo a subirlo. Ma nemmeno poteva essere invocato il capo VII che prevede, esauriti tutti i mezzi di pressione non implicanti l’impiego della forza armata, l’adozione di misure coercitive volte a mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale, perché queste azioni militari coercitive, incardinate come sono in un ordinamento che ha espulso dal campo del diritto il “flagello della guerra”, non possono in nessun caso tornare ad assumere le forme, l’intensità e la forza di flagellazione proprie della guerra. Analogamente a ciò che diceva Dietrich Bonhoeffer fin dal 1932, come dal principio della giurisdizione non si può far derivare la legittimità della tortura, così dal principio di una coercizione internazionale per salvaguardare la sicurezza e la pace non si può far derivare la legittimità della guerra. Ciò tanto più in quanto i beni giuridici espressamente tutelati dal divieto generale di minaccia e uso della forza sono “l’indipendenza politica e l’integrità territoriale di qualsiasi Stato”, che erano appunto i due beni che gli Stati Uniti esplicitamente dichiaravano di voler sopprimere, sia preannunciando l’imposizione di un nuovo governo, e addirittura di un proprio protettorato sull’Iraq, sia disponendosi (con una preparazione militare in corso da oltre un anno) a invadere il Paese.
Dunque l’atto con cui l’ONU avesse “autorizzato” questa guerra, sarebbe stato in realtà un suicidio. Se l’ONU è sopravvissuta, se ancora possiamo sperare di avere questo strumento per mettere le briglie alla violenza delle Potenze e ristabilire una comunità internazionale di diritto, lo dobbiamo a questo “non fare” del Consiglio di Sicurezza, alla forza che l’ONU nonostante tutto ha avuto di resistere al pressing americano e di non firmare la condanna a morte dell’Iraq. Ciò non ha salvato l’Iraq, ma ha salvato l’ONU.

Chi ha salvato l’ONU

L’ONU è stata salvata dai Paesi poveri (a cominciare dal Messico) che non si sono fatti comprare in dollari, nonostante la spregiudicata campagna acquisti condotta dagli Stati Uniti in vista di quello che avrebbe dovuto essere un “voto a maggioranza” del Consiglio di Sicurezza a favore dell’intervento, e nonostante che in una telefonata al presidente del Messico il presidente americano, o chi per lui, avesse minacciato “sanzioni disciplinari”, come quelle che i padroni irrogano ai servi. L’ONU è stata salvata dalla Francia e dalla Russia che non si sono fatte intimidire dal grande alleato e hanno mantenuto la loro decisione di usare del loro diritto di veto; un diritto che certo non ci piace, ma che almeno garantisce che nessuna delle grandi Nazioni vincitrici della guerra contro il nazifascismo possa da sola sovvertire l’ordine internazionale stabilito proprio per sradicare e impedire il riprodursi di quelle politiche di potenza, di dominio e di guerra da cui era scaturito il nazismo. Il diritto di veto significa che per ristabilire il vecchio ordine che aveva come suo fondamento e suo culmine la guerra, e rimettere la forza al posto del diritto, occorrerebbe che tutte le grandi Potenze vincitrici nella lotta antifascista fossero d’accordo, ciò che è una relativa garanzia per tutti proprio in ragione della estrema diversità, anche culturale e ideologica, di quelle cinque Potenze. Proprio questo è infatti il nocciolo del contrasto che si è aperto tra gli Stati Uniti e le altre Potenze detentrici del diritto di veto (salvo il caso, che però andrebbe esaminato a parte, della Gran Bretagna) e che rende tragica l’attuale solitudine americana.
Nel negare il via libera alla guerra preventiva contro l’Iraq, l’ONU ha avuto dunque il suo momento di fulgore e ha portato alla luce del sole la vera natura della contraddizione tra Stati Uniti e Nazioni Unite. Non si tratta solo del fatto che l’America senta le istituzioni internazionali come “un impaccio per chi è costretto a fare da sé per la propria sicurezza”, come si è affrettato ad avallare Piero Ostellino sul Corriere della Sera; è ben più che un impaccio, è il fatto che l’ordine mondiale voluto da Bush e consistente nell’instaurazione della sovranità universale degli Stati Uniti, è globalmente alternativo all’ordine delle Nazioni Unite: alternativo non solo nei mezzi (la guerra), ma nel suo stesso fondamento, nei suoi fini, ed è alternativo all’intero ordinamento giuridico che, a partire dalla Convenzione contro il genocidio e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo fino all’istituzione del Tribunale Penale Internazionale, si è andato costruendo per quasi sei decenni sul piano internazionale.

Il Progetto per il Nuovo Secolo Americano

I documenti ufficiali (dalla “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti” del settembre 2002 ai discorsi di Bush) e le azioni sul campo degli Stati Uniti (da Guantanamo alla guerra all’Iraq) hanno esplicitato con assoluta chiarezza il progetto che la destra al potere in America sta perseguendo, col supporto di una forza e di una spesa militare senza precedenti (unparalleled). È “il Progetto per il Nuovo Secolo Americano” che, elaborato alla fine degli anni Novanta da quegli stessi che oggi siedono nell’Amministrazione Bush, ebbe il suo documento fondativo nel “Rebuilding America’s Defenses” del settembre 2000 (alla vigilia dell’ultima elezione presidenziale). È il progetto di un XXI secolo a guida americana, con gli Stati Uniti come unico sovrano universale: sovrano non solo nel senso di non avere nessuno al di sopra di sé (secondo la vecchia regola della sovranità, “superiorem non recognoscens”), ma anche nessuno eguale a sé, come formalmente statuisce il documento Bush sulla sicurezza nazionale, che affida alle Forze Armate il compito di impedire a qualunque “potenziale” avversario di coltivare perfino “la speranza di sorpassare o eguagliare (equaling) il potere degli Stati Uniti”.
Tecnicamente la forma politica di un potere che non riconosca nessuno al di sopra di sé si chiama Impero (“rex superiorem non recognoscens in regno suo Imperator est”, è la formula apparsa nella dottrina politica occidentale già sul finire del 1200). E la forma politica di un Impero che non riconosce nessuno eguale a sé si chiama Impero unico e universale.
La comunità internazionale è sempre stata una comunità di molti “imperi”, cioè di Stati sovrani (non importa, come dice la Carta dell’ONU, se grandi o piccoli). La novità introdotta nel 1945, quando si è dichiarata finita l’età degli Imperi, è stato il ridimensionamento della stessa sovranità degli Stati, tutti soggetti alla nuova sovranità del diritto e ai principi supremi dell’ordinamento internazionale. Il perseguimento del progetto di un Impero, e di un Impero senza superiori e senza eguali, rappresenta dunque il puro e semplice rovesciamento del corso storico, e comporta una secca liquidazione dell’ordine dell’ONU, ma anche di ogni comunità internazionale di Stati sovrani comunque organizzata.
E non si tratta, si badi bene, di una forma pur esacerbata del vecchio imperialismo che con la sua capacità di dominio travalicava confini tuttavia ancora formalmente riconosciuti; e tanto meno si tratta dell’Impero amorfo, decerebrato, deterritorializzato e “fuori della storia”, identificato con la stessa globalizzazione, di cui parlavano Michael Hardt e Toni Negri. Si tratta di un Impero in buona e debita forma; e più esattamente si tratta della riesumazione e del parossistico rilancio, verso una estensione effettivamente planetaria, del vecchio Impero britannico estinto.
È un segno rivelatore che nel suo documento sulla sicurezza del settembre scorso, che ormai possiamo chiamare “il manifesto dell’Impero”, Bush prenda come punto di riferimento il XVII secolo, per dire che da allora mai c’è stata un’opportunità storica così favorevole come quella di oggi. E’ strano, perché il punto di riferimento dell’altra destra americana che ha governato nel Novecento era piuttosto il XIX secolo, era il “concerto delle Potenze” e il lungo ordine da loro imposto nell’Ottocento dopo il Congresso di Vienna, che Kissinger voleva in qualche modo risuscitare con la sua “Diplomazia della restaurazione” come antidoto alle pulsioni rivoluzionarie del Novecento. Bush e la sua nuova destra tornano indietro di altri due secoli, e prendono come termine a quo il XVII secolo, quando gli Stati Uniti neanche esistevano. Ma, come racconta Carl Schmitt in” Terra e mare”, il Seicento è il secolo in cui un’isola di allevatori di pecore che vendevano la lana alle Fiandre, diventa un’isola di navigatori, volta le spalle all’Europa e alla terraferma, prende il mare e fonda l’Impero inglese.
L’America, si ridefinisce oggi e riattraversa il mare come Nuova Inghilterra, come del resto la chiamavano i Padri fondatori sbarcati sulle sue coste. Ricominciando dal Medio Oriente, dall’Iraq, dove appunto l’Impero inglese era finito, quando aveva dovuto ritirarsi da quella regione subito dopo la seconda guerra mondiale. Forse per questo Blair non ha potuto non essere della partita.

O l’ONU o l’Impero

Dunque ormai la sorte dell’ONU è strettamente legata alla sorte di questo progetto americano. Tale progetto non può attuarsi che mettendo l’ONU fuori gioco. Ma naturalmente la cosa non può avvenire con un colpo di teatro. Si tratta di un processo, che apre molti spazi, e che potrà avere alterne vicende, come è avvenuto fin qui.
Riguardo alla guerra all’Iraq l’ONU, nel negarle l’assenso, ha avuto una grande funzione, perché attraverso le ispezioni, che gli Stati Uniti hanno dovuto accettare, ha dimostrato che le cause della guerra non c’erano, in quanto non c’erano le armi che gli Stati Uniti adducevano come pretesto per farla. Gli ispettori avevano ragione, tanto è vero che quelle armi non sono state trovate nemmeno con l’invasione.
Ciò ha costretto gli Stati Uniti a dare un’altra motivazione alla guerra, quella di deporre o uccidere Saddam Hussein e di liberare l’Iraq da un cattivo regime. In tal modo hanno dovuto apertamente entrare nella più assoluta illegalità. Non solo per la cosiddetta mancata “autorizzazione dell’ONU”, ma perché il regicidio non è previsto dal diritto internazionale, e il regicidio che viene perseguito nelle forme di un genocidio (uccidere il popolo per uccidere o catturare il tiranno) è un crimine condannato dalla prima delle Convenzioni dell’ONU, quella contro il genocidio (parola che fu inventata proprio allora); e quanto all’obiettivo di cambiare con la forza il regime a Bagdad, portandocene un altro con l’invasione, esso ricade formalmente nella proibizione dell’uso della forza contro la integrità territoriale e l’indipendenza politica degli Stati.
L’Onu ha tuttavia pagato il ruolo avuto nell’aver negato un avallo alla guerra e nell’aver fatto clamorosamente emergere la sua illegittimità, con una gravissima uscita di scena a guerra iniziata. Infatti il Consiglio di Sicurezza, ai sensi dell’art. 51 della Carta, avrebbe dovuto, non appena l’Iraq aveva cominciato a difendersi dall’aggressione, subentrare in questa difesa prendendo tutte le misure necessarie per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale e ordinando un immediato cessate il fuoco. Questo il Consiglio non ha fatto, e questa è stata la vera sconfitta dell’ONU. D’altra parte sarebbe stato del tutto irrealistico pretenderlo, perché avrebbe comportato che gli Stati Uniti votassero contro se stessi e contro la propria guerra.
Resta da vedere ora attraverso quali fasi passerà il conflitto mortale tra Impero e ONU nella fase nuova che si è aperta.
I legittimisti, quelli che dopo la guerra ci vorrebbero mettere una pietra sopra, compreso Blair, vorrebbero che a gestire il dopoguerra e il nuovo governo a Bagdad fosse l’ONU. Ma i falchi americani, quelli che, appunto come i falchi, vedono solo la preda e non il mondo che le sta intorno, hanno già detto brutalmente che i frutti della guerra sono solo di chi l’ha fatta, mettendoci dentro soldi, armi e vite. Così la guerra è restituita alla sue ragione primordiale, di istituto barbarico. La guerra si fa per il bottino, e da che guerra è guerra, il bottino sono le terre, i beni, e una volta anche le donne del nemico. Ma così, per i falchi che vincono, è l’intera America che è sconfitta. Mentre i vincitori si giocano a dadi la veste insanguinata dell’Iraq, l’ONU è ancora una volta umiliata.
Tuttavia il futuro non finisce qui. L’Europa, la Russia, la Cina, lo stesso mondo arabo avranno ancora bisogno dell’ONU. Tutti i soggetti della vita internazionale che nell’Impero del “secolo americano” sono destinati a perdere non solo sovranità e potere economico e politico, ma la loro stessa soggettività, se non vorranno ripartire da zero per ricominciare ad esistere, avranno bisogno dell’ONU, dovranno presidiarla perché non soccomba. Da parte loro gli Stati Uniti dovranno adottare una tattica più flessibile di quella usata contro l’Iraq. Non potranno semplicemente liberare il mondo dall’ONU, come hanno liberato l’Iraq dalla sua indipendenza, dalla sua stessa vita. Perciò cercheranno di ridurla a una agenzia umanitaria, un po’ più della Croce Rossa e un po’ meno di Amnesty.
La battaglia per salvare l’ONU e il suo ordinamento, cioè la comunità mondiale di diritto, si svolgerà su questo stretto sentiero. Il problema non sarà più la riforma dell’ONU, l’abolizione del diritto di veto, l’allargamento del Consiglio di Sicurezza, l’ONU dei popoli, che era nelle aspirazioni delle forze democratiche del mondo intero. Nel Titanic che affonda non si può pensare a rinnovare gli arredi. Il problema primo è di alzare le difese contro l’irrompere della potenza devastante delle acque. Per salvare la nave, ci sarà bisogno anche dei passeggeri di prima classe. Ci sarà bisogno anche dell’altra America, quella che oggi è tradita dalla setta apocalittica insediata alla Casa Bianca.
Se tra l’ONU e l’Impero non sarà l’ONU a soccombere, allora certo ci sarà bisogno di un nuovo e più avanzato suo ordinamento, ci sarà bisogno della sua riforma, della sua “democratizzazione”. Questo esito è possibile, anzi dopo che si è mostrato il vero volto dell’Impero è più possibile oggi di quanto un altro mondo fosse possibile quando ancora era imbellettato e velato il vero volto della globalizzazione. La storia si riapre.
Sfidata dalla marcia dei carri e dalla nuvola di missili e bombardieri nella terra tra i due fiumi e nelle strade martirizzate di Bassora e di Bagdad, la storia si riapre a nuove speranze, proprio là dove era cominciata, a Ur dei Caldei, dove furono scritte le prime leggi a difesa del povero, dell’orfano e della vedova, 3800 anni prima della Costituzione americana, e a Babilonia dove il codice di Hammurabi si proponeva di “garantire la giustizia agli oppressi”, 3600 anni prima dell’ONU, dello Stato sociale e della Costituzione italiana.