In questi giorni di concitazione per gli avvenimenti di New York e di attesa della rappresaglia militare americana, un paese schizzato dalla periferia della storia e dall’attenzione mondiale come l’Afganistan è tornato sotto osservazione. Anche noi siamo tornati ad osservare l’Afganistan, ma lo abbiamo fatto propabilmente con interrogativi e sottolineature molto diverse da quelle offerte dal becerume giornalistico e televisivo a cui stiamo assistendo. Vogliamo indicarne almeno cinque che meritano, a nostro avviso, qualche riflessione.
Afganistan: covo del terrorismo o snodo strategico?
Il buonsenso vorrebbe che il contrasto tra la mortale efficacia dimostrata dagli attentati e le immagini di un composito popolo di nomadi, pastori e montanari come quello dell’Afganistan, salti subito agli occhi ponendo una legittima domanda: possono essere questi, oggi, la minaccia e il problema principale di una potenza come gli Stati Uniti? Nella scelta del nemico di turno, è del tutto estranea la collocazione geopolitica di questo paese? Le sue frontiere e la sua centralità in quella Eurasia che gli esperti americani definiscono strategica per i rapporti di forza mondiali, sono del tutto estranee alla costruzione dell’immagine dell’Afganistan come regno del male?
Petrolio e gas “non olet”. La guerra già in corso
Da alcuni mesi i Taliban che dominano il paese sono stati oggetto di critiche pesanti (ampiamente giustificate) e di misure diplomatiche internazionali che hanno isolato il paese dal resto del mondo. Attualmente l’Afganistan è riconosciuto solo da tre paesi, tra cui Pakistan e Arabia Saudita. Fino a cinque anni fa, il regime dei Taliban godeva invece di appoggi economici e militari piuttosto ampi e non solo da Pakistan e Arabia Saudita. I giornali di queste settimane ci rivelano che, nel fuggi fuggi degli occidentali da Afganistan e Pakistan, ci sono centinaia di funzionari e tecnici di compagnie petrolifere di mezzo mondo, inclusa la BP-Amoco e la Unocal americane. Un interessantissimo articolo di Le Monde Diplomatique del 1996, rivelava quanto altri organi di stampa hanno confermato successivamente: la vittoria militare dei Taliban era stata agevolata, oltre che dal Pakistan, anche dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita per stabilizzare il paese e consentire la costruzione di un oleodotto e di un gasdotto dal Turkmenistan fino all’Oceano Indiano (al porto di Gwada in Pakistan). Impegnate in questo progetto (con un costo di due miliardi di dollari) erano la compagnia petrolifera statunitense Unocal e quella saudita Delta Oil1. Due repubbliche ex sovietiche come Turkmenistan e Uzbekistan, consigliate dal Dipartimento di Stato americano, sostenevano decisamente il progetto scontrandosi duramente con la Russia nel corso di un vertice ad Alma Ata2. La Russia, utilizzando – a questo punto non a torto – il pretesto della minaccia islamica, cercava di convincere le altre repubbliche ad orientarsi sui tracciati degli oleodotti che attraversavano la Russia (inclusa la Cecenia). Ma nel 1996 gli Stati uniti avevano già cominciato la “guerra delle pipelines” per tagliare fuori dalle vie del petrolio sia la Russia che l’Iran. Una guerra che sta alla base dei sabotaggi prima, del terrorismo poi e della secessione armata infine della Cecenia.
Le vittime del “terrorismo islamico”. Ancora una volta due pesi e due misure
Nel 1999 due autobombe esplodevano a Mosca sbriciolando due grandi condomini popolari e uccidendo centinaia di persone, un pò come è accaduto per le Twin Towers, ma in modo meno spettacolare per i mass media. Il governo russo accusò i secessionisti musulmani della Cecenia. In quella occasione però il mondo non si è fermato, non ha acceso candele nè ha fatto fiaccolate o veglie sotto le ambasciate della Russia. Al contrario, in Italia, Adriano Sofri, i portavoce del Partito Radicale o i loro emissari alla Commissione Europea, parlarono di attentati fatti in casa per giustificare l’intervento militare della Russia in Cecenia. Oggi sono tra coloro che in prima fila invocano la rappresaglia contro afgani, palestinesi, irakeni etc.
Modernizzazione contro feudalesimo. Niente da rimproverarsi?
L’ultima osservazione somiglia un po’ ad un sassolino da togliersi dalla scarpa. Negli anni ’80, l’occupazione sovietica dell’Afganistan è stata sistematicamente al centro della guerra fredda contro l’URSS. Non solo la NATO e gli Stati Uniti, ma anche la sinistra aveva fatto propria la bandiera dell’indipendenza dell’Afganistan dai sovietici. Non si poteva fare una manifestazione a sostegno della resistenza in Salvador o della rivoluzione sandinista senza dover mettere anche un paragrafo sull’Afganistan (riunioni e discussioni laceranti che ancora non riusciamo a mettere nell’oblio).
Era ritenuto inutile anzi riprovevole l’argomentare di chi sosteneva che se la modernizzazione di un paese poteva non coincidere con l’occupazione sovietica ( come sostenuto dai famosi “kabulisti”), chi si opponeva al regime filo-sovietico rappresentava però una visione feudale e clanistica della società (oltre che mano armata degli USA, del Pakistan e dell’Arabia Saudita). Certo è che in quegli anni in Afganistan vi sono state scuole per tutti, diritti per le donne, assistenza sanitaria senza discriminazioni, laicità delle istituzioni e della vita pubblica. Con la vittoria dei “combattenti della libertà” (così venivano definiti anche da Emma Bonino, da Renato Altissimo etc.) tutto questo è scomparso ed è finito nei dossier di denuncia delle Nazioni Unite sul regime feudale-religioso imposto dai Taleban. La fucilazione nel 1992 dell’ultimo presidente (il “filo-sovietico” Najibullah), del suo fratello minore e l’esposizione dei loro cadaveri in piazza ad opera dei combattenti islamici, non suscitò reazioni neanche da parte di uomini e donne sensibili come quelli di Amnesty International, e neppure alle Nazioni Unite che pure dovevano assicurare l’incolumità dell’ex presidente3.
È in questo contesto che il plenipotenziario degli interessi dell’Arabia Saudita, Osama Bin Laden, spesso in compagnia dell’ambasciatore americano in Pakistan, John Monjo, si è radicato in Afganistan con i soldi, le armi e le coperture che per lungo tempo gli hanno fornito gli stessi americani. Noriega, Saddam Hussein, Mobutu, Fujimori: possibile che gli Stati Uniti allevino sempre tra i propri ex alleati… i propri demoni di turno?
Note
1 Oliver Roy: “Saharia e gasdotto, la ricetta dei talebani”, Le Monde Diplomatique, novembre 1996
2 Al vertice di Alma Ata, il 4 ottobre 1996, dedicato proprio all’Afganistan, parteciparono Russia, Kazachistan, Tagikistan, Uzbekistan e Kirghisistan.
3 Alessandro Leoni: “L’Afganistan e la cattiva coscienza” L’Ernesto maggio/giugno 2001