Lo smantellamento dell’Università pubblica

*Rappresentante Personale Tecnico-amministrativo in Senato Accademico, Università degli Studi di Ferrara

Il sistema di reclutamento dell’Università italiana in questi due ultimi decenni è stato influenzato in maniera totale da quanto è accaduto all’inizio degli anni ’80, quando una serie di provvedimenti politici e di legge hanno cominciato a saturare gli organici del personale docente di tutti gli Atenei italiani, consentendo l’entrata, spesso senza alcun titolo di merito, praticamente a chiunque in quei frangenti si trovasse a transitare nelle vicinanze delle sedi universitarie.

IL SISTEMA DI RECLUTAMENTO DELL’UNIVERSITÀ ITALIANA

A chi frequentava l’Università nella seconda metà degli anni ’80, anche ai migliori, a meno che non si trattasse di studenti provenienti da situazioni familiari privilegiate che avrebbero potuto favorire, dopo la conclusione degli studi, l’entrata in quel mondo, veniva detto con molta chiarezza che sarebbe stato davvero duro, quasi impossibile, sperare in futuro in una carriera universitaria.

UNA GENERAZIONE DI ESCLUSI

È in questo clima che si è formata gran parte della generazione degli “esclusi”, di coloro che, nati dalla metà degli anni ’60 in poi, si sono visti tenere fuori, non solo nell’ambito universitario, ma in genere dalle posizioni di maggior prestigio della società. È per questo motivo che anche studiosi e professionisti di ottimo livello, negli anni ’90, nel momento in cui hanno dovuto cercare un lavoro, si sono rivolti alle pubbliche amministrazioni, e quindi anche alle Università, per trovare un’occupazione stabile. Il numero di laureati, preferenzialmente in materie umanistiche, giurisprudenziali ed economiche, presente all’interno degli Atenei italiani è andato così notevolmente aumentando e ha creato una situazione per cui numerosissimi sono i lavoratori dotati di un’ottima preparazione e di anni di professionalità, per altro non riconosciuta, i quali, assunti a livelli bassi, nei quali continuano a permanere negli anni, vengono in realtà impiegati in mansioni di livello più alto, senza che venga riconosciuto loro nessun tipo di beneficio. Quando si parla dei bassi livelli degli stipendi dei dipendenti statali e quindi anche di quelli universitari, difficilmente si tiene conto anche di questo aspetto che fa sì che la paga percepita da un lavoratore in questa situazione risulti vergognosamente bassa rispetto alle mansioni esercitate ed alle responsabilità accettate. Oltre che, come già sappiamo, enormemente più bassa dei pari livello degli altri paesi europei. Allo stesso modo, sia la politica sia l’opinione pubblica non tengono nella dovuta considerazione il patrimonio culturale e professionale di eccellente livello che in questi due ultimi decenni è stato “par- cheggiato” all’interno delle pubbliche amministrazioni senza essere messo nella condizione di poter impiegare le proprie peculiarità.

FEUDI E CLIENTELE

Sia le Università sia le pubbliche amministrazioni si sono piegate nella loro maggioranza a logiche improntate al mantenimento del potere di questo o di quell’altro gruppo politico od economico: questa scelta ha fatto sì che all’interno di queste realtà venisse e venga favorita la possibilità di carriera di elementi che certo non possiedono, quale caratteristica precipua, quella di far funzionare in maniera adeguata tali realtà. Tutti parlano di merito, ma in realtà come quelle che si sono create troppo spesso l’unico merito che viene tenuto in considerazione è quello di essere fedeli a chi in quel particolare frangente detiene il potere.

I LAVORATORI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI SOTTO TIRO

Questa situazione sta alla base di quanto in questi ultimi anni i governi di centro destra hanno fatto per colpire i lavoratori delle pubbliche amministrazioni, tra i quali, è certo, si possono incontrare elementi che fanno di tutto per non impegnarsi nel proprio lavoro, ma che nella loro complessità lavorano, invece, in situazioni disastrose per mezzi e risorse messe a disposizione, riuscendo comunque in più realtà a mantenere elevato il livello dei servizi erogati alla comunità. Fermo restando che, come accade negli Atenei italiani, tenere per anni le persone ferme al medesimo livello senza nessuna possibilità di crescita, quando spesso già al momento dell’assunzione ci si trova ad affrontare mansioni di livello elevato, rappresenta una prima gravissima forma di sfruttamento, è vero che in questi anni il pesantissimo ricorso sia ai concorsi sia ai contratti a tempo ha creato una categoria di lavoratori, ormai vastissima, che, a differenza del passato, quando nella maggioranza dei casi dopo un certo periodo di tempo venivano banditi concorsi che permettevano la stabilizzazione dei meritevoli, ha fornito il proprio apporto alle Università per un determinato numero di anni e quindi è stata definitivamente licenziata. Queste gravissime ingiustizie, patite dai singoli, ma anche dalla società, perché non dimentichiamo che perdere un elemento valido, formato e professionalizzato in cinque anni, rappresenta un grande problema anche per la realtà lavorativa nella quale era stato inserito e quindi anche una perdita all’interno del processo che porta al concretizzarsi del servizio da offrire, nascono dalle possibilità offerte e a volte imposte dalla politica alle pubbliche amministrazioni.

UNA POLITICA DI TAGLI INDISCRIMINATI

I tagli senza nessun tipo di attenzione alle reali necessità delle Università e ancor più della società mietono vittime sì tra i lavoratori licenziati, ma ancora di più tra gli studenti che vedono calare vertiginosamente la qualità delle prestazioni offerte dagli Atenei. Che sia evidente la necessità, all’interno degli Atenei, di cambiamenti “epocali” appare ormai lampante. Che quelli che vengono messi in atto da questa riforma lo rappresentino, è, invece, tutto da dimostrare. Perché si potesse verificare un cambiamento reale all’interno di questo mondo ormai narcotizzato, oltre alla buona volontà della politica che non dovrebbe togliere, bensì spendere per la ricerca e l’istruzione, sarebbe necessario un vero e proprio cambiamento di mentalità della maggioranza di coloro che detengono il potere, sia professori sia dirigenti amministrativi. E questo sembra, onestamente, molto lontano dall’accadere.

LIMITI E DIFFICOLTÀ DEL SINDACATO

Il sindacato, seppure presente, appare sempre meno capace di contrastare l’intreccio perverso e pervasivo costruito dalla mala politica e dalla mala economia che tendono ormai ad insinuarsi in ogni aspetto della società e che si sono impossessate totalmente anche di realtà tanto delicate come quella dell’Università pubblica. I lavoratori spesso si trovano di fronte a rappresentanti che si limitano a tentare di racimolare qualche piccola elemosina di carattere economico, senza riuscire invece ad affrontare le tematiche della tutela dei diritti e soprattutto quella della dignità e del rispetto degli individui sul proprio posto di lavoro. Le richieste dei lavoratori contrastano non più con quanto deciso da questo o da quel partito di destra o sinistra, contrastano con le necessità di un mondo economico che li vorrebbe ormai veder ridotti a meri produttori di plusvalore per il capitale; un mondo che si allunga trasversalmente anche all’interno di realtà politiche che in tempi non lontanissimi facevano della tutela dei diritti dei lavoratori e della tutela degli equilibri sociali il loro caposaldo. È per questo che, soprattutto in realtà governate da coalizioni che dovrebbero avere a cuore gli interessi dei lavoratori, a volte bravi e coraggiosi sindacalisti vengono convinti dell’impossibilità materiale di ottenere ciò per cui i lavoratori li hanno eletti.

LA LOTTA DEI RICERCATORI

Quanto avviene in questo particolare frangente, mentre gruppi corposi di ricercatori a tempo indeterminato stanno cercando di opporsi alla scomparsa di quella figura all’interno dell’Università, determinata dalla riforma Gelmini, mostra con evidenza le pesanti contraddizioni di questo periodo storico. I ricercatori, quale forma di protesta, decidono di rifiutare di tenere gli insegnamenti ufficiali che in questi anni hanno accettato, senza averne l’obbligo, pratica che ha preso piede con particolare forza in numerosi corsi di laurea degli Atenei italiani. Tale decisione causa, all’interno delle Università, forte preoccupazione, perché la protesta rischia, in diverse realtà, di bloccare l’erogazione dell’offerta formativa. I ricercatori, a parole, ottengono la solidarietà di una parte numerosa degli associati e degli ordinari degli Atenei italiani, ma alla resa dei conti appare subito evidente che gli Atenei, per quanto solidali e seppure nella grande maggioranza a corto di risorse, hanno già deciso, per bloccare la protesta, di sostituire i ricercatori con docenti reclutati attraverso contratti. Nessuno, né destra né sinistra, nonostante la protesta dei ricercatori punti con forza il dito sul fatto che questa riforma intende continuare il processo di smantellamento dell’Università pubblica attaccando i ricercatori per attaccare la ricerca libera, sembra avere voglia di affrontare una discussione politica globale.

QUALI PROSPETTIVE?

A ciò va aggiunto che pesanti campagne mediatiche e politiche, ancora una volta non solo di destra, in questi anni hanno teso a costruire l’immagine del dipendente pubblico, docenti universitari compre – si, quale responsabile del disastro economico del paese molto di più che gli evasori impenitenti che ogni anno sottraggono milioni e milioni di euro al paese. Si tratta di un’operazione che ha messo in gran de difficoltà chi lavora in questo settore perché ogni forma di reazione viene con facilità interpretata all’esterno come la manifestazione della volontà di mantenere privilegi indicibili. Nasce da qui la confusione che pervade anche una parte della sinistra: il mondo accademico deve essere riformato, troppi sono gli squilibri, le ingiustizie e i cattivi funzionamenti che ormai lo caratterizzano, ma questo non deve avvenire consegnando questo enorme patrimonio dello Stato nelle mani dei privati. Difficile per questo motivo pensare a come riuscire a cambiare questa realtà. Dovremmo trovarci di fronte ad un rivoluzionario cambio di mentalità che collocasse l’essere umano e non il profitto e il PIL al centro delle dinamiche economiche e finanziarie, mettendo fine alla pratica, che in questi ultimi decenni ha fatto sì che l’economia finanziaria spartisse tra pochi gli enormi profitti accaparrati a scapito delle masse, scaricando invece, grazie a governi compiacenti, sulle spalle dei lavoratori onesti e che pagano le tasse il prezzo di errori e ladrocini indefessi e ripetuti. E forse dovremmo ritornare ad avere la possibilità di avere quale punto di riferimento forze politiche che ci dicano con chiarezza da che parte della barricata hanno deciso di stare. È stato un grave errore credere che la fine dell’URSS avesse posto fine alla necessità, per i partiti di sinistra, di costruire un’alternativa a questo modello sociale ed economico. Un errore del quale alcune forze politiche ed economiche hanno approfittato per imporre la convinzione che questo fosse il migliore dei mondi possibili, l’unico. Ne siamo davvero certi?

Ferrara 22 settembre 2010