L’Iran nel mirino americano

RIVELATI DAL GIORNALISTA AMERICANO SEYMOUR HERSH I PREPARATIVI PER LA TERZA GUERRA PREVENTIVA USA

Capita, mentre si parla di Iraq, di pensare al Vietnam. Del Vietnam conosciamo tutto, ma ora se ne parla per fare confronti con la guerra e la resistenza irachena, Si tratta di confronti spesso azzardati, anche perché le vicende storiche non si ripetono mai nello stesso modo. Quello che invece molto spesso si ripete è il modo in cui la storia ci viene raccontata dagli imbonitori dell’industria mediatica.
Nei giorni successivi al voto del 30 gennaio in Iraq abbiamo incrociato, via Internet, un passaparola riguardante una vecchia documentazione d’archivio assai significativa: la mattina del 4 settembre 1967, tre anni dopo l’inizio della guerra d’Indocina, sul New York Times si leggeva un articolo intitolato “Il voto in Vietnam rincuora gli Stati Uniti”, con un sommario di questo tenore: “A ffluenza alle urne nonostante il terrorismo dei vietcong” . Anche allora Washington stava esportando la democrazia in un paese minacciato dal comunismo. Quell’articolo del NYT, a firma di Peter Grose, raccontava che “i funzionari americani sono rimasti sorpresi e compiaciuti dalla partecipazione al voto nelle elezioni presidenziali vietnamite, a dispetto di una campagna di terro re ordita dai vietcong. Ha votato l’83% dei quasi sei milioni di aventi diritto, sfidando le minacciate rappresaglie di morte dei terroristi. La dimensione del voto popolare e l’incapacità dei terroristi vietcong di inceppare la macchina elettorale sono stati i due aspetti salienti di questa consultazione democratica garantita dalla presenza delle truppe americane”. Più in là si aggiungeva che quelle elezioni rappresentavano un passaggio chiave, che avrebbe spianato al Vietnam la via alla pace, alla libertà e alla democrazia, modello rigorosamente americano.
Quel testo di 38 anni fa assomiglia come una goccia d’acqua ai commenti letti ed ascoltati dopo le elezioni irachene del 30 gennaio 2005. Vale però la pena di aggiungere che qualche giorno dopo le elezioni farsa in Sud-Vietnam, un giornalista australiano assai poco embedded, William Burckett, fece un’intervista alla signora Minh, vice presidente del FLN, chiedendo che ne pensasse di quello strepitoso successo elettorale chiaramente ispirato ed imposto dagli occupanti americani: “Forse la sorprenderà – rispose la signora Minh –, ma abbiamo votato anche noi. Con il fucile. Ci vorranno forse alcuni anni prima di conoscere i risultati veri di questa consultazione, ma alla fine vedrete che i risultati saranno molto diversi da quelli di ieri”.
Sappiamo come allora è andata. Occorsero otto anni di guerra e di grandi lotte civili e democratiche in tutto il mondo, segnate spesso dalla violenza, tanta violenza, ma solo dopo che 58 mila soldati americani furono sepolti sotto le argillose terre alluvionali del cimitero di Arlington, in Virginia, arrivò la prima, clamorosa, sconfitta militare della superpotenza imperialista. Nel contempo, però, 3 milioni di vietnamiti erano stati inceneriti dal napalm, dai B 52 e dalla diossina.
Uno dei giornalisti testimoni diretti di quella lontana guerra d’Indocina, Seymour Hersh, allora alle prime armi, fece tremare il Pentagono denunciando al mondo la tortura e poi la spietata strage di oltre 500 vecchi, donne e bambini compiuta da un distaccamento americano nel villaggio vietnamita di My Lai. Per quel servizio ottenne il premio Pulitzer. Ancora oggi, con la stessa vigile attenzione di allora, Seymour Hersh (diventato una leggenda del giornalismo d’inchiesta americano) sta mostrando la sua straordinaria capacità di scoprire e denunciare i segreti più torbidi dell’establishement politico, militare e spionistico americano. Attento osservatore delle due guerre preventive in Afganistan e Iraq e di quelle prossime venture in preparazione, ne denuncia impietosamente i crimini e avverte, documenti alla mano, che per i neocons americani l’occupazione dell’Iraq non è che il primo passo di una strategia aggressiva a lungo termine. La prossima preda è già stata individuata ed è già nel mirino del Pentagono.
Dopo la rielezione di Bush al secondo mandato, la nuova equipe presidenziale sta mettendo a punto i dettagli della nuova missione, detta “guerra planetaria contro il terrorismo”. L’elenco degli “stati canaglia” è stato allargato a nuovi membri: Bielorussia e Zimbabwe. Gli unici dubbi, riguardano il quando, come e contro chi. Proseguirà la stessa politica offensiva del primo mandato segnata da due invasioni militari – Afganistan e Iraq – con i i disastrosi risultati che conosciamo? Se sì, quale sarà il prossimo obbiettivo, ora che la Corea del Nord, potenza nucleare dichiarata, diventa una preda troppo rischiosa e dunque intouchable per i superguerrieri del Pentagono? Se la “guerra planetaria al terrorismo” dovrà, a quanto pare, proseguire, quale sarà il paese che ne farà le spese?
L’informatissimo reporter Seymour Hersh, che di queste cose se ne intende, non ha il minimo dubbio: la nuova preda designata, titolare di un ricco potenziale energetico e pedina geopolitica di grande importanza strategica della “grande scacchiera” imperialista, sarà l’Iran degli ayatollah!
Questa è la conclusione della lunga e documentata inchiesta, corredata da pezze d’appoggio ineccepibili, condotta da Hersh per il settimanale americano The New Yorker. L’inchiesta, che ha raggiunto gli angoli più segreti e protetti del potere militare USA, ha avuto l’effetto di una bomba, in quanto ha svelato i dettagli della pianificazione militare e raccontato i particolari delle operazioni di ricognizione spionistiche già in atto per individuare le principali installazioni nucleari distribuite su tutto il territorio iraniano.
Che Hersh abbia colpito nel segno, è dimostrato dalla rabbiosa dichiarazione di Richard Perle, stratega del clan neocons, che ha definito l’autore dell’inchiesta espressione di un “giornalismo americano contiguo al terrorismo”. Un editoriale del Washington Times, quotidiano di estrema destra, ha rincarato la dose chiedendo che Hersh venga trascinato in tribunale e “giudicato per spionaggio”, in quanto il giornalista rivela al mondo intero, e dunque anche al governo iraniano “nemico”, che “i nostri commandos sono già al lavoro dietro le linee nemiche in una missione vitale e pericolosa”. Il tempo della caccia alle streghe del compianto senatore Mac Carty riappare più minaccioso di prima sulle rive del fiume Potomac. Che Seymour Hersh abbia molte ragioni di paventare il pericolo incombente di una “terza guerra preventiva” lo si evince raccordando i dettagli dei preparativi militari contro l’Iran, con i vari passaggi politici e diplomatici del confronto in atto tra gli Stati Uniti da un lato e l’Unione Europea, mondo arabo, Russia, Cina e India dall’altro. Da questo coerente collage di dichiarazioni emerge la convinzione che l’attacco all’Iran sia inserito come “target” nel secondo mandato di Bush, come lo sono stati Afganistan e Iraq nel primo mandato. Dunque la questione non è di sapere se l’attacco avrà luogo, ma quando e come.
L’occupazione militare dell’Iraq cambia sostanzialmente l’assetto militare della regione. Quattro anni fa un’invasione via terra dell’Iran era praticamente impossibile. Ora è invece possibile a partire dai due paesi confinanti, ed il Pentagono, come ci spiega Hersh, sta già cogliendo l’opportunità veicolando via terra operazioni clandestine preventive.
Sul piano politico, la diplomazia del nuovo segretario di stato, Condy Rice, più simile ai cingoli di carro armato Abrhams che alle sofisticate sottigliezze diplomatiche di Henry Kissinger, appare del tutto propedeutica alla prossima invasione militare dell’Iran.
Mentre da Ankara il sottosegretario alla difesa dichiara che ”sforzi diplomatici da parte dell’Unione Europea riguardanti il programma di armamenti nucleari dell’Iran sono in corso”. omette di precisare che gli Stati Uniti rifiutano di coordinare la loro strategia “dissuasiva” con quella degli europei. Le dichiarazioni incendiarie di Condy Rice sembrano non lasciare dubbi sulle intenzioni di Washington. Bush ha collocato l’Iran al centro delle “postazioni avanzate della tirannia”, e Dick Cheney colloca l’Iran “nella lista dei paesi potenzialmente pericolosi a causa del suo programma nucleare ed del suo sostegno al terrorismo”. Il vice presidente USA ha inoltre lasciato cinicamente intendere che “l’eventualità che gli israeliani agiscano unilateralmente per porre fine al programma nucleare iraniano inquieta Washington”. Il tacito riferimento di Cheney al bombardamento israeliano del sito nucleare di Osirak (Iraq) nel 1981 è del tutto esplicito e più che mai allarmante. Il quotidiano Le Monde del 15 marzo 2005 sostiene che Sharon abbia già messo a punto, in una riunione ristretta del governo israeliano, i dettagli militari dell’attacco. Sembra dunque che il count down su chi attaccherà per primo – Washington o Tel Aviv – sia già cominciato.
L’Unione Europea, viceversa, continua a perseguire la via delle pressioni diplomatiche su Teheran per convincerla a sospendere i programmi nucleari. Ma l’impresa appare sempre più difficile. Gli ayatollah, memori del precedente iracheno, ritengono ormai che solo il possesso delle armi atomiche possa preservare il loro paese da un’invasione americana. La stessa Corea del Nord, fino a poco fa capolista dei paesi “dell’asse del male” (e ancora oggi definita “postazione avanzata della tirannia”), dopo che si è dichiarata potenza nucleare sembra avere acquisito un potere di dissuasione antimperialista notevole nei confronti di Washington. Dopo averla infatti minacciata più volte di invasione, ora la Casa Bianca ha abbassato i toni e cerca in tutti modi di negoziare. Il che non sorprende, se si pensa che gli Stati Uniti si sono cacciati in una sfida militare temeraria che non ha mancato di coinvolgere soggetti di ben altro peso e dimensioni, come la Cina e la Russia, considerati da Washington come suoi nemici strategici.
L’esplicita minaccia americana di delegare ai bombardieri israeliani il compito di sferrare il primo attacco contro le centrali nucleari iraniane non sembra aver impressionato molto il governo di Teheran. Sembra anzi che la minaccia militare congiunta USA-Israele fornisca agli ayatollah gli argomenti per eludere l’attenzione popolare dagli elementi di crisi politica che attraversano il paese, e consenta di serrare i ranghi, facendo appello ai sentimenti nazional- patriottici oltre che religiosi, chiamando il popolo alla resistenza contro la minaccia di invasione. I dirigenti del paese ostentano sicurezza. Il presidente iraniano, Muhammad Khatami, definito un moderato, rimanda al mittente le minacce americane. “Gli Stati Uniti hanno troppi problemi in Iraq per permettersi il lusso di attaccarci” ha dichiarato prima di “promettere l’inferno” agli invasori. Il ministro della difesa iraniano, Ali Chamkhani, è stato ancora più esplicito:”Possediamo un tale livello di forze da scoraggiare chiunque. Nessuno dei nostri avversari conosce con precisione le nostre capacità militari, né la nostra abilità di utilizzo di nuove strategie di difesa. Il nostro equipaggiamento ci conferisce una grande potenza di dissuasione”.
Che queste dichiarazioni siano più o meno realistiche oppure un bluff, non è dato sapere. Sono in ogni caso maledettamente allarmanti, e preannunciano una nuova immane tragedia se i popoli e i governi più ragionevoli non saranno in grado di far sentire la loro voce e di fermarla.