L’insostenibilità del liberismo imperialistico: la lezione del 1997

Gli scambi internazionali interessano sia le merci che il denaro, sicché giustamente Lenin ha potuto scrivere che, se “per il vecchio imperialismo, sotto il pieno dominio della concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci, per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitali” (L’imperialismo come fase suprema del capitalismo, Edizioni in lingue estere, Mosca 1950, p. 70). Ciò premesso, è regola di equilibrio di bilancio che le esportazioni di merci si pareggino esattamente con le rispettive importazioni e che altrettanto facciano i movimenti dei capitali, con l’ovvia conseguenza di rendere impossibile l’affermazione di Lenin che i paesi imperialistici non possano essere contemporaneamente esportatori. Il fatto è però che la condizione di equilibrio di cui sopra ha per oggetto l’intera bilancia dei pagamenti, che è la somma del netto della “bilancia commerciale” (esportazioni meno importazioni di merci) con quello della “bilancia finanziaria” (afflusso meno deflusso di capitali), così che un eventuale difetto d’esportazioni (bilancia commerciale in passivo) può venir compensato da un maggiore afflusso di capitali (bilancia finanziaria in attivo). Si noti come le due poste vadano in parallelo: se ci sono troppe esportazioni di merci, allora ci saranno maggiori esportazioni di capitale e viceversa. Perché la regola d’equilibrio è che si debbano esportare più capitali quando si esportano più merci (come successo all’Italia dopo il 1992; cfr. il mio La proiezione imperialistica dell’Italia: l’esportazione netta di capitale, in “L’Ernesto”, 1999, n. 1), così come si devono richiamare capitali in patria quando se ne importano troppe. E questa è la regola di fondo del “grande gioco” imperialistico. Ma quali ne sono gli attori?

Lasciamocelo dire da George Soros, uno che certamente se ne intende, che ha paragonato il sistema capitalistico ad “un impero: un impero la cui portata è più globale di qualsiasi altro l’abbia preceduto. Esso domina una civiltà intera e, come in altri imperi, coloro che si trovano fuori dai suoi confini sono considerati barbari. Non è un impero territoriale, perché manca della sovranità e delle sue insegne; anzi, la sovranità degli stati che ne fanno parte costituisce il limite principale del suo potere e della sua influenza. È quasi invisibile perché non ha una struttura formale. Gran parte dei suoi sudditi non sanno nemmeno di essergli assoggettati o più precisamente riconoscono di essere assoggettati a forze impersonali e a volte distruttive, ma non capiscono di che cosa si tratti” (La crisi del capitalismo globale, Ponte alle Grazie, Milano 1999, pp. 141-142). Questo impero non è però omogeneo in tutte le sue parti, presentando un “centro” e una “periferia”, e “si potrebbe sostenere che il centro sia a New York e a Londra perché è lì che si trovano i mercati finanziari internazionali; oppure a Washington, a Francoforte e a Tokyo perché è lì che viene fissata la massa di denaro che circola nel mondo. Ma si potrebbe sostenere con altrettanta fondatezza che il centro si trovi al di fuori di ogni confine, perché è lì che viene fissata la massa di denaro che circola nel mondo” (p. 143). Questo impero è tenuto insieme dalla circolazione delle merci e dei capitali di cui abbiamo detto più sopra, con inizio nel movimento dei capitali che vanno dal centro, che li produce, alla periferia. Infatti “questo sistema, molto favorevole al capitale finanziario che è libero di scegliere dove andare,… lo si può vedere come un gigantesco sistema circolatorio, che risucchia i capitali dentro i mercati e le istituzioni finanziarie del centro e poi li pompa in periferia, o direttamente, sotto forma di crediti e di investimenti di portafoglio, o indirettamente, attraverso le multinazionali” (p. 10).

È questo il movimento “virtuoso” quale si è manifestato fino al 1997: il centro buttava fuori capitali “ed ai paesi periferici bastava aprire i propri mercati finanziari per ricevere dal centro un vasto quantitativo di capitali” (p. 11). Però questa volta i capitali non hanno soltanto consentito alla periferia di acquistare merci dal centro diventando così il mercato di sbocco delle sue eccedenze di produzione come era regola di sempre. Questa volta soprattutto la periferia asiatica è arrivata a servirsene per dotarsi di un proprio sviluppo industriale. Non si sa bene come, ma “improvvisamente è successo qualcosa. Un misterioso insieme di eventi che ancora non abbiamo ben compreso – meno barriere all’ingresso, migliori telecomunicazioni, tariffe aeree più convenienti – ridussero gli svantaggi per chi produceva nei paesi in via di sviluppo,… così che quei paesi, che prima sopravvivevano vendendo juta o caffè, cominciarono invece a produrre magliette e scarpe di tela” (P. Krugman, Il ritorno dell’economia della depressione, Garzanti, Milano 1999, p. 32). Il fatto ha scardinato l’equilibrio imperialistico tra centro e periferia perché, “decollata” industrialmente, quella periferia (almeno la periferia asiatica) che importava capitali si è buttata ad esportare merci sul mercato mondiale, mentre il centro esportatore di capitali si è trovato ad essere importatore di quelle merci. Ma ciò non è possibile, recita la regoletta d’equilibrio della bilancia dei pagamenti, perché allora sia al centro che alla periferia le due poste non si compensano ma si sommano, aggravandone lo squilibrio (positivo per la periferia, negativo per il centro). E il centro, o per meglio dire gli Stati Uniti, ha prontamente reagito adottando a partire dal 1996 una politica monetaria in grado di rovesciare l’andamento internazionale dei capitali. Lo strumento è stato l’aumento dei corso del dollaro, come ci rivela il solito Soros: se “la crisi debitoria internazionale del 1982 è precipitata a causa di un drastico aumento dei tassi d’interesse degli Stati Uniti; la crisi asiatica del 1997 è stata innescata dall’aumento del dollaro statunitense” (idem, p. 164. Naturalmente chi mai credesse che simili decisioni non spettano ai governanti monetari bensì al mercato, non sa di che cosa sta parlando; cfr. M. De Cecco, Il timoniere Greenspan e le “rotte” delle monete, in “La Repubblica. Affari & Finanza”, 10.1.2000). Dopo di che, come ai bei tempi del “superdollaro” di Reagan, i capitali in giro per il mondo hanno preso a rifugiarsi negli USA tamponandone il passivo della bilancia commerciale con l’attivo della bilancia finanziaria. Il fatto è “in un’epoca d’incertezza, il capitale tende a ritornare alla sua fonte…. Come si dice, se Wall Street ha il raffreddore, il resto del mondo ha la polmonite… E quando Wall Street ha cominciato a starnutire, l’impulso a ritirare i capitali dalla periferia si è fatto irresistibile” (Soros, pp. 164-165). Attualmente, secondo un ultimo rapporto dell’Onu, “paesi come Usa, Svezia, Danimarca, Australia, Norvegia, Olanda e Belgio presentano una bilancia degli investimenti diretti esteri capovolta rispetto al passato, con i capitali esteri investiti in patria superiori a quelli investiti all’estero. In Usa addirittura sono 193 miliardi di dollari in entrata e 133 in uscita” (N. Cacace, L’incapacità di attrarre investimenti, in “La Repubblica. Affari & Finanza”, 13.12.1999). Ma le conseguenze sui paesi periferici? Sono state devastanti, perché questi si sono visti esaurire le disponibilità finanziarie e minacciata la stabilità delle proprie monete legate al dollaro. Come porvi rimedio? Nel rispetto della regoletta d’equilibrio di cui sopra, si sono date loro due possibilità: o ridurre l’importazione di capitali (che esportassero, ma senza richiamare capitali) oppure diminuire l’esportazione di merci (che attirassero capitali, ma senza esportare). Sono questi gli effetti delle “ricette” solitamente consigliate dal Fondo Monetario Internazionale: con la prima si prende atto che quei capitali se ne sono andati e si svaluta la moneta fino al livello ritenuto adeguato dal mercato; si continua perciò ad esportare, ma comunque i capitali stranieri se ne vanno. Con la seconda si aumentano i saggi d’interesse così da trattenere i capitali, ma si penalizza l’attività industriale e quindi si contraggono le esportazioni. Tutto questo nel maggiore interesse del centro, che riconfermerebbe la periferia nel ruolo subalterno assegnatole dal “grande gioco” imperialistico. Infatti come potrebbe mai svilupparsi se non arrivano capitali? E se arrivano, dovrebbe servirsene per fare importazioni e non per decollare industrialmente. Queste sono le regole del gioco. Che però non tutti accettano. Riflettendo sull’esperienza della Malesia e soprattutto della Cina, che sono arrivate ad essere meno colpite dalla crisi finanziaria per avere introdotto (la Malesia) o mantenuto (la Cina) dei vincoli alla libera circolazione dei capitali, Paul Krugman ne ha tratto il convincimento che sarebbe tutto interesse della periferia limitare in qualche misura quella libertà di movimento, “una sorta di coprifuoco alla fuga di capitali che facilita il ritorno alla calma” (p. 197), e che questo potrebbe far comodo pure al centro. Naturalmente “molti difensori del libero mercato reagiranno con orrore a questa idea: per loro investire il denaro dove vogliono è un sacrosanto diritto. Ma così come il diritto alla libera espressione non necessariamente include il diritto di gridare “Al fuoco!” in un teatro affollato, il principio del libero mercato non necessariamente comporta che gli investitori possano calpestarsi l’un l’altro in preda al panico. Perché questo è proprio quello che succede nel corso di una crisi… Il fatto è che quando la crisi minaccia di esplodere, sarebbe nell’interesse non solo del paese, ma degli stessi investitori, imporre controlli di emergenza sui capitali – come è nel bene di tutti se la popolazione di una città colpita dal terremoto ottiene il coprifuoco dal governo. Avere la certezza che, se necessario i controlli verranno imposti, potrebbero addirittura rassicurare, e non scoraggiare, gli investitori di lungo periodo” (p. 197). Insomma, non si dovrebbe più accettare che, nel nome della libertà di commercio, i capitali scorrazzino freneticamente per il mondo senza preoccuparsi delle conseguenze che provocano sulle economie che travolgono. E su questo principio perfino uno speculatore finanziario come Soros si dice d’accordo: “il sistema capitalistico globale si basa sulla convinzione che i mercati finanziari, lasciati a se stessi, tendano all’equilibrio. Si suppone che il loro movimento sia simile a quello del pendolo, e cioè che ogni volta che sembrano turbati da forze esterne tendano naturalmente a ritornare in posizione di equilibrio. Questa convinzione è falsa. I mercati finanziari sono inclini agli eccessi e se i boom e i crolli si susseguono oltre un certo livello, non tornano più al punto in cui erano. Ultimamente, anziché come un pendolo, i mercati finanziari si comportano piuttosto come una di quelle palle di acciaio usate per demolire gli edifici, abbattendo una economia dopo l’altra… Ora lasciare i mercati finanziari interni totalmente esposti ai capricci di quelli internazionali rischia di creare un’instabilità maggiore di quella che può sopportare un paese ormai dipendente dai capitali stranieri. Pertanto una qualche forma di controllo sui capitali può essere preferibile all’instabilità” (pp. 14 e 242). Il dilemma è quindi tra libertà o stabilità del sistema: “per dirla senza mezzi termini, siamo di fronte alla scelta se imporre una regolamentazione internazionale ai mercati finanziari globali o lasciare a ciascun paese il compito di proteggere i propri interessi come può” (Soros, p. 223). È a questa luce che si comprendono le discussioni in corso sulla riforma del criticatissimo Fondo Monetario Internazionale, le cui decisioni hanno sicuramente assecondato la crisi invece che sanarla, così come il dibattito sulla opportunità della così detta “Tobin tax”, un’imposta internazionale che dovrebbe disincentivare i movimenti speculativi di capitale a breve termine (cfr. A. C. Michalos, Un’imposta giusta: la Tobin tax, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999). A non far nulla si teme che alla prossima crisi finanziaria se ne vedano delle belle, o almeno Soros è così preoccupato al riguardo da scrivere che “se si lascia briglia sciolta alle forze di mercato anche soltanto nella sfera economica e finanziaria, queste produrranno il caos e alla fine condurranno al collasso il sistema capitalistico globale” (pp. 25-26).