“L’impero invisibile, note sul golpe americano”

Il libro che presentiamo ti servirà innanzitutto a smentire il tenace pregiudizio che intride la cultura europea e che tante sciagure e sconfitte ha procurato al nostro continente, e cioè la sistematica sottovalutazione della classe dirigente americana. Gli Stati uniti sono temuti per la loro immane forza e ricchezza, ma forza e ricchezza sembra siano cadute loro dal cielo, per cause naturali, per la sconfinata estensione del loro territorio, con le sue quasi inesauribili risorse. Però anche l’America latina è sterminata e ricca di materie prime e di pianure fertili, ma lì non ha mai preso forma un potere neanche lontanamente comparabile a quello statunitense. È vero che nella commedia classica i servi hanno sempre disprezzato i padroni, ma questa sottovalutazione è già costata ai tedeschi due disastrose sconfitte e ai russi, un dissanguamento quasi letale. La verità è che la ruling class americana ha dimostrato una straordinaria sagacia: non si dimentichi che il materiale umano di cui disponeva a fine Ottocento era costituito dai cafoni di tutta la terra. Come scrisse il futuro presidente Woodrow Wilson nella sua History of American People: “Arrivano moltitudini di uomini della classe più bassa, dal Sud dell’Italia, e uomini del genere più spregevole dall’Ungheria e dalla Polonia, uomini dalle cui file non traspare né qualificazione né energia, né iniziativa né intelligenza sveglia; e sono venuti in numeri crescenti anno dopo anno come se i paesi del Sud Europa si stessero sgravando dei loro più sordidi e sfortunati elementi. Perfino i cinesi sarebbero più desiderabili come lavoratori, se non come cittadini, della maggior parte di questa feccia che affolla i nostri porti orientali”. È con questa feccia che la classe dirigente americana ha costruito il più potente impero della storia umana. E se ci volgiamo all’indietro e ripercorriamo gli ultimi 180 anni, ci appare con brutale chiarezza la pianificata, metodica, cosciente costruzione dell’impero, dalla dottrina Monroe (1823) alla dichiarazione della manifest destiny (di fatale espansione) del 1845, fino all’ultima guerra in Iraq. Un passo alla volta, gli Usa hanno conquistato il Texas (1847), annesso tutti gli attuali Stati uniti, estromesso l’ultimo potere coloniale nel Nuovo mondo, la Spagna (1898), mettendo sotto protettorato Cuba e tutti i Caraibi (il “cortile di casa”); hanno conquistato le Filippine (1899-1902) e annesso le Hawaii (1900). Nei due conflitti mondiali hanno iniziato a combattere a guerra avanzata, ottenendo il logoramento degli altri belligeranti, così che per due volte hanno ottenuto risultati che non erano quelli dichiarati: con la Prima guerra mondiale, la Gran Bretagna ha perso il dominio del mondo e la sua flotta il controllo dei mari; con la seconda guerra mondiale, tutte le potenze europee hanno perso, subito o a termine, le loro colonie, volenti o nolenti (la Gran Bretagna lasciò l’India nel 1947, l’Olanda evacuò l’Indonesia nel 1949, la Francia abbandonò l’Indocina nel 1953 e l’Algeria nel 1962, e a metà degli anni Sessanta le “indipendenze africane” erano cosa fatta). […] Insomma è un secolo e mezzo che gli Usa tessono pazienti la trama dell’impero e sono decenni che occupano militarmente tutto il mondo. E hanno costruito non solo un potere, ma anche un’ immagine benevola di questo potere: il loro capolavoro ideologico è stato di oscurare la straordinaria coerenza del processo, tappa dopo tappa, e di riuscire a convincere il mondo – e anche i propri cittadini – di essere inciampati per caso, come controvoglia, in questo potere, costretti a malincuore dalle circostanze: “Mannaggia, ci tocca comandare!”. Ancora oggi l’americano medio non è cosciente né della natura, né della missione imperiale del suo paese. Persino le invasioni sono viste come azioni di difesa, o come retate di “polizia internazionale” contro “paesi criminali”: Saddam Hussein come un Al Capone a livello planetario, Fidel Castro come un John Gotti internazionale, Gheddafi novello Dillinger africano.
Se chiedi a un americano, ti dirà che sì, gli Usa sono il paese di gran lunga più potente e più ricco della terra, ma certo non un impero. Forse è un prodotto della “neolingua” di cui parla Orwell in 1984: ma certo è curioso che gli Stati uniti abbiano usato la formula “mondo libero” per indicare l’area a loro asservita e che denominando “alleati” quelli che sono in realtà sudditi e vassalli (per la verità, già i romani avevano fatto lo stesso con i foederati). Solo negli ultimi anni la classe dominante americana ha cominciato a gettare la maschera e a usare un linguaggio più franco. Ha cominciato Zbigniew Brzezinski, di cui assai opportunamente è riportato in questo volume un emblematico brano: “Tre sono i grandi obiettivi della geo-strategia imperiale: impedire collusioni e mantenere tra i vassalli la dipendenza in termini di sicurezza, garantire la protezione e l’arrendevolezza dei tributari e impedire ai barbari di stringere alleanze”.
Insomma, nel giro di poco più di un secolo gli Stati uniti sono diventati l’unica superpotenza imperiale che controlla tutto il pianeta (loro direbbero che controllano tutto il sistema solare), ma poiché la storia è di regola scritta dai vincitori, pochi si sono chiesti in che modo, con quali tecniche e quali strumenti, la classe dirigente americana abbia conseguito il dominio del mondo. Il libro che hai in mano ti permette di valutare uno di questi strumenti, che dimostra quanto sia infondato il pregiudizio sul dilettantismo dei dirigenti americani. Questo strumento è costituito dai cosiddetti think tank (i “serbatoi di pensiero”), e nelle prossime pagine potrai seguire la storia di alcuni di essi, a partire dal mitico Council on Foreign Relations (Cfr), da cui sono usciti, dal 1921 in poi, tutti i 14 segretari di Stato (cioè ministri degli Esteri) degli Usa, 7 presidenti, 14 segretari al Tesoro, 11 segretari alla Difesa. Troverai poi la storia di altri think tank, derivazioni per partenogenesi o per scissione del Cfr: il Committee on Present Danger, la Trilateral Commission e giù per li rami fino al Project for the New American Century fondato da William Kristol, direttore del “Weekly Standard”, e che include Richard Perle, Robert Kagan, l’editore di “New Republic” Martin Peretz e l’ex direttore della Central Intelligence Agency James Woolsey, cioè il gruppo di ideologi che esercita l’influenza determinante sull’attuale amministrazione repubblicana.
L’epopea di questi think tank mostra come non vi sia nulla di casuale nella costruzione dell’impero americano, e nulla di dilettantistico nei suoi architetti che vengono quasi tutti dalle università più prestigiose (Harvard, Chicago, Yale, Columbia), hanno studiato con grandi intellettuali, e hanno alle spalle un cursus honorum di tutto rispetto e ricoperto ripetute responsabilità di governo in ambiti disparati.
Costoro sono l’equivalente statunitense dei grand commis francesi: i presidenti passano, loro restano. Costituiscono perciò l’ossatura della classe dirigente americana. Sono i bramini, come vengono chiamati negli Usa. Ma se è così, emerge una serie di problemi che questo libro discute e su cui esprime tesi esse stesse soggette a discussione. L’individuazione del persistente (e per i più sprovveduti insospettato) potere di alcuni think tank porta all’idea di una ribalta della politica e di una politica dietro le quinte.
Portata all’estremo, quest’impostazione può condurre a una mitizzazione della “storia segreta”, a una visione dietrologica della storia. Noi assisteremmo solo alla messa in scena della lotta politica, a uso e consumo dell’ingenuo elettore, mentre la sostanza si svolgerebbe nel mistero delle segrete stanze: arcana imperi.
[…] Il potere di questi think tank non è per niente segreto: i loro membri passano da un consiglio di amministrazione all’altro, da una consulenza governativa a un incarico diplomatico o a una cattedra universitaria, in un circuito in cui ognuno prende il posto dell’altro. Si tratta perciò di un potere non segreto, ma informale. Il problema di questi think tank e altre simili associazioni è che non sono responsabili di fronte a nessuno, è un problema di accountability. Un po’ come le società di rating (Moody’s, Standard & Poor’s) che con i loro “voti” possono affondare un paese e distruggere milioni di vite umane, ma non devono risponderne a nessuno, perché appunto sono private. Il potere di Moody’s non è affatto segreto, è sotto gli occhi di tutti, ma è un potere irresponsabile. Nello stesso modo, il Project for the New American Century ha abbastanza potere da aver spinto Bush ad attaccare Baghdad, ma non deve rispondere a nessuna famiglia irachena per le morti che l’invasione Usa ha provocato, e se per questo neanche a nessuna famiglia americana per i boys uccisi da guerra e guerriglia.
[…] In realtà, sia i democratici sia i repubblicani mirano a fare degli Stati uniti un impero mondiale, ma con stili e con strumenti differenti. Storicamente i democratici sono più inclini ad affidarsi alle cinghie di trasmissione delle organizzazioni internazionali, come la Nato, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale. È stato chiamato soft power, ma non è niente affatto soft, come si è visto quando il segretario al Tesoro democratico Lawrence Summers (oggi rettore di Harvard) ha scatenato attraverso l’Fmi la crisi asiatica che ha gettato sul lastrico milioni di indonesiani, tailandesi e coreani. I repubblicani tendono a considerare invece queste organizzazioni come un limite alla loro libertà di manovra (anche se Bush il vecchio rispettò alla lettera il mandato dell’Onu nella guerra del Golfo del 1991). In realtà democratici e repubblicani sono due partiti imperialisti (o patriottici, a vederla dal loro punto di vista: vogliono ambedue la grandezza e la potenza degli Usa, ma soprattutto della loro classe dirigente).
Ma hanno due visioni assai diverse dell’impero, una – la repubblicana – più militare, l’altra – la democratica – più politica. Il presente volume sottolinea con forza la continuità dell’impostazione strategica oggi in vigore alla Casa bianca: non per nulla il documento della National Security Strategy (Nss) dell’estate 2002 – che fece gridare a una “svolta epocale” – non lo fu affatto. Anzi, in quel documento si ritrovano temi ed espressioni già presenti nella dottrina Truman. Soprattutto, questo documento riprende pari pari il National Defence Guidance for the 1994-1999 Fiscal Years presentato nel 1992 da Dick Cheney (allora segretario alla Difesa e oggi vicepresidente degli Stati uniti), e redatto insieme a Colin Powell (allora capo di stato maggiore dell’esercito, oggi segretario di stato) e Paul Wolfowitz (allora sottosegretario e oggi vicesegretario alla difesa).
Questo documento fu ripresentato con variazioni minime nel 1992, nel 1993 e l’anno scorso (un’analisi della straordinaria somiglianza di questi testi è stata condotta da David Armstrong su “Harper’s Magazine” dello scorso ottobre). Anche in quei documenti erano presenti i temi che caratterizzano la cosiddetta dottrina Bush, in particolare la volontà dichiarata di aumentare spese militari e forza bellica nonostante la fine della Guerra fredda, il mantenere di una schiacciante superiorità tecnologica, di marginare la Nato e l’Onu, di spingere l’unilateralismo e la dottrina dell’attacco preventivo (che, a sua volta, richiama il first strike, primo colpo, nucleare della Guerra fredda).
Ma allora come conciliare questa continuità con l’altra tesi sostenuta dal volume, e cioè di una forte discontinuità impressa dall’attuale amministrazione Bush alla politica imperiale americana, tanto da far usare ai suoi autori il termine “colpo di stato” con un esplicito riferimento al marxiano 18 Brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte? Non si può discutere quest’apparente contraddizione senza almeno un cenno al ruolo che l’Unione sovietica ha avuto nella storia e nella formazione politica degli Stati uniti. Come mi ha detto uno dei massimi specialisti francesi di studi strategici, Alain Joxe, “fin dal 1917, gli Stati uniti avevano avuto il vantaggio di avere un nemico designato. Si sono sempre identificati con l’avvenire del capitalismo, e di rimpetto l’Urss era vista come l’alfiere di un socialismo che li avrebbe abbattuti. Il risultato è che, per 75 anni su 220 – quasi tutta la loro storia industriale, da quando entrano apertamente nel sistema mondiale con la guerra 14-18 –, un terzo della loro storia totale è stato strutturato sull’esistenza di un nemico designato. E la sua scomparsa crea un turbamento profondo nella loro stessa identità. Ciò ha condotto a un’angoscia decennale che si è manifestata in una ricerca di nuovi concetti strategici”. E Chalmers Johnson si spinge ancora più in là: non tutti gli imperi sono uguali e quello americano è stato plasmato dal suo confronto con l’Urss. Per Johnson, una delle caratteristiche di questo progetto imperiale consiste nel proposito degli Stati uniti di piegare tutti gli altri paesi al proprio sistema sociale, alla propria organizzazione economica, alla bibbia del libero mercato.
Così facendo, gli Usa somministrano al mondo di oggi la stessa prescrizione che Stalin formulava in una conversazione con Tito nel 1945 e riportata dal suo braccio destro Milovan Djilas: “Questa guerra è diversa dalle altre. Chiunque occupa un territorio deve imporre il proprio sistema sociale. E ognuno imporrà il suo sistema sociale finché il suo esercito avrà il potere di farlo. Non può essere altrimenti”. E si moltiplicano le analogie tra le politiche dell’Urss durante la guerra fredda e l’attuale progetto imperiale americano: i blowback (o contraccolpi) che gli Usa dovranno fronteggiare somigliano a quelli che hanno portato al crollo l’Unione sovietica.
Johnson interpreta la crisi asiatica degli anni Novanta come il tentativo da parte degli Usa di piegare il capitalismo giapponese al modello americano. […]È pur vero però che in tutti gli anni trascorsi dal crollo dell’Urss, gli Stati uniti si sono sentiti orfani di un nemico esterno che funzionasse come fattore di coesione all’interno. Senza lo spauracchio dell’Urss, la lotta fra le frazioni della classe dominante americana e del suo capitalismo si è scatenata senza quartiere e senza esclusioni di colpi, cambiando di fatto la costituzione materiale, imbarbarendo la politica Usa a un livello inimmaginabile persino sotto Ronald Reagan. Lo testimoniano il tentativo di golpe costituzionale nei confronti di Bill Clinton, prendendo ad alibi una macchia di sperma su un vestito e la contestata – e contestabile – vittoria di George W. Bush nel 2000 (quando la presidenza gli è stata regalata dalla maggioranza conservatrice dei giudici della Corte suprema).
Questa vittoria ha portato al potere il gruppo dei neocon (che ironicamente in francese significa i “neo-stronzi”), discendenti diretti del Committee on the Present Danger che, come dice il nome, era un gruppo guerrafondaio che durante la Guerra fredda fomentava il militarismo Usa ingigantendo il pericolo rappresentato dall’Urss (ti ricorda qualcosa dell’oggi?). Insomma, nel 2000 nella stanza dei bottoni è rientrato – dopo dieci anni di digiuno – uno stuolo di residuati nostalgici della guerra fredda, che erano stati emarginati durante gli anni di Clinton (di notte i gatti sono tutti gatti, ma non tutti neri). I neocon volevano a ogni costo resuscitare il clima da guerra fredda, il problema è che non c’era più l’Urss. È interessante notare che nei primi otto mesi di presidenza effettiva, il gruppo dei neocon ha trovato grandi difficoltà ad attuare il proprio programma politico che era stato annunciato con estrema chiarezza (invasione all’Iraq compresa) durante la convenzione repubblicana di Filadelfia del 2000, cui ho assistito. Addirittura, nell’agosto del 2001, Donald Rumsfeld era sull’orlo delle dimissioni perché stava suscitando l’ammutinamento di tutto il personale in divisa del Pentagono. Il gruppo Rumsfeld-Cheney-Wolfowitz-Ashcroft stava fallendo quel colpo di stato permanente cui alludono gli autori di questo libro, non per mancanza di determinazione, ma a causa delle resistenze inattese che attendevano. È in questa situazione che l’11 settembre 2002 due grandi aerei passeggeri centrarono le Twin Towers del World Trade Center. Trovo ininteressante ogni dietrologia su quell’attentato. Quel che conta è che quei due aerei rappresentarono una manna dal cielo per l’amministrazione Bush, le consentirono di spazzare via ogni parvenza di legalità e di perseguire senza ostacoli il proprio programma politico annunciato a Filadelfia. Tra l’altro è diventata possibile l’invasione dell’Iraq. Finalmente si è potuto riesumare un Present Danger, non più l’Urss, ma al Qaeda (è indicativo che il vicepresidente Dick Cheney pronosticasse che la guerra al terrorismo sarebbe durata più di 30 anni, una guerra permanente).
In questo senso nine eleven funzionò per Bush in modo analogo all’incendio del Reichstag per Hitler, come dimostrò il liberticida Patriot Act approvato sull’onda emotiva e il successivo decreto presidenziale (executive order) che autorizzava i soldati americani ad arrestare chiunque ritenessero opportuno in qualunque paese, trasportarlo segretamente in una base militare Usa e farlo processare (magari a morte) da una corte marziale riunita in segreto.