L’Impero e il Re di Prussia

Le tesi di Toni Negri e Michael Hardt sono, come al solito, molto suggestive. Ma anche alla luce dei drammatici avvenimenti di New York e Washington, la chiave di lettura de l’Impero non risulta convincente, anzi, per molti aspetti appare superata dai fatti e della storia, che si è messa a correre più velocemente del previsto. È una dinamica che rende datate o fuorvianti molte elaborazioni oggi in circolazione. Il che ci presenta un serio rischio…quello di lavorare per il “Re di Prussia”.

Ne La crisi della modernità, lo studioso marxista David Harvey dedica un intero capitolo alla tendenza ad annullare la divaricazione tra spazio e tempo. Il tempo, come lo spazio, ha una sua importanza strategica sia nei progetti del capitale sia nella concezione della realtà che viviamo e delle sue dinamiche.
La premessa che Toni Negri e Michael Hardt fanno del loro libro Empire ne rappresenta, per paradosso, il punto di caduta. Il testo infatti è stato scritto tra due momenti storici di importanza decisiva nell’ultimo decennio: dopo la guerra del Golfo, ma prima della guerra contro la Jugoslavia.
In molte occasioni abbiamo definito la seconda uno spartiacque tra il prima e il dopo. Non sappiamo se Negri ed Hardt condividano con noi tale valutazione o le stesse valutazioni che abbiamo dato nel merito sulla guerra contro la Jugoslavia, ciò di cui siamo sicuri è che esse sono state assai diverse tra loro per quanto attiene ai rapporti tra i “potenti della terra” che compongono il G 8.
La guerra del Golfo può essere definita realisticamente come la “guerra dell’Impero”. Una gigantesca operazione militare di penetrazione e stabilizzazione dell’egemonia mondiale USA, che non aveva come unico obiettivo il Medio Oriente o i flussi strategici del petrolio. Quello che all’epoca potevamo ben definire il consiglio di amministrazione dell’Impero (i cinque membri del consiglio di sicurezza l’ONU) aveva legittimato non solo l’intervento militare contro l’Iraq ma aveva consacrato – dopo quarantacinque anni – la supremazia americana e il crollo di ogni ambizione internazionale dell’URSS.
Ma gli anni Novanta, cominciati con l’affermazione piena del Nuovo Ordine Mondiale a supremazia USA e con la dissoluzione dell’URSS, hanno anche messo in moto un lento ma inesorabile processo di “autonomizzazione” delle principali “province” dell’Impero e dei “regni barbarici” (per esempio: la Cina).
L’Europa alla fine del 1991 metteva in moto ciò che ha portato alla nascita dell’Unione Europea, di una nuova moneta internazionale – l’euro – e di una nuova e vastissima area economica sganciata dal dollaro. La Cina avviava un trend di crescita a due cifre che l’ha portata ad essere – dentro la grande crisi finanziaria asiatica del 1997 – l’unico punto di stabilizzazione di tutta l’area asiatica. La Russia, dopo gli anni del declino e dello stato/mafia guidato da Eltsin, ha cominciato a manifestare segnali di rafforzamento economico e militare e nuove ambizioni a svolgere un ruolo rilevante nelle relazioni internazionali.

Unità e competizione tra le grandi potenze

Nella recente guerra contro la Jugoslavia, gli Stati Uniti sono entrati in campo contro tutto questo e contro tutti e tre i soggetti in qualche modo competitori1. Lo hanno fatto portando, dopo quarantacinque anni, la guerra in Europa, costringendo i partner europei della NATO a partecipare alla guerra contro i propri stessi interessi strategici nell’area balcanica e nei mercati monetari (con l’euro sistematicamente sceso a picco nel confronto con il dollaro), umiliando nuovamente la Russia (che infatti defenestrò Eltsin troppo prono verso gli USA) e bombardando apertamente l’ambasciata cinese a Belgrado.
Gli Stati Uniti e i loro Alleati – attraverso la NATO – erano dallo stesso lato del fronte e si sono accaniti allo stesso modo contro la piccola Federazione Jugoslava (portano dunque le stesse responsabilità dei bombardamenti, dei massacri e delle contaminazioni all’uranio), ma era fin troppo evidente che i loro interessi strategici divergevano allora e continuano a divergere oggi.
I precedenti storici ci sono, e si collocano esattamente in quella Belle Epoque alla quale, in un altro articolo Alan Freeman, paragona la fase della globalizzazione in via di esaurimento. Nel 1900 infatti, tutte le potenze occidentali (esattamente le stesse del G 8 di oggi) parteciparono unite alla spedizione militare contro la Cina investita dalla rivolta dei Boxer, spartendosi alla fine le concessioni, i porti e le ferrovie cinesi e punendo in modo orribile un paese che si era “ribellato alla civiltà occidentale”. Quelle potenze, esattamente quelle stesse potenze che avevano combattuto unite contro la Cina, quattordici anni dopo si scannavano tra loro nelle trincee in Europa e nei domini coloniali in Africa e Medio Oriente.
Ma il primo conflitto mondiale – la prima vera guerra interimperialista – rivelò anche un altro aspetto: nei vari paesi coinvolti, le forze progressiste, i socialdemocratici etc. mano a mano smarrirono la loro storia e la loro ambizione a costruire l’Internazionale dei lavoratori e si schierarono a favore della guerra ed ognuno a favore del proprio governo. La storia non si ripete, ma è uno scenario che si è visto piuttosto nitidamente nei mesi dell’aggressione alla Jugoslavia in tutte le società dei paesi NATO impegnati nella guerra (dalla “dolorosa necessità” invocata da CGIL CISL UIL, alla colpevole neutralità di alcuni partiti comunisti europei).

La schematica suggestione de “L’Impero”

Questa premessa ci serve per mettere in controluce l’analisi di Negri e Hardt e rilevare che esse non collimano in molti punti decisivi. In Italia il libro non è ancora disponibile, ma la sue tesi di fondo sono state espresse mesi fa da Toni Negri su Le Monde Diplomatique2.
Negri, ad esempio, sostiene che “l’Impero non è americano come sostengono gli ultimi sciovinisti della nazionalità… è semplicemente capitalista, è l’ordine del capitale collettivo, cioè della forza che ha vinto la guerra civile del XX Secolo… All’Impero del ‘capitale collettivo’, partecipano altrettanto bene i capitalisti anglo-sassoni quanto quelli europei, quelli che cominciano a costruire le loro fortune nella corruzione russa, quanto arabi, asiatici e i pochi africani che possono mandare i figli ad Harvard e i soldi a Wall Street”.
Secondo Negri, quindi, il cosmopolitismo naturale dei capitalisti annulla le frontiere e i limiti nazionali e li ricompone dentro una comune identità “collettiva” degli interessi di classe. Questa affermazione è vera ma, come dimostra la storia, non è vera sempre. Nell’epoca della globalizzazione (ieri la Belle Epoque e oggi il mercato globale apertosi con la fine della rottura rappresentata dall’area dei paesi del COMECON), il capitale collettivo non riconosce nè apprezza i confini nazionali, le barriere doganali o gli ostacoli alla circolazione dei capitali e degli investimenti. Quando però la globalizzazione (o imperialismo) si mutua in competizione globale, ovvero quando il mercato mondiale diventa troppo ristretto per assicurare margini crescenti o sufficenti del saggio di profitto, oppure si rimanifesta il “demone” dello sviluppo disuguale anche nelle aree a capitalismo altamente sviluppato, è accaduto che i capitalisti collettivi abbiano riconquistato rapidamente la loro identità “nazionale” per strapparsi l’un l’altro – anche con la guerra – i mercati e le possibilità di valorizzazione dei loro capitali.

Dagli stati nazioni ai poli. Un salto di qualità sottovalutato

Negri, giustamente, afferma che gli “stati-nazione” (sul cui ruolo nell’imperialismo aveva lavorato Lenin) “sono stati assimilati dalla circolazione imperiale dei valori e dei poteri”. Ci sembra però che Negri sottovaluti una tendenza pure ben visibile sotto i nostri occhi: la centralizzazione dei vecchi stati-nazione in poli sovranazionali corrispondenti ai nuovi blocchi economici come l’Unione Europea e il NAFTA (e tendenzialmente l’AFTA esteso a tutta l’America Latina). Questo passaggio è qualitativo e strategico allo stesso tempo. Qualitativo perchè corrisponde a stabilire uno dei poteri fondanti dell’egemonia imperiale, ossia la moneta (euro versus dollaro).
Strategico perchè, ad esempio, l’Unione Europea ha dimostrato di voler recuperare assai rapidamente il gap di potere militare nei confronti degli Stati Uniti3.
L’Impero dunque potrebbe non avere più un unico centro nè una comune identità collettiva che trascenda dai limiti e dalle contraddizioni poste proprio dal mercato globale. Non c’è più un’unica moneta ed i “mercati aperti” si rivelano tali solo all’interno dei vari blocchi economici. Le stesse grandi multinazionali hanno dimostrato poi di avere la maggioranza del loro giro d’affari nei mercati interni – anche se allargati – di riferimento piuttosto che “in tutto il mondo”4. Ciò significa che per una multinazionale statunitense resta fondamentale il mercato regionale americano e per una europea resta fondamentale il mercato regionale europeo. È evidente che alla base di questo non ci sono motivazioni “nazionali” ,ma il semplice fatto che questi sono i mercati più ricchi.
Se osserviamo l’agenda bilaterale tra Stati Uniti ed Unione Europea, se guardiamo al fallimento del round della WTO a Seattle (vedremo come andrà quello nel Qatar), i fatti sembrano dare ragione a Eric Hobsbawn quando sostiene che la guerra commerciale tra le due sponde dell’Atlantico non è mai stata forte come in questa fase storica. Non vorremmo apparire schematici nè catastrofici, e per esser ben compresi diciamo che i terreni di cooperazione e quelli di competizione tra il polo europeo e quello americano conoscono momenti di fortissimo rimescolamento rispetto al passato. Se è vera questa tesi, quella di Negri è da rivedere.

Il topos europeo contro il modello americano. Un gioco a perdere

C’infine un altro aspetto che, non riducendo affatto l’attenzione e l’interesse, riduce però la benevolenza con cui guardiamo alle tesi di Toni Negri.
In un articolo pubblicato nove mesi fa sul Manifesto, Negri sostiene la tesi secondo cui “chi ha maggiore interesse affinchè si costituisca l’Europa politica è il proletariato”. Al contrario “chi ha interesse a che l’Europa non si costituisca è il potere imperiale USA”. Secondo Negri, il proletariato europeo è composto da due strati fondamentali: il proletariato tradizionale, ovvero operai e lavoratori salariati tradizionali e gli operai sociali, ovvero la forza lavoro immateriale, altamente qualificata dal punto di vista tecnologico che è venuta formandosi nell’ultimo ventennio. Il primo strato (il proletariato tradizionale) “tenderebbe al nazionalismo e alla difesa del posto fisso”, il secondo (l’operaio sociale) tenderebbe “al cosmpolitismo e alla mobilità”. L’unico terreno su cui sarebbe possibile ricomporre l’unità del fronte proletario sarebbe l’Europa, “il nuovo topos di unificazione del proletariato”5.
Su almeno due questioni ci assumiamo la responsabilità di incalzare le analisi di Negri. In primo luogo, l’idea che il proletariato tradizionale sia contro l’Europa appare piuttosto schematica, nel senso che le sensazioni prendono il sopravvento sui dati reali. Il questionario che stiamo realizzando tra i lavoratori in tutta Italia, rivela che anche la stragrande maggioranza degli “operai” vede positivamente l’unificazione europea, nè più nè meno di quanto la valutino i “nuovi lavoratori”6. Il problema nasce semmai quando si chiede ai lavoratori il loro punto di vista sulle misure concrete con le quali questa Europa viene costruita (per esempio: il Trattato di Maastricht), ed è qui che la condizione reale porta ovviamente (e giustamente) ad esprimersi negativamente. Porre la questione dell’Europa senza sostanziarne la natura e le priorità di interessi di classe sui quali viene costruita significa omettere un dato decisivo.
Il problema semmai è come ricomporre il fronte sociale proletario, individuando gli elementi unificanti dei vari segmenti del proletariato moderno ma in antitesi a quelli dominanti. A questo, pensiamo, serve l’inchiesta che stiamo concludendo.
Il mito dell’Europa argomentato da Negri nasconde però un altro “non detto”, assai comune anche tra gli intellettuali europei che fiancheggiano o animano i movimenti anti-globalizzazione. Il nemico da battere non è solo l’Impero americano ma anche le ambizioni a diventarlo da parte delle classi dominanti europee. In tal senso l’Unione Europea non può essere l’orizzonte alternativo dentro cui far convergere interessi antagonisti tra loro. Sconfiggere il nazi-fascismo per far vincere Churchill e Truman non era l’orizzonte dentro cui migliaia di europei a Est e Ovest si sono battuti nella resistenza. Ritenere che l’attuale modello europeo possa rappresentare una alternativa di civiltà o di sistema al modello americano, è una illusione che i fatti di questo decennio si sono incaricati di smentire. Sarebbe letale se per abbattere l’Impero ci trovassimo a lavorare per rendere forte il Re di Prussia. Lo spettacolo che ci stanno offrendo, dopo gli attentati di New York e dentro la crisi economica che sta investendo tutta l’area a capitalismo avanzato, conferma che nè l’uno nè l’altro hanno le motivazioni materiali ed etiche per portare l’umanità fuori dall’abisso in cui la stanno precipitando.

Note

1 È illuminante, per comprendere questa strategia, il libro di Zbignew Brzezinski La Grande Scacchiera, un libro del 1997, pubblicato in Italia nel 1998.

2 Toni Negri: L”Impero, stadio supremo dell’imperialismo” in Le Monde Diplomatique, dicembre 2000

3 Dai mesi immediatamente successivi alla guerra contro la Jugoslavia, l’escalation impressa dall’Unione Europea alla politica militare e alla concentrazione delle industrie belliche, tecnologiche, aereospaziali, è stata impressionante. Su Contropiano abbiamo documentato ampiamente tale processo.

4 Su questo segnaliamo il libro di Hirst e Thompson La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti e le tabelle che abbiamo pubblicato su Contropiano in diversi articoli.

5 T. Negri: “Europa, l’oggetto sconosciuto”, il Manifesto del 15 dicembre 2000

6 Per documentare questi dati, sono estremamente indicativi le pre-inchieste che abbiamo realizzato tra i lavoratori della Fiat Comau, della Fiat Cassino e tra i tecnici informatici della EDS, quindi sia tra la classe operaia tradizionale che tra i nuovi lavoratori. Sui numeri precedenti di Contropiano abbiamo pubblicato i risultati delle inchieste che rivelano una chiara maggioranza a favore dell’unificazione europea ma una altrettanta maggioranza che dà un giudizio negativo sugli effetti del Trattato di Maastricht.