L’Impero delle meraviglie (un po’ reali, un po’ fantastiche)

‘Impero’ è il nome con cui Antonio Negri e Michael Hardt compendiano la descrizione dei dispositivi di potere che a loro giudizio reggono e strutturano l’odierno ordine capitalistico, dopo la trasformazione postfordista, la piega “immateriale” dei suoi assetti produttivi e, più in generale, a seguito del deperimento dell’universo storico-simbolico della “modernità”. Si tratta di “un concetto”, precisano gli autori: come per giustificare l’inevitabile margine di convenzionalità nella selezione di un materiale vasto e multidimensionale. Tuttavia l’impressione è che, lungo le 500 pagine dell’edizione francese del testo cui qui si fa riferimento (1), il paradigma imperiale – pur portando sulla scena elementi peculiari della realtà contemporanea – non assicuri solidità all’impianto analitico, finendo per funzionare più come schema semplificante, termine segnaletico e sufficientemente dotato di carica seduttiva (notava Charles S. Peirce che di una parola o di un’idea ci si può innamorare), che non come vero e proprio modello esplicativo. Nel sintetizzare così quello che è da considerarsi un significativo approdo dell’itinerario tardo-operaista non si intende alludere a limiti formali, di costruzione del testo; piuttosto si vuole innanzitutto menzionare il prodursi di uno spostamento tematico che progressivamente fa slittare il cuore dell’indagine dall’analisi determinata di una formazione sociale e, all’interno di questa, dei processi di valorizzazione del modo di produzione capitalistico alla descrizione “genealogica” delle diverse forme della “sovranità” occidentale e ad una contestuale metafisica della soggettività e dei suoi affetti. In definitiva: ben oltre il materialismo storico di Marx, verso una lettura decostruente ed irrazionalistica di Nietzsche (già rigogliosamente fiorita Oltralpe, nei decenni trascorsi).

Oltre Marx, verso Nietzsche.
La “transvalutazione dei valori” inaugurata da Nietzsche occupa in effetti un posto privilegiato nel quadro concettuale che fa da sfondo al ragionamento di Negri/Hardt. Nell’economia delle nostre rapide note, vale comunque la pena di richiamare a grandi linee un elemento essenziale della visione antropologica di questo complesso e problematico filosofo tedesco, impegnato a “smascherare” i valori che hanno presieduto allo sviluppo della civiltà occidentale, a ricondurre l’ideale – che egli intende fittizio – delle grandi narrazioni e rappresentazioni collettive (ivi comprese quelle di matrice socialista) all’immediatezza delle necessità psicologiche e biologico-istintuali. Non è un caso che in Nietzsche – ma, a ben vedere, anche in Negri/Hardt – sia posta alla base del costituirsi e dell’affermarsi di valori una nozione non ulteriormente riducibile: la nozione di “vita”. Il “vitale” è “istinto di crescita, di durata, teso ad un’accumulazione di forze, alla potenza” (2). Tale dinamismo, o tendenza al “signoreggiare”, al “sormontare”, non solo caratterizza tutto il mondo organico; ma, a dispetto di qualsiasi “costruzione finalistica”, è alla base di ogni comportamento umano, nonché di ogni istituzione sociale e produzione simbolica. La vita – e la volontà di potenza che di essa è emanazione – sono la risorsa profonda di ogni nostra azione, la realtà più o meno inconfessabile sottostante ai valori della nostra cultura: va considerato che, secondo Nietzsche, non solo l’ascetismo religioso, ma anche gli obblighi morali, i vincoli posti dalle istituzioni e dalla convivenza sociale – in una parola, tutto ciò che è “incivilimento” – hanno degradato l’animale-uomo, lungi dal nobilitarlo; hanno finito per narcotizzare la sua baldanza originaria e, con questa, il coraggio di guardare al mondo reale (che, si badi, in questo contesto è sostanzialmente casualità e istinto), insinuando una “codarda” speranza di trascendenza. Tali virtuose propensioni sono viste come il prodotto distorto, “malato” degli istinti di reazione nei confronti di tutto ciò che è potente e nobile. Gli stessi sentimenti che ad esse si ispirano (bontà, altruismo, senso della giustizia ecc.) vengono ricondotti all’ambiguità della loro origine istintuale. In questo modo si perviene al capovolgimento, allo smascheramento delle “verità” della coscienza interiorizzata, al disvelamento dell’origine pulsionale e violenta dei valori (religiosi, morali, sociali e finanche teoretico-scientifici): dissolto il prestigio, l’alone di assoluto di cui questi sono stati circondati, restano le necessità vitali degli esseri umani e, insieme, la casualità del loro esser così, “al di là del bene e del male” (se il mondo non è altro che rapporti di cause ed effetti e se l’uomo è fondamentalmente istinto, non vi è allora posto per la “coscienza” con le sue “responsabilità”, per il “soggetto” morale con il suo “libero arbitrio”, per le mediazioni della ragione e le sue progettualità) (3).
Insieme al motivo della valorizzazione del “vitale”, conviene anche tenere a mente – in connessione con la nozione di “genealogia” – la metafora organicista di un complesso di correnti istintuali, di forze e contro-forze, attraverso cui, nel contesto dell’ispirazione nietzscheana, viene ricostruita la dinamica, il succedersi conflittuale di istituzioni e valori: di fatto, a tale dinamica è ricondotta (o, per meglio dire, ridotta) la dimensione storico-sociale. L’indagine genealogica mira a riprodurre il costituirsi, l’estinguersi, lo scontro di apparati e regimi di dominio, fornendo in definitiva qualcosa di simile al rilievo topografico di una battaglia: in quest’immagine sono condensati il metodo e l’oggetto della “microfisica del potere” esplorata da Michel Foucault, uno degli autori più citati di Impero. Anche nella prospettiva di questo autore non si ricerca alcun senso della storia, non si vuol rintracciare alcuna finalità interna al corso degli eventi, alcuna direzione progressiva: semplicemente, si descrive il gioco casuale delle dominazioni, l’emergenza di contrasti tra forme di potere. Dietro gli avvenimenti che si susseguono sulla scena genealogica non vi è alcun disegno provvidenziale o causa finale, ma neanche alcuna destinazione intenzionalmente perseguita, alcun progetto umano: la storia è dispersione di avvenimenti, segnalati nel loro proliferare, nella loro accidentale esteriorità. In particolare, la storia non è “dialettica”, sviluppo comprensibile e orientato secondo una sua verità interna: è superfluo notare che qui la polemica nei confronti della dialettica – motivo che torna ossessivamente in Negri/Hardt – ha di mira eminentemente la concezione marxiana (oltre che, ovviamente, hegeliana) della storia.

Un potere senza luogo e senza centro..
Entro questo quadro metodico, prende forma l’analisi foucaultiana del “regime disciplinare”, ripresa senza sostanziali modifiche da Negri/Hardt per focalizzare i caratteri salienti del dispositivo di potere pre-imperiale. I dispositivi di potere che progressivamente si assestano con lo sviluppo delle istituzioni borghesi e, in particolare, a partire dal XIX° secolo non si impongono “dall’alto”, come dall’autorità e dall’imperio di un monarca: non reprimono, quanto piuttosto plasmano la soggettività e, in tal modo, sostengono la coesione sociale. I meccanismi di sanzione, le penalità correttive agiscono “sul corpo, sul tempo, sui gesti, sull’anima in quanto sede di abitudini” (4). E’ così che l’ “inquadramento disciplinare” opera nelle fabbriche, nelle carceri, negli eserciti, nei collegi, nelle scuole, negli ospedali psichiatrici: “tecniche modeste e minuziose”, “piccole astuzie”, “disposizioni insinuanti”, “precauzioni” e “tattiche” (5) – la disciplina opera “nel dettaglio” delle menti e dei corpi. Non, dunque, semplicemente una legge che prescrive o nega (secondo una concezione meramente “giuridica” del potere), ma un potere produttivo (di piacere, di discorsi, di verità), che si articola “dal basso” e struttura capillarmente i diversi ambiti sociali (lavoro, sessualità, famiglia, saperi, tecniche). Come si vede, si sta qui trattando di regimi disciplinari che sono individuati in ambiti tra loro non omogenei e che, in ogni caso, non sono specificatamente riconducibili ai processi di produzione e riproduzione della ricchezza di una determinata compagine sociale – quella capitalistica – strutturalmente segnata da quella particolare forma di dominio che è lo sfruttamento. In questione non è un’analisi di forme di potere, in quanto analiticamente – seppure non immediatamente – connesse con la contraddizione di classe (il rapporto di sfruttamento e i suoi intrinseci limiti storici): piuttosto si tratta della descrizione di dispositivi di segregazione, di inclusione/esclusione in riferimento ad una “norma” (incaricata appunto di definire ciò che è socialmente ritenuto “normale” e ciò che non lo è).
Con il dispositivo imperiale del “controllo” si accede ad una “nuova forma di sovranità” che modifica ma anche affina il precedente regime disciplinare, interiorizzando ancor più la presa che ha il potere sulla natura umana, rendendolo più compiutamente immanente all’essere sociale, costituendolo in “biopotere” (categoria alquanto vaga, con cui si allude ad un’immediata e reciproca implicazione di potere e vita e attraverso cui si rende obsoleta la classica distinzione tra “struttura” e “sovrastruttura”). Nel mondo postmoderno, di cui l’Impero è il nuovo impersonale dominus, il controllo tende ad esercitarsi al di là dei luoghi “moderni” dell’irregimentazione disciplinare sopra menzionati. L’Impero non sopporta barriere, frontiere fisse, separazioni nette: laddove la sovranità moderna era tipicamente binaria e oppositiva (Governante/Governato, Io/Altro, Interno/Esterno, Centro/Periferia), nel panorama imperiale le opposizioni si attenuano, predominano “formazioni ibride” e “flussi deterritorializzanti”. Tutto è “circolazione, mobilità, diversità, melange (…) differenze (di merci, popolazioni, culture)”(II 4, p.195). Questa generale temperie apre delle crepe nei muri che nel ‘900 hanno protetto e separato gli ambiti istituzionalmente deputati all’esercizio della disciplina: i dispositivi si fanno meno rigidi, le soggettività costituiscono le loro identità mobili dentro e fuori la fabbrica, dentro e fuori la scuola ecc. Il controllo produce direttamente e diffusamente l’essere sociale, regolamentando da un “non-luogo” che è ad un tempo interno ed esterno e che coincide ormai con una planetaria “fabbrica sociale” (II 6, p.246): “Non c’è un luogo del potere: esso è dappertutto e da nessuna parte” (II 6, p.239). Di fatto, lungi dal confermare tale configurazione sfuggente e ondivaga, i ragazzi no-global e i metalmeccanici di Genova hanno dovuto vedere concretamente cosa sia la centralizzazione e perfino il coordinamento sopranazionale del potere. Ma che importa: qui l’ispirazione metaforizzante di Negri/Hardt rompe gli argini, abbandona Foucault per attingere alla variopinta letteratura postmoderna (Jameson, Lyotard, Baudrillard), alla vena decostruente e differenzialista di Derrida, a quella desiderante di Deleuze e Guattari. Per la verità, Negri/Hardt sono consapevoli del carattere largamente apologetico della narrazione postmodernista, del fatto che essa coincida per molti versi con le strategie spregiudicate del mercato capitalistico: shopping permanente, celebrazione feticista di beni e immagini mercificate, organizzazioni flessibili e capaci di gestire le differenze (“I guru dell’odierna cultura d’impresa sanno apprezzare la redditizia efficacia della diversità e del multiculturalismo” II 4, p.198) (6). Anche per loro è dunque evidente che le delizie della deterritorializzazione e della mobilità permanente possono certamente soddisfare il gusto estetizzante delle élites newyorkesi del Greenwich Village, ma assai meno attenuare la disperazione di milioni di migranti e proletari precarizzati.
Nonostante ciò, il “deserto” imperiale postmoderno – metafora dell’odierno mondo globalizzato – non cessa di affascinare i nostri due autori.

Crisi della trascendenza: il tramonto dell’imperialismo e degli stati-nazione.
Tale ambigua disposizione rinvia innanzitutto ad un’interpretazione generale (e, invero, quanto mai schematica) della storia moderna del pensiero occidentale, che possiamo sintetizzare nei termini dell’individuazione di un conflitto, ad un tempo politico e metafisico, che contrappone l’Ordine al Desiderio, la Trascendenza all’Immanenza, l’Autorità gerarchica alla Moltitudine, la Sintesi e la Mediazione pacificatrice all’Immediatezza della rivolta, Descartes-Kant-Hegel a Machiavelli-Spinoza-Marx. Con le suddette opposizioni Negri/Hardt intendono caratterizzare il corso dualistico della Modernità: questa è così ricostruita come storia della sovranità e dei suoi dispositivi di dominio, imposti anche attraverso la loro trasposizione simbolica in un sapere della “mediazione” e della rappresentanza (istanze senz’altro ridotte a potenze coercitive) al fine di comprimere i soggetti sociali e la loro vitalità, la loro libertà, le loro propensioni naturali ed immediate, la loro ansia di “democrazia assoluta” e di “organizzazione autonoma e spontanea” (II 1, p.117). Non è tuttavia l’Impero ad incarnare eminentemente quella che è stata “la tragedia della modernità”, bensì la forma dello Stato-nazione e, segnatamente, le identità statuali della vecchia Europa: ad esse è ascritta in modo peculiare la responsabilità di genocidi, guerre imperialiste, campi di sterminio. Con la loro nascita si consolida lo spirito aggressivo dell’eurocentrismo, del colonialismo, del razzismo: sulla scia della riflessione di autori come Etienne Balibar (7), sono posti in stretta connessione i concetti di ‘nazione’, ‘razza’ e ‘popolo’, collegati ad una medesima intenzionalità identitaria che si costituisce in opposizione ad un Altro da sé (straniero, non-europeo, non-bianco ecc.). Tuttavia, giudizi non privi di elementi condivisibili risultano ancora una volta dispersi in un generico quadro analitico, stravolti da una foga generalizzante che in definitiva fa precipitare nel medesimo abisso degli orrori “moderni” Auschwitz e Buchenwald (apogeo della sovranità nazionale), il nazionalismo sovietico (“la mitologia” regressiva di Stalin), la “volontà generale” di Jean Jacques Rousseau (contenente in sé il germe del totalitarismo in quanto astrazione separata da quella molteplicità di individui che è la “moltitudine”) e la sua erede più diretta, la Rivoluzione francese (cui spetta la primogenitura nell’invenzione del concetto di ‘popolo’, indicato quale nefasto prodotto ideologico dell’intreccio tra sovranità, nazione e borghesia) (cfr. II 2). Né si salva da questo naufragio “moderno” l’autodeterminazione dei popoli. Alle lotte anticoloniali e di liberazione nazionale si concede beninteso un iniziale carattere progressivo (identificabile nella difesa dalle mire imperialiste di nazioni più potenti): ma questo è fatalmente destinato a rovesciarsi in oppressione, corroso dal medesimo tarlo statuale e nazionalista. India, Algeria, Cuba, Vietnam, Black Panthers, Palestina – tutti accomunati nel medesimo fallimento: “Lo stato è il regalo avvelenato della liberazione nazionale” (II 3, p.175). Dunque, accanto agli stati, in ultima analisi non vengono risparmiati gli artefici dei processi di decolonizzazione in quanto traditi dall’illusione statalista e, oltre a questi, i partiti della sinistra europea segnati dal marchio d’infamia delle “politiche nazionali”. Seguendo il filo della requisitoria di Negri/Hardt, occorre ricordare che forma dello stato-nazione e modello “disciplinare” concorrono a formare una medesima compagine epocale: in tale contesto, le differenze tra Est e Ovest sfumano per fare posto alla sottolineatura della diffusione di un unico regime repressivo. La diffusione del modello disciplinare concerne l’Occidente capitalistico come i paesi del socialismo reale (del resto, l’organizzazione fordista e taylorista non suscitava l’ammirazione di Lenin e l’attenzione “ambigua” di Gramsci?). Non sorprende che, con simili premesse, il ruolo avuto dalla guerra fredda sia giudicato “secondario” rispetto al fatto saliente dell’estensione di un unico funesto modello inglobante sic et simpliciter la bipolarità Usa/Urss (III 2, pp.307-8). Ma le conquiste operaie, l’avanzata democratica dei comunisti, la sconfitta di Hitler e i milioni di morti sovietici, le tutele dello stato sociale, il progressivo allungamento della speranza di vita delle popolazioni di interi continenti – dov’è tutto questo? A quanto pare, se in tutto ciò qualcosa vi è stato, non è però ascritto a merito delle forze della sinistra europea e dei comunisti. Stato-nazione e regime disciplinare sembrano essere il vero e principale nemico di Negri/Hardt; tutto il resto è per l’appunto “secondario”.
Per contrasto con tale furia liquidatrice, si può meglio comprendere l’atteggiamento ambivalente tenuto invece da Negri/Hardt nei confronti dell’universo imperiale. Intanto gli stati-nazione e il principio di sovranità in essi concretizzato sono in una piena e irreversibile fase di declino: e questo, per i nostri autori, è già di per sé un bene. Nessuna nostalgia per le vecchie strutture di potere: “L’Impero è meglio”, è senz’altro un decisivo passo liberatorio (I 3, p.73). Non sono certo svaniti i dispositivi di dominio; tuttavia, si è prodotto un essenziale “cambio di paradigma”. Come si è detto, l’Impero consiste di un apparato decentralizzato e deterritorializzato, dove le gerarchie si destrutturano e le frontiere si aprono. Tutto si mescola: le periferie del mondo invadono le zone centrali e viceversa; c’è contaminazione di culture e “l’ibridazione ha il potere di distruggere la gerarchia” (II 4, p.189). Le autorità sopranazionali tendono a inglobare la sovranità “domestica” dello stato nazionale, azzerando l’”utopia” (sic!) della pianificazione statuale e l’idea di uno spazio autonomo della politica a quella connesso (III 5, p.376). In un tale contesto mobile, l’”instabilità” (e la “crisi”) diviene la norma. La “globalità sistemica” usa la forza, ma nel contempo assume come valori di riferimento la pace, l’equilibrio, la gestione pragmatica delle differenze e dei conflitti. Ci sarebbe subito da chiedere a Negri/Hardt fino a che punto sia utile e lecito utilizzare in sede analitica un’autorappresentazione ideologica, se si vuole davvero rendere conto di tratti della realtà effettiva. In ogni caso, essi individuano qui uno dei sintomi emblematici della mutazione in corso: la guerra imperiale si caratterizza per definizione come “guerra giusta”, legittimata dal diritto sovranazionale di intervento in una situazione di permanente eccezionalità. In un contesto siffatto, non vi sono conflitti “centrali”, ma “azioni di polizia”: “L’Impero appare sotto la forma di una macchina (…) costruita per controllare l’evento marginale” (I 2, p.67). Né vi è più “imperialismo”, territori da conquistare, interessi geopolitici e fonti energetiche da difendere: superata l’epoca dell’espansionismo degli stati-nazione, con il suo lascito di “conquiste, saccheggi, genocidi, colonizzazioni, schiavismi”, si è aperta quella di una sovranità sopranazionale e impersonale che ha un progetto espansivo ma insieme “aperto”, che non distrugge ma “integra”, non annette né esclude ma “include”. Per quanto si stenti a crederlo – e meno che mai lo crederebbero iracheni, sudanesi, jugoslavi, afgani ecc. – tutto ciò è detto a più riprese nel testo (ad esempio, nella Prefazione, p.15 sgg.; in I 1, p.26 sgg.; in II 5, p.210 sgg.).
Nella nostra testa di lettori desolatamente privi di fantasia, un interrogativo – su tutti – si fa largo prepotentemente: in questo territorio illimitato e senza un centro del potere, privo di alcuna preponderante progettualità statuale e imperialista, che fine hanno fatto gli Stati Uniti d’America? Qui il testo – nonostante i suoi ‘se’ e i suoi ‘ma’, il suo dire di tutto e del suo contrario – finisce inesorabilmente per incappare nella più flagrante delle contraddizioni. In effetti, la retorica dell’ “assenza di centro” può forse catturare l’assenso di qualche intellettuale “decostruente”, interessato più al linguaggio che alle cose, ma ha il difetto di incontrare la clamorosa falsificazione della realtà fattuale. Dal punto di vista del potere, segnatamente di quello militare, mai come oggi assistiamo ad una poderosa imposizione delle decisioni su scala planetaria (al punto da far pensare – del tutto erroneamente – che si siano definitivamente estinte le contraddizioni interimperialistiche). Mai come nella realtà post-1989 il mondo – i suoi centri e le sue periferie – è stato sottoposto allo strapotere delle armi di un’unica e ben identificabile superpotenza, alle ferree necessità dei suoi interessi strategici, all’imposizione delle esigenze della sua economia e della sua Way of Life. E’ per certi versi, sorprendente che si sia deciso in un modo o nell’altro di procedere nell’argomentazione, sostenendo e cercando di contenere l’incoerenza. Sorprende meno, invece, scoprire che il non-luogo del “sogno americano” rappresenti per Negri/Hardt la vera positiva “rottura nella genealogia della sovranità moderna” (II 5, p.206). Come già Alexis de Tocqueville e più recentemente Hannah Arendt, essi celebrano la democrazia americana, i suoi “pesi e contrappesi”, la sua Costituzione come la culla dell’“invenzione della politica moderna”, il terreno fondativo della “libertà”, della “nuova frontiera”, dell’ “apertura” e dell’ “esodo”, dei “valori affermativi e non dialettici” (IV 3, p.459). Anche qui: bisognerebbe chiedere agli indiani d’America cosa pensino della “nuova frontiera”; a vietnamiti e cileni se abbiano colto il pregio di una politica dell’ “apertura”; e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma inutilmente. In tutta evidenza, la vitalità della giovane America scalda il cuore dei nostri due autori, in opposizione alla statualità burocratica e alle gerarchie della vecchia Europa. Non però in quanto terra d’elezione, approdo definitivo: non vi è infatti luogo geografico che possa costituire un riparo risolutivo dai rigori del deserto imperiale. L’unico vero rifugio è lo “spostamento ontologico del soggetto” (IV 2, p.463) o, in termini nietzscheani, la transvalutazione dei suoi valori.

La smaterializzazione dello sfruttamento.
Sin qui abbiamo sorvolato su uno dei cardini dell’argomentazione di Negri/Hardt – il passaggio all’organizzazione produttiva post-fordista, con la sua essenziale valenza “immateriale” e la sua dimensione diffusa di “fabbrica sociale” – in parte perché questo aspetto è già oggetto di indagine dettagliata (8); ma anche perché abbiamo inteso seguire lo stesso sviluppo espositivo del testo. Del resto, Impero non mi pare aggiunga elementi significativi e originali rispetto a quanto, su tale tematica, hanno già detto lo stesso Negri ed autori che condividono la sua stessa ispirazione, quali Paolo Virno, Christian Marazzi, Maurizio Lazzarato (9). Ancora una volta, dobbiamo rilevare nella trattazione negriana – e, in generale, tardo-operaista – l’attivarsi di una perversa procedura che, nel momento stesso in cui registra mutamenti caratteristici del contesto contemporaneo, ne potenzia e assolutizza la portata, riconducendoli ad una visione d’insieme del tutto mitica e apologetica. In questo caso, la fonte ispiratrice è la letteratura sociologica degli anni ’80, ottimistica e futurologica, che celebra la “società postindustriale” e le virtù delle nuove tecnologie (su tutte, l’informatica). Se per alcuni la terziarizzazione, la ristrutturazione dei processi produttivi, la scomposizione ed espulsione di mano d’opera sono diventati ipso facto “la fine del lavoro” (10), per Negri e i suoi compagni di strada tali fenomeni sono il segno dello “smaterializzarsi” della creazione di valore, del suo diffondersi oltre i luoghi della produzione propriamente detta fino ad investire la società nel suo complesso e a coincidere con la “produzione sociale” in generale: nel primo caso, il lavoro (e, con esso, lo sfruttamento nei luoghi della produzione) si estingue; nel secondo caso, per così dire evapora. Marx è, in questo modo, ridotto al pluricitato frammento sulle macchine dei Grundrisse (11), a partire dal quale ci si ritiene autorizzati – indebitamente – a trasferire in via definitiva la funzione produttiva di valore e ricchezza dal lavoro (inteso come erogazione di forza-lavoro) al “general intellect” e, dunque, alla generale potenza sociale della scienza, della comunicazione e del linguaggio.
Impero riprende (e, se possibile, accentua metaforizzando) tale concezione. I rapporti sociali investono (e tendono a identificarsi con) i rapporti di produzione. Conseguentemente “lo sfruttamento non può più essere né localizzato né quantificato” (Intermezzo, p.262); esso non ha più per oggetto attività specificamente produttive, ma “la capacità universale di produzione, cioè l’attività sociale astratta”, “un’attività senza luogo”, ovvero “l’energia intellettuale e la costruzione linguistica e comunicatrice delle moltitudini dei lavoratori intellettuali e degli affetti” (ivi). Il non-luogo dei rapporti postmoderni di produzione è occupato così dall’ “universale creatività umana, sintesi di libertà, desiderio e lavoro vivente”(Intermezzo, p.263). La “rete” è più democratica della catena di montaggio: in effetti, in tale contesto, decisivo è lo straripante ruolo fatto giocare a linguaggio, informazione e affetti. In quanto fulcro dell’ “interattività immateriale e cooperatrice”, essi funzionano, ad un tempo, come sito della produzione, spazio virtuale della circolazione e bene prodotto; contribuiscono altresì a rendere obsoleta la nozione di “capitale variabile” (non più risorsa umana resa produttiva a mezzo del capitale costante, ma divenuta indistinguibile da questo stesso capitale costante); fanno coincidere forze produttive e rapporti di produzione, produzione e riproduzione (IV 2, pp.463-4). Se la valorizzazione postmoderna coincide con una generica intelligenza sociale e comunicativa, espressione della “capacità produttrice di vita” della moltitudine errante, come tale essa eccede la circoscritta attività lavorativa (le ore spese nel posto di lavoro) e dunque è, per definizione, “fuori misura”: in questo senso, la “teoria del valore” (che è teoria della misura del valore) non ha più ragion d’essere (IV 1, p.429). Non si tratta, per Negri/Hardt, di un rilievo meramente tecnico, bensì dell’ulteriore conferma che il nuovo paradigma abbandona l’ordine trascendentale della sovranità moderna e, anche attraverso l’inibizione dei criteri di misura, premia la non misurabile creatività dei soggetti, la forza d’emancipazione della “comunità”. Al punto da configurare potenzialmente “una sorta di comunismo spontaneo ed elementare” (III 4, p.359). La deriva utopica del testo raggiunge qui uno dei suoi apici: il capitalismo sembra quasi “estinto, superato dal suo stesso sviluppo, diventato economicamente inutile; sopravvive come pura volontà di dominio, mera coercizione ‘politica’, ormai sganciata dall’obiettivo della valorizzazione” (12).

Il Contro-impero: non più classi, ma moltitudini.
Con la dispersione, la perdita di centralità sociale della classe operaia industriale e, dunque, con il passaggio dall’ “operaio massa” al “lavoratore sociale”, la lotta di classe non è più all’ordine del giorno: almeno, se con tale espressione ci si riferisce a cicli di lotte duraturi, organizzati sindacalmente e politicamente (leggi: partiticamente). Ora assistiamo a scoppi puntuali, insubordinazioni improvvise e tra loro non comunicanti, ma più intense. Si tratta di rivolte locali, esplosioni sociali e contro l’organizzazione del lavoro, antagonismi razziali, sussulti contro apparati repressivi (Tienanmen, Intifada, Los Angeles, Chiapas, scioperi in Francia e Corea del sud) (I 3, p.85). La metafora della talpa che scava sotto terra è ora inadeguata. Il “nomadismo universale” è insofferente alla distinzione tra tattica e strategia; gli eventi che lo riguardano si dislocano in superficie ed hanno il carattere dell’imprevedibilità, dell’immediatezza sovversiva e non controllabile (I 3, p.90). L’impero è, ad un tempo, potente e fragile: ciascuna emergenza conflittuale, per quanto singolare e locale, insidia direttamente il centro. La “moltitudine” – questa pluralità di esistenze “sull’orlo dell’abisso” (II 6, p.255) – è la levatrice del nuovo mondo, dei nuovi “valori”. Essa rifiuta il lavoro, ha in odio ogni disciplina e autorità (di fabbrica, familiare, delle regole tradizionali che presiedono alla sessualità ecc.), nel seno di questa società ne cerca una nuova che non abbia “strutture d’autorità fisse e stabili” (Intermezzo, p.260). La sua vitalità coincide col suo disubbidire, il suo essere-contro, il suo disertare. “Nuova orda nomade, nuova razza di barbari” (Intermezzo, p.267): Nietzsche aveva intuito tutto questo (13).
Ma in definitiva, a quali soggetti sociali si riferiscono Negri/Hardt? Chi fa parte di questa agostiniana “città terrestre” incaricata di dissolvere l’imperiale “città celeste”? Istanze culturali che si fanno immediatamente politiche concorrono a trasformare il pensiero unico dell’esclusione in valori di inclusione. Migranti, salariati che rifiutano il lavoro, studenti che ne cercano uno, donne che si ribellano al patriarcato: queste sono alcune delle nuove “forme di vita”, chiamate ad esprimere la loro trasfigurazione di valori, il loro bisogno di libertà. Tuttavia, nella suddetta tematizzazione, a far problema non è quello che potrebbe essere il richiamo alle complessità di una formazione sociale e delle sue trasformazioni, al profilarsi di soggettività nuove e di inedite contraddizioni sulla scena della storia. In questione è piuttosto il modello semplificato proposto da Negri/Hardt, che liquida l’analisi marxiana per approdare ad un vecchio brodo metafisico in cui si contrappone il vissuto e l’immediato al razionale e al pensato, quasi ad opporre un concreto buono ad un’astrazione comunque cattiva. Nietzsche – da cui non a caso siamo partiti – utilizzava per la sua decostruzione antropologica lo schema psicologico istinto/censura, concependo il primo come la verità dei provvisori prodotti della seconda: da un lato, l’istintualità che cova nel ‘sotto’ della storia (così come nelle profondità della psiche) e, dall’altro, i meccanismi di razionalizzazione, visti in ogni caso come fittizi e avventizi, che costituiscono il ‘sopra’, il visibile (regole dei rapporti intersoggettivi e di convivenza sociale, usi, istituzioni ecc.). Egli ha avuto intuizioni profonde, che hanno gettato luce sul “disagio della civiltà”: ma guai a trasporre meccanicamente lo schema suddetto per compendiare la dimensione storico-sociale. Disgraziatamente, nessuna progettualità di organizzazione della vita associata – per quanto radicalmente trasformatrice e rigeneratrice, quali che siano i sentimenti più o meno ‘forti’ da cui è animata – potrebbe del tutto fare a meno della tessitura di comportamenti pensati e consapevoli (e nemmeno di determinate soluzioni di compromesso nei confronti del piano pulsionale). Qui sta l’ irrazionalismo di Negri/Hardt: nella loro insofferenza verso qualsiasi istanza organizzatrice e artefice di comportamenti razionalmente orientati, segnale di un’ansia di regressione alle profondità psico-fisiologiche (del “nuovo barbaro” o della “divagante bestia bionda”, poco importa). Quando dico ‘irrazionalismo’ intendo dunque: diffidenza nei confronti del metodo e della razionalità scientifica in quanto tali (e non in relazione al loro uso), in nome del concreto, rappresentato come assolutizzazione dell’esperienza o dell’istanza soggettiva interiorizzata; rifiuto di qualunque pensiero della totalità e della mediazione – quindi di concezioni sistematiche della società, di visioni d’insieme dello sviluppo storico, capaci di valere come guida per l’azione – cui si contrappone il qui ed ora della micronarrazione, la ribellione in luogo del processo di liberazione(inteso senz’altro come “escatologico”); in politica – quale diretta e coerente conseguenza di tutto ciò – il rifiuto dell’ organizzazione (non solo dello stato, ma anche della dialettica sociale, delle sue mediazioni, della forma-partito, di qualsiasi approntamento consapevole – ed orientato strategicamente – di determinati mezzi in vista di certi fini) ridotta immediatamente alla sua degenerazione, ad apparato burocratico e oppressivo, cui è contrapposto il gesto puntuale e simbolicamente pregnante, la spontaneità individuale o del gruppo informale.
Alla luce di tutto ciò, possiamo tornare a chiederci: in che consiste – esattamente – la polemica di Negri/Hardt nei confronti della sinistra e del comunismo novecentesco? E’ diretta contro Stalin (accomunato sommariamente ad Hitler)? Dunque ad esser presa di mira è la versione autoritaria del socialismo realizzato? Non esattamente: la polemica, più in generale, è nei confronti di chi, inseguendo un’idea di progresso, ha la pretesa di orientare la storia in direzione di una totalità realizzata. Sul banco degli imputati è l’ ”angelo della storia universale” (Agamben); è lui che – in nome di questa – si autolegittima ad esercitare la violenza totalitaria. Che inaudita novità! Il guaio nasce dunque alla radice, con l’elaborazione di una strategia per la rivoluzione. L’opzione giusta, da opporre alla visione dialettica del corso storico, sarebbe il modulo teologico dell’ alterità radicale (cioè, ancora, l’esaltazione dello scarto, della discontinuità, dell’emergenza miracolosa di una situazione irripetibile). A che pro questo verboso spiegamento di metafore a favore del contingente? Per esaltare un’attitudine antidogmatica? Per sottolineare il carattere spregiudicato dell’azione politica, il suo essere intrinsecamente legata ad un sapere pratico, irriducibile a schemi astrattamente validi in ogni tempo e luogo? Non sarà Impero, ultimo venuto, a doverci insegnare questo. In ogni caso, l’obiettivo della retorica di Negri Hardt è altro: è l’esaltazione dell’ immediato rispetto al mediato e – tradotto in termini politici – dello spirito puntuale della rivolta di contro alla costruzione strategica della rivoluzione. C’è del ‘totalitarismo’ in quest’ultimo obiettivo? E cosa dovrebbero dire i comunisti – oggi – al proletariato flessibilizzato e precarizzato delle metropoli e delle periferie, vessato dalle strategie globali, sistematiche e a lungo termine del capitale e del neo-imperialismo? Non dovrebbero contrapporre precisamente una strategia e una tattica, coordinate e orientate verso obiettivi finali?
Non secondo Negri/Hardt. Con buona pace del buon vecchio Marx (e di Lenin) il quale, viceversa ha visto giusto. E, a quanto pare, vede ancora giusto, in un mondo sempre più dominato dallo sfruttamento capitalistico.

NOTE
1) Michael Hardt e Antonio Negri, Empire, Exils Editeur, Paris 2000 (a tutt’oggi non c’è traduzione italiana). I successivi riferimenti all’edizione francese sono indicati entro parentesi direttamente nel presente testo.
2) Friedrich Nietzsche, L’Anticristo, trad. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Verona 1975, p.136.
3) Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, trad. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Verona 1975, p.78.
4) Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Torino 1976, p.141.
5) Sorvegliare e punire, cit., p.151.
6) Come testi rappresentativi della letteratura postmoderna possiamo qui indicare, in traduzione italiana: Jean François Lyotard, La condizione postmoderna, Milano 1985; Fredric Jameson, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano 1989. Per un approccio in chiave critica, si può vedere: David Harvey, La crisi della modernità, Milano 1993; Terry Eagleton, Le illusioni del postmodernismo, Roma 1998.
7) Di questo autore sono espressamente citati i due saggi: La forma nazione: storia e ideologia e C’è un ‘neo-razzismo’? contenuti in Etienne Balibar e Immanuel Wallerstein, Race,Nation et Classe. Les identités ambigues, Paris 1988.
8) In proposito, si veda il saggio di Alberto Burgio: ‘Impero’ e ‘lavoro immateriale’. Su alcune recenti derive teoriche del movimento di classe, di prossima pubblicazione sulla rivista ‘Proteo’. Dello stesso autore, molto utili anche L’Impero del capitale comunista, ne ‘La Rivista del Manifesto’, n°15, marzo 2001 (un commento di carattere generale al testo di Negri e Hardt) e La modernità del conflitto, Roma 1999 (con particolare riferimento alla proposta di sapore ‘post-operaista’ del reddito di cittadinanza e all’ambigua natura sociale e politica del cosiddetto ‘terzo settore’).
9) In particolare, ricordiamo: Antonio Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro su ‘Grundrisse’, Milano 1979; Paolo Virno, Citazioni di fronte al pericolo, in ‘Luogo comune’, n°1, 1990; Christian Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti nella politica, Bellinzona 1994; Maurizio Lazzarato, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività, Verona 1997. Per un giudizio critico su quella che è andata configurandosi come ‘parabola discendente’ dell’operaismo, rinvio ai condivisibili lavori di Maria Turchetto (in particolare: Fordismo e postfordismo. Qualche dubbio su alcune ‘certezze’ della sinistra italiana, in ‘Protagonisti’, n°67, agosto 1997; e Dall’ ‘operaio massa’ all’ ‘imprenditorialità comune’: la sconcertante parabola dell’operaismo italiano, reperibile in italiano sul sito ‘www.intermarx.com/temi’ e pubblicato in francese nel Dictionnaire Actuel Marx des post-marxismes aux neo-marxismes, Paris 2000) e Roberto Di Fede (‘Immaterialismo storico’: a proposito di neosoggettivismo postoperaista, in ‘La Contraddizione’, n°78, maggio-giugno 2000).
10) Com’è noto, su tale profezia – ultrafalsificata dall’esplosione planetaria del lavoro salariato – autori come Jeremy Rifkin e André Gorz, tra gli altri, hanno costruito il loro temporaneo successo ideologico.
11) Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze 1978, vol. II, pp.401 sgg.
12) Maria Turchetto, Dall’ ‘operaio massa’ ecc., cit., p.4 di ‘www.intermarx.com/temi’.
13) E’ vero. In queste descrizioni c’è qualcosa che ricorda “la belva feroce, la magnifica divagante bionda bestia, avida di preda e di vittoria” descritta dalla Genealogia della Morale di Nietzsche. Anche se il filosofo tedesco in questo modo evocava il “fondo nascosto” e bisognoso di temporanee incursioni delle “razze aristocratiche” (essendo quelle inferiori “malate” e popolate di socialisti e comunisti, donne e omosessuali ecc.).

* Comitato Politico Nazionale Prc