L’impero “buono”, l’aggressione all’Iraq e la guerra permanente

La selvaggia e spudorata esibizione di violenza e di potere incontrastato e incontenibile che gli Stati Uniti dipanano in questi giorni di fronte ad un mondo attonito, conferma, per chi ne avesse ancora bisogno, quanto siano sacrosante le considerazioni di Nelson Mandela, che ha definito gli Stati Uniti “il primo nemico della pace”1, o quelle di Noam Chomsky, che ha bollato lo Stato nordamericano come “principale agente del terrorismo nel mondo”2. Ma tra gli effetti di grande rilievo, forse l’unico positivo dell’orrida brutalità esibita dall’amministrazione Bush (che però prosegue nella sostanza l’opera delle amministrazioni precedenti, consentendoci di puntare l’indice sul ruolo dello Stato USA piuttosto che su quello dei singoli governi) ci dovrebbe essere il diradarsi del densissimo e sbalorditivo fumo ideologico che ha protetto, a partire dal crollo dell’Urss, l’agire degli USA, nobilitandone gli intenti e costituendo il vero centro del cosiddetto “pensiero unico”.
Non si riesce a comprendere come le quattro guerre scatenate dagli USA in un decennio abbiano incontrato così poca resistenza nel mondo occidentale, e in Europa in primo luogo, se non tenendo conto dell’effetto sconvolgente che hanno avuto le grandi campagne ideologiche gestite dall’onnipresente apparato massmediatico, che ha obnubilato soprattutto l’Occidente narrandogli quotidianamente una Grande Favola sulla funzione morale, benefica, “ordinatrice” e dispensatrice di valori democratici svolta dallo Stato USA e dai suoi alleati subordinati: “favola” che ha occultato la cruda realtà di un imperialismo feroce, all’opera senza limiti o controlli.
Questa colossale operazione ideologica – che oscura persino le campagne hitleriane-goebbelsiane di dominazione/addestramento del pensiero e della “lettura del mon-do” collettiva – in Europa si è avvalsa, venendone altamente agevolata, di quella Grande Migrazione della netta maggioranza della sinistra ex-comunista, socialista o socialdemocratica (e dei suoi apparati politici o sindacali) sotto le insegne del liberismo/capitalismo e dell’imperialismo statunitense, avvenuta in maniera organica e convinta dopo il crollo del “socialismo rea-le”,. Solo l’effetto combinato di tale fumo ideologico e della suddetta migrazione può giustificare la caduta verticale di opposizione verso il bellicismo verificatasi in Europa a partire dalla guerra nel Golfo, confrontandola ad esempio con la ribellione alla guerra espressa negli anni ‘50, ‘60 e ‘70.
Di certo, dopo il crollo dell’Urss, in quanto unico rivale militare adeguato, è come se gli Stati Uniti non avessero dovuto più porsi limiti o cautele e avessero deciso di giocare rapidamente e senza alcuno scrupolo tutte le carte a disposizione per rendere irreversibile ed eterno il proprio dominio: ma lo hanno fatto elevando in sommo grado la propria stupefacente capacità simbolica occultatrice e menzognera, quella di cui, per la verità, avevano già dato sorprendenti (ed agghiaccianti) prove nei decenni passati, quando ad esempio, ricostruendo le proprie origini statuali, erano stati capaci di trasfigurare il più ampio e orrendo genocidio della storia (Olocausto ebraico a parte), e cioè la cancellazione degli indiani d’America, in epopea spettacolare venduta al mondo come divertimento cinematografico o cartaceo.
L’apparato ideologico e massmediatico, che ha fatto digerire in questo decennio l’attività criminale degli USA e dei suoi alleati alla gran parte delle popolazioni dell’Occidente (assai limitata è stata invece la vittoria del controllo mentale sui popoli arabi o asiatici, dell’America Latina o dell’Africa) e alla netta maggioranza dell’ex-sinistra, è stato articolato e complesso. Ma, schematizzando, possiamo dire che è ruotato su quattro perni essenziali ed integrati: 1) una teoria della globalizzazione intesa come unificazione del mercato mondiale, progressista e benefica, apportatrice di ricchezza diffusa e di democrazia, grazie al pieno dispiegarsi del “liberismo” (lo virgolettiamo, perché si tratta di un liberismo sui generis, del tutto unilaterale e manipolato, più ideologia ed utopia obnubilatrice che realtà fattuale) come fonte di miglioramento economico per tutti, una volta caduti/distrutti i lacci e lacciuoli del “socialismo reale” esterno ed interno; 2) la descrizione di un nascente governo mondiale dell’economia intorno ad organi transnazionali (WTO, Banca Mondiale, FMI ecc..) destinati, nella “vulgata” gridata ai quattro venti, a soppiantare gli Stati nazionali, i loro poteri e le loro responsabilità; organi disincarnati da ogni territorialità o vincolo politico-statuale (malgrado siano, con tutta evidenza, alle strette dipendenze degli Stati più forti, e degli USA in primo luogo), in grado di garantire la neutralità nella gestione delle cose del mondo – al riparo dalla “cattiveria” degli Stati nazionali, dei loro interessi di parte e dei loro imperialismi più o meno violenti – tramite il ruolo regolatore esercitato da onnipotenti e onniscienti “mercati”, descritti come altrettanto disincarnati e neutri; 3) la definizione di un nuovo potere “ordinatore” politico-militare sopranazionale, senza centro né periferia, senza precise responsabilità nazionali (che, in interpretazioni di sinistra, ha assunto, come ampiamente vedremo, le caratteristiche di un Impero “buono”, o comunque progressivo rispetto ai “crudeli” Stati nazionali), incaricato di stabilire/ristabilire l’ordine democratico mondiale e la pace anche a colpi di “guerre umanitarie” o “operazioni di polizia” planetaria, ovunque, ad insindacabile giudizio di tale potere, sia minacciato l’ordine e la pace; 4) l’individuazione, dopo la sparizione dell’Urss, dei nuovi nemici della pace, della civiltà occidentale e della democrazia, in due categorie, continuamente in espansione ed intersecantisi, gli Stati-canaglia e il terrorismo.
Intorno a questi quattro pilastri ideologici e politici, ha ruotato tutta la lettura del mondo che ha accompagnato e consentito il pieno dispiegarsi di tremendi eventi bellici come la guerra del Golfo, l’intervento USA in Somalia, l’aggressione alla Jugoslavia e all’Afghanistan, il martirio della Palestina e che ora prepara l’assalto all’Iraq. Ma oggi tale lettura sembra scontrarsi con un clima generale diverso da quello dominante anche solo un anno fa dopo gli attentati a New York e Washington, grazie certamente al ruolo delle soggettività politiche del movimento antiliberista emerse, o rianimatesi, a livello mondiale nell’ultimo triennio, ma ancor più, forse, all’ingigantirsi degli appetiti statunitensi e della brutalità dell’amministrazione Bush.
Credo che si debba approfittare di questo indebolirsi, speriamo non momentaneo, della presa ideologica del bellicismo USA e dei suoi alleati, per cercare di disvelare a livello di massa i motivi profondi della guerra globale e permanente, nonché per liquidare una serie di interpretazioni apologetiche del ruolo statunitense, che notevoli danni hanno fatto in tutti gli ambiti ove la sinistra liberista ha potuto agire in questi anni, ma anche in parti non trascurabili del movimento antiliberista e della sinistra antagonista italiana.
A questo proposito vale la pena di esaminare l’impostazione teorica più articolata messa in campo in tal senso negli ultimi anni , la “teoria dell’Impero” di Antonio Negri, non solo per la sua ponderosità e la sua diffusione a livello nazionale e internazionale, ma anche perché, seppur in forma volgarizzata, la gran parte della sinistra liberista europea e clintoniana ha utilizzato in questi anni analoghe categorie interpretative sul ruolo degli Stati Uniti.

L’Impero “buono” e gli Stati “cattivi”

Curiosamente, la polemica sviluppata da più parti nei confronti della “teoria dell’Impero” è potuta apparire a molti come un puro conflitto terminologico o come uno scontro teorico tra nuove/, brillanti/“movimentiste” e vecchie/tardoleniniste/grigie interpretazioni della realtà. È sembrato che si stesse parlando sopratutto del grado di ostacoli che il dominio USA incontra nel mondo, come se alcuni ritenessero che di ostacoli il progetto imperiale non ne incontri più, mentre altri vedessero ancora assai contrastata la realizzazione dell’Impero. È singolarmente passata in secondo piano – forse per la capacità affabulatrice di Negri, per le sue doti di Funambolo/Giocoliere delle categorie filosofiche, per la sua abilità nel proporre formule interpretative indipendentemente dalla aderenza alla realtà (una abilità che richiama quella dello scrittore di fantascienza che, a partire da dati reali ma estremizzati e assolutizzati, inventa mondi nuovi, irreali seppur plausibili: e la fantascienza apre sovente nuovi orizzonti di pensiero, divenendo però inutilizzabile o dannosa se presa come base per l’azione politica quotidiana), la natura apologetica della descrizione dell’Impero, i connotati di Impero “buono” (uso le virgolette perché Negri parla di “Impero buono in sé ma non per sé”3, ma in realtà, come vedremo, la bontà reale di tale Impero, o almeno la sua funzione progressista ed etica, è esplicitamente rivendicata da Negri) contrapposto ai vecchi Stati imperialisti europei “malvagi”, nonché la minimizzazione del ruolo altissimamente aggressivo esercitato in questi anni dagli Stati Uniti.
Invece proprio qui sta il vero cuore della questione, qui risiede la gravità dell’impianto teorico negriano: il resto sarebbe contestabile ma discutibile. Io stesso, negli anni passati, ho usato alcune volte le parole “impero” o “imperiale” per segnalare lo scarto enorme delineatosi, dopo il crollo dell’Urss, nella distribuzione di poteri tra l’imperialismo USA e gli altri imperialismi minori: peraltro la stessa Inghilterra, riferimento obbligato per la teoria dell’imperialismo, determinò a suo tempo un tale scarto di potenza economica (però, non militare) con le potenze rivali da venir sovente definita, anche nella pubblicistica marxista, impero.
Ma qui leggiamo di un Impero che spazza via gli Stati malvagi, che costruisce un terreno più avanzato per la Rivoluzione, che è stato “evocato dal desiderio di liberazione della moltitudine… il (cui) desiderio è stato indirizzato in modo strano e perverso alla costruzione dell’Impero” 4; di un Impero che non può essere fermato o ostacolato (ma Negri sembra pensare “non deve essere ostacolato”); di un Impero che è sì “senza centro né periferia… Nord e Sud… senza differenze essenziali tra Stati Uniti e Brasile, tra Gran Bretagna e India”5 ma che purtuttavia può contare sugli Stati Uniti come potenza ordinatrice, migliore dei vecchi Stati europei e comunque non imperialista, né coloniale, né motivata da egoismi nazionali.
Per dimostrare quanto questa apologia sia presente nell’elaborazione di Negri (spiegando anche la grande accoglienza riservata al libro da mass-media potenti e influenti dell’asse USA-G.Bretagna) non dobbiamo far altro che lasciargli la parola: “Gli USA sono diversi, non conoscono l’imperialismo. Sono un paese che nasce attraverso una rivoluzione coloniale e ritiene questa origine nella sua Costituzione. Sono un paese che diventa grande attraverso l’estensione della sua frontiera interna, annettendo spazi e migrazioni, distendendosi su sempre più ampi territori, sui quali è la regola democratica che stabilisce la nuova civiltà e le nuove gerarchie, miscele e ibridazioni di etnie e popoli. Sono una nazione che si impegna contro il fascismo. Sono un paese che paga, attraverso gravissime crisi interne, i rari momenti nei quali le elites dominanti si fanno trascinare in operazioni di ingerenza imperialista: come dopo la crisi cubana all’inizio del secolo e dopo la guerra vietnamita nel secondo dopoguerra. Sono dunque, in buona sostanza, una nazione anticolonialista, antimperialista, democratica: un paese che non ha vissuto (se non episodicamente) le orribili vicende degli Stati-nazione europei nei secoli della modernità. Una nazione ed uno Stato che oggi si avviano ad esercitare comando imperiale, non imperialista”6.
Davvero sconcertante, simile a deliri a stelle e strisce nostrani, alla Giuliano Ferrara per intenderci. In poche righe, non c’è fase della storia statunitense che non venga nobilitata/esaltata. L’Olocausto dei nativi d’America, il rapimento e l’infame riduzione in schiavitù di milioni di africani, una nascita statale, cioè, che gronda violenza. sangue e terrore come nessun’altra, diventa poeticamente “annessione di spazi e migrazioni… distensione su ampi territori”, ove “è la regola democratica che stabilisce la nuova civiltà e le gerarchie”. E le decine, se non centinaia, di aggressioni imperialistiche effettuate dagli Usa nel Novecento si riducono incredibilmente a due, Cuba (peraltro non la Baia dei Porci e l’embargo, ma quella di inizio secolo) e il Vietnam, ritenute foriere di gravi crisi non già – come in Vietnam – a causa della sconfitta USA ma perché in contrasto con un inverosimile DNA antimperialista che Stato e popolo USA vanterebbero. Niente a che vedere, insomma, con gli orribili Stati europei, vero oggetto d’odio da parte di Negri.
Che non si ferma qui.
“Così come prescrive la loro Costi-tuzione, all’efficacia del loro dominio gli USA uniscono una profonda fiducia nei diritti dell’uomo e valicano la loro azione di gendarmi dell’ordine imperiale mondiale sulla base di principi di ingerenza morale ed umanitaria. Dall’anticolo-nialismo all’antimperialismo, dall’intervento antifascista all’ingerenza umanitaria, si stabilisce così una linea continua che regge l’azione imperiale degli USA. È sulla base di questi principi che gli USA possono evitare di chinarsi all’ambiguo contrattualismo delle Nazioni Unite ed esercitare piuttosto la loro missione di civiltà e di politica internazionale, su un terreno che è quello dell’Impero. Essi non sono assoggettati al diritto internazionale ma formano quello imperiale”7.
Mentre Chomsky si sgola da anni, insieme a poche altre grandi figure dell’opposizione USA, per dimostrare che gli USA sono lo Stato che più di ogni altro calpesta i diritti umani e diffonde guerra e terrore nel mondo, Negri non solo ne fa i paladini di tali diritti ma dà sostegno e armonia alle teorie della sinistra liberista (da Blair a D’Alema, e ovviamente Clinton) sull’ “ingerenza/guerra umanitaria”. E, come se non bastasse, spiega anche la positività dell’azione di chi “non si inchina all’ambiguo contrattualismo delle Nazioni Unite”, giustifica il perché gli USA siano il paese che meno rispetta qualsiasi convenzione o deliberato internazionale. Gendarmi, dunque, ma umanitari e democratici. E su chi avesse ancora qualche dubbio, Negri infierisce:
“Il contenuto della costituzione imperiale post-moderna sono i valori. E cioè i diritti dell’uomo; e cioè i diritti che la liberazione del mercato, oltre ogni laccio e lacciuolo, definisce. Governo assoluto, rappresentativo di valori. Governo globale, come è globale il mercato. Governo della pace perché laddove c’è l’Impero non c’è più guerra: ci possono essere solo ribellioni all’ordine che una forza repressiva, speciale, una forza di polizia, annullerà. Contro la Serbia non c’è guer-ra ma una restaurazione di valori”8.
Il peana alla “costituzione imperiale” annichilisce ogni altro possibile cantore dell’imperio USA. Chi era mai arrivato a promettere che “dove c’è Impero non c’è più guer-ra” e ad assicurare che “contro la Serbia non c’è guerra”? Persino D’Alema e Blair, alla fine, avevano dovuto chiamare guerra la guerra, anche se “umanitaria”.
È alla luce di questa apologia del ruolo degli USA che vanno letti tutti i passaggi che in “Impero” mirano a delocalizzare il potere, a collocarlo dappertutto e in nessun posto, in un’opera di falsificazione/occultamento che, pur in un’altalena di affermazioni contraddittorie e spesso reciprocamente elidentisi (dovuta anche, forse, alla scrittura a due mani), contribuisce a deresponsabilizzare la gigantesca e concreta macchina di potere statunitense dalla materiale gestione del dominio del mondo. A tal proposito, il filo conduttore politico che attraversa il ragionamento negriano appare questo: il potere non ha più sedi, ma qualora ne avesse, sono comunque meglio di quelle di prima, e non hanno a che fare con banali interessi nazionali, men che meno relativi agli USA; è scioccamente antiamericano individuare nello Stato USA il principale nemico dell’umanità oggi. Questo mi pare il tessuto politico che collega brani come i seguenti.
“Nello spazio liscio dell’Impero non c’è un luogo del potere: il potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo. L’Impero è un’utopia, un non-luogo”9…
“L’Impero accoglie tutti pacificamente nei suoi domini..non fortifica i suoi confini con l’espulsione degli altri, bensì attraendoli nel suo ordine pacifico”10;
“L’Impero è meglio di ciò che l’ha preceduto”11;
“ L’Impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere… si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante … Né gli Stati Uniti, né alcuno stato-nazione costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista. L’imperia-lismo è finito. Nessuna nazione sarà un leader mondiale come lo furono le nazioni europee moderne”12.
“La polizia mondiale americana agisce nell’interesse dell’Impero non dell’imperialismo. Come ha affermato George Bush, la guerra del Golfo ha annunciato la nascita di un nuovo ordine mondiale”13.
Non c’è da sorprendersi se l’indicazione politica per il “contro-impero” e per la “moltitudine” (la fascinazione, che tale termine ha provocato, è determinata dall’abilità di Negri nel lanciare termini che, intervenendo su preesistenti carenze lessicali, rispondano ad una richiesta di novità e suonino bene e modernamente: chi dice moltitudine, non pensa ad un particolare strumento interpretativo, ma trova che sia più assonante e originale che “masse”, “lavoratori dipendenti”, “salariati”, “sfruttati”, “gente”, “classe operaia”, termini o delimitanti o segnati dall’uso) è l’ineluttabilità di fronte all’evento, l’esodo.
“Il nuovo paradigma imperiale è irreversibile. Ogni ribellione di uno Stato-nazione è inevitabilmente condannata alla sconfitta; altrettanto la ribellione o la fronda di coalizioni di Stati-nazione. Non c’è alternativa allo sviluppo dell’ordine imperiale. Non c’è più un “fuori”. E allora, che fare? Dovremo naturalmente abituarci al progressivo estendersi della regola imperiale americana e quindi all’ingerenza degli aerei e degli eserciti dell’Alleanza Umanista”14.
Oddio, una qualche indicazione supplementare sul da farsi ci sarebbe, ma appare o auto-annullantesi (perché dice una cosa e il contrario) o di nuovo elogiativa nei confronti dell’Impero. E infatti, prima c’è l’apologia dell’Esodo: “17 secoli fa Agostino d’Ippona ci raccontava l’impossibilità di far agire strategie alternative all’interno dell’Impero. Allora, come oggi, l’unica alternativa è quella di andarsene dall’Impero”; poi l’inutilità/impossibilità dell’Esodo stesso: “È solo movendosi all’interno dell’Impero che potremo ribellarci”; infine, l’estrema illusione di poter “fregare” l’Impero costringendolo alla coerenza con i principi che sbandiera, alla “serietà”: “Per spingere l’Impero alla catastrofe, occorre prenderlo sul serio… Si tratta di contrastarlo chiedendogli per tutti cittadinanza, per ogni cittadino garanzia di reddito, per ogni uomo diritto di esodo, per ogni gruppo produttivo diritto di appropriarsi non solo di una quota di ricchezza ma anche di una quota di potere”15. E sembra che Negri creda sul serio che, pur di non rischiare l’incoerenza e la non-serietà, l’Impero finirà per concederci tutto ciò pacificamente.
L’insostenibilità, l’inconsistenza – nonostante l’abilità lessicale del Funambolo – , il carattere apologetico dell’impianto, lontano anni-luce dalla realtà economica e politica che in questi giorni lo Stato Usa e il suo Timoniere Bush ci stanno sbattendo in faccia, devono, però, essere improvvisamente balenati, nella loro enormità, anche allo stesso Negri (del genere: ogni tanto, anche gli scrittori di fantascienza vanno al supermercato), il quale, bruscamente, pochi giorni fa ha innestato una retromarcia teorica stupefacente, che rimette in discussione tutto l’impianto di “Impero” ma con un’argomentazione fattuale persino più inconsistente delle tesi di fondo: insomma, come dicono nella regione natale di Ne-gri, il classico rattoppo che è peggio del buco.
Ecco quanto sostiene infatti Negri nell’intervista al manifesto per l’anniversario dell’11 settembre, con lo sconcertante titolo “Il backlash imperialista sull’Impero”15 (“backlash” è tradotto nell’Oxford dictionary come “una estrema e violenta reazione ad un evento”; secondo Negri, appunto, saremmo di fronte ad “una estrema controspinta reazionaria dell’amministrazione Bush, che blocca la costruzione imperiale”).
“Di assolutamente nuovo rispetto all’impianto di “Impero” c’è che la reazione americana all’11 settembre si sta configurando come un colpo di reni contrario e regressivo rispetto alla tendenza imperiale. Una controspinta, un backlash imperialista dentro e contro l’Impero, legato a vecchie strutture di potere, a vecchi metodi di comando… in controtendenza rispetto ai caratteri molecolari e relazionali del biopotere imperiale che avevamo analizzato… Il gruppo che è andato al potere con Bush è un gruppo reazionario legato ad alcune megastrutture del potere americano… gente rimasta a lato della terza rivoluzione industriale e che la guarda con ostilità…La gravità della situazione sta in questa contraddizione… gravissima, ricorda la reazione dei nazionalismi (nds. del nazifascismo) al mutamento di scenario degli anni ’30. Può succedere di tutto”.
Dunque: Bush padre aveva avviato l’Impero “buono”, quello che non fa guerre ma operazioni di polizia etiche come la guerra nel Golfo, cose comunque non gravi; poi è arrivato Clinton che, legato alla “terza rivoluzione industriale”, ha proseguito sulla retta via delle operazioni di polizia in Jugoslavia e sulla luminosa strada dell’Impero. Peccato che all’improvviso emerga la “reazione” di Bush figlio che, “legato a vecchie strutture di potere” e ostile alla “rivoluzione industriale”, non vuole più l’Impero ma intende ritornare al buon vecchio imperialismo e alle sane guerre di una volta. Se non parlassimo di cose tragiche, sembrerebbe un film dei fratelli Marx sceneggiato da Mel Brooks.
Di certo, c’è il rimpianto per Clinton (Negri afferma tra l’altro “ci auguriamo tutti che alle elezioni di novembre vincano i democratici”), per il suo Impero e per la sua “terza rivoluzione”; ma anche, di nuovo, la fiducia nei mercati, liberi da lacci e laccioli e soprattutto dai crudelissimi Stati: “L’ostacolo vero a Bush può venire dai mercati.
I mercati alla guerra non ci stanno… per far riprendere l’economia americana ci vorrebbe la seconda guerra mondiale non l’operazione di polizia (nds. ci risiamo, neanche questa sarà considerata da Negri una guerra?) contro l’Iraq che può solo avere effetti negativi sul risparmio negli Usa”.
Anche sul “che fare”, Negri sembra aver cambiato bruscamente idea, l’esodo non basta più.
“Non è che il potere ti lasci fare esodo in santa pace, ti attacca continuamente. E dunque, o l’esodo diventa militante e combattente o è perdente. Devi esercitare forza anche quando non vorresti, è l’avversario che te lo impone”.
Anche se è difficile capire cosa diavolo sia “l’esodo combattente”, sarebbe già un passo avanti: se poche righe dopo non ci si domandasse “quali alleanze intrecciare con le aristocrazie imperiali riformiste (sic!)”. E alla domanda di Ida Dominianni che segnala, allarmatissima, come, “complice la stupidità della strategia reazionaria di Bush, a sinistra l’antiamericanismo monta… e questa è una posizione confusa, sbagliata e pericolosa”, risponde: “Sono del tutto d’accordo. Anche se il progetto di Bush è imperialista, è sbagliato considerare imperialisti gli Stati Uniti come tali. La posizione dell’antiamericanismo coincide con la rivalutazione e difesa dello stato nazionale come trincea antimperialista, tentazione non estranea ad alcuni settori del movimento dei movimenti: e questa è una postura sbagliata che ci impedisce di capire come è fatto il mondo e chi ha il comando”.
Qui, davvero, il contorsionismo e i grovigli logico-teorici superano la mia capacità di discernimento. Lascio dunque agli estimatori delle tesi di Toni Negri l’arduo compito di districarsene.

I perché della guerra permanente e globale

Subito dopo il crollo del “socialismo reale” nell’Est europeo, molti analisti politici ed economici, non tutti malintenzionati, descrissero quella che si apriva come una assai probabile “era di pace”. La fine dell’equilibrio tra le due superpotenze e il massiccio predominio degli Stati Uniti che ne scaturiva, fecero prevedere che gli strumenti militari sarebbero caduti in disuso e l’egemonia mondiale si sarebbe giocata sul piano della pura competizione economica. Mai previsione si rivelò più fallace: il “ritmo” bellico, lungi dal rallentare fino all’arresto, ha avuto da allora un’accelerazione senza precedenti.
Ma perché gli Stati Uniti hanno bisogno come non mai della guerra? Perché la rendono permanente e globale? E perché aggrediscono anche realtà statuali di scarso peso politico o militare?
Bisogna innanzitutto non commettere l’errore di ritenere l’intervento militare un atto compiuto nei momenti di massima forza di una potenza. In realtà, nella storia del capitalismo la guerra è stata attivata assai sovente nei momenti di debolezza economica o ancor più nelle fasi di declino dell’egemonia economica di uno Stato o di un gruppo di essi.
Al momento del crollo dell’Urss, l’intero sistema capitalistico esibì la propria massima promessa, quella di estendere la ricchezza occidentale a tutto il globo e di elevare il tenore di vita anche di quei tre quarti dell’umanità da decenni nella miseria più nera. La fine degli ostacoli, determinati dall’esistenza di un “campo socialista”, all’estensione globale del mercato e della produzione di merci a fini di profitto, avrebbe finalmente consentito – questa fu la vulgata ideologica dominante – il pieno dispiegarsi della potenza del sistema capitalistico, a beneficio di tutti.
In realtà, e nel giro di pochissimo tempo, queste teorie si sono dimostrate pura utopia. Non solo la ricchezza del mondo occidentale non si è estesa ai tre quarti del mondo, ma, al contrario, i più ricchi si sono ulteriormente arricchiti e i più poveri ancor più impoveriti.
Il mercato mondiale delle merci, lungi dall’allargarsi, ha finito per stagnare o restringersi anche nei paesi ricchi, con l’avvento di nuove povertà: in verità oggi il mercato “globalizzato” non coinvolge più di un quarto dell’umanità, mentre il resto ne è irrimediabilmente esclu-so, non avendo nulla da vendere né i mezzi per comprare alcunché. In tale situazione, il sistema capitalistico rischia ad ogni passo una gigantesca crisi da sovrapproduzione: l’apparato produttivo mondiale produce, in tempi sempre più brevi, una quantità sempre maggiore di merci, ma deve venderle ad un numero più o meno statico di potenziali compratori che, per giunta, possiedono già larga parte dei prodotti necessari.
Questa impasse strutturale produce da una parte la corsa frenetica alla mercificazione globale, al tentativo angosciante di trasformare qualsiasi cosa – dal cibo geneticamente modificato, alle sementi, dall’istruzione/sapere, alla salute, fino alla commercializzazione del corpo umano e del DNA, di qualsiasi pezzo di natura mercificabile, di ogni sentimento, ideale e sogno umano – in merce produttrice di profitto; e dall’altra, l’impulso guerresco ad abbattere qualsiasi ostacolo alla produzione capitalistica.
Di fronte alla potenza politicamente e militarmente dominante, agli Stati Uniti, si presenta questo quadro: enormi difficoltà ad estendere davvero il mercato mondiale, sovrabbondanza di merci con carenza di compratori, discesa in campo di un numero crescente di potenze concorrenti sul puro terreno economico, economia interna con sempre più punti deboli, meccanismi di dominio sulle materie prime e sulle fonti energetiche sempre più contrastati; e soprattutto emersione accelerata di limiti incombenti allo sviluppo costante delle risorse economiche strategiche (non stiamo parlando solo di petrolio e di gas, ma anche della grande produzione agricola di fronte alla non-espansione di terre coltivabili, dell’accesso all’acqua mentre l’individuazione di fonti utilizzabili è sempre più difficile e costosa, di estrazione di metalli da paesi stufi di essere saccheggiati, di nuovi canali per il trasporto delle merci che esigono il pieno controllo dei territori interessati, dell’utilizzo e del trasporto di nuove fonti energetiche di fronte al possibile prosciugarsi delle risorse petrolifere ecc…) e consapevolezza che la gestione e il controllo di tali risorse, in caso di non espansione o riduzione di esse, vanno assicurati a tutti i costi – ivi compresa la guerra permanente – a chi vuole dominare il mondo, prima che altre potenze, oggi ancora militarmente “nane”, possano competere alla pari.
Ci consiglia saggiamente Sergio Finardi: “Costruite la tabella dei limiti di sviluppo dei vari settori, guardate la mappa delle regioni geografiche che ospitano determinate risorse naturali, e otterrete la mappa dei conflitti presenti e futuri, quelli molto evidenti perché militari (oggi più di trenta conflitti attivi in varie regioni del mondo) e quelli segreti e sordi condotti a colpi di crisi finanziarie, di blocchi o di accordi commerciali, di spionaggio industriale, di intese o lotte in organismi come il FMI o il WTO… In qualsiasi modo concorrenza e conflitto si camuffino – conflitti di nazionalismi, religioni, etnie, ideologie – al fondo di esse si troverà la lotta per il controllo di uno o più settori strategici”. E se in tali conflitti risalta la “crescente tendenza aggressiva economica e militare degli USA, dell’ Europa occidentale e, più timidamente, del Giappone, essa non è frutto di un oramai incontrastato potere, ma è all’opposto legata alla consapevolezza che gli establishment di queste potenze hanno del loro inevitabile declino relativo”.
Ne consegue la strategia del “porte aperte, o ve le sfondiamo” che ha sotteso, dal ’90 in poi – da quando, cioè, il crollo dell’Urss ha lasciato loro la piena e incontrastata egemonia bellica –, l’azione militare degli Stati Uniti e delle alleanze internazionali a geometria variabile costituitesi sotto la loro guida, dalla guerra del Golfo a quella che si prepara contro l’Iraq.
Il filo conduttore è la cancellazione di qualsiasi avversario statuale o politico, seppur di modeste dimensioni, che possa impedire, ostacolare, ritardare o mettere in discussione la penetrazione economica, l’appropriazione e il controllo delle ricchezze altrui, da parte degli USA e degli Stati ad essi alleati-subordinati.
È lampante la volontà statunitense di impedire ai concorrenti economici – e cioè a quegli Stati o insieme di Stati che già oggi, o in tempi ragionevolmente brevi, sarebbero, sul piano puramente economico, in grado di metterne in discussione il dominio, come un’eventuale Euro-pa unita, il Giappone, la Cina, la Russia una volta uscita dal marasma politico, e persino un’ipotetica alleanza tra borghesie arabe, al fine di esautorare gli USA dal controllo del petrolio e di fondamentali risorse energetiche – di crescere e di contestare l’egemonia USA, attraverso una strategia che mira a soffocare nella culla, usando lo schiacciante dominio militare, ogni velleità in tal senso.
Collateralmente non va trascurato quale potente volano per rilanciare l’economia sia sempre stato, in quest’ultimo secolo, l’economia di guerra, e cioè i massicci investimenti statuali nella produzione bellica e nei suoi derivati, a maggior ragione quando la produzione di armi è quella che, nell’economia Usa, è stata sempre dominante. Come ha sintetizzato brutalmente Gore Vidal: “Il presidente Bush ha detto che questa sarà una lunga guerra e lo ha detto con molta gioia, perché tutto il denaro che verrà speso dagli Stati Uniti andrà nelle tasche dei suoi amici. Bush è stato eletto con il sostegno dei petrolieri e del complesso militare-industriale. Una guerra contro un miliardo di mussulmani è una vera manna per i loro affari, una meravigliosa opportunità di guadagno per l’industria delle armi e del petrolio”.
Ma più in generale, aggiungeremmo noi, per l’intero capitalismo Usa che, dopo le Twin Towers, ha incamerato circa duecentomila miliardi, facendo abolire le tasse sulle imprese e cancellare ogni regola di protezione ambientale, ottenendo sovvenzioni cosmiche, con le compagnie assicurative ed aeree in prima fila, e imponendo massicce spese militari, che fanno da volano al più vasto complesso industriale “pesante”.
E, last but not least, l’esibizione di incontrastabile potenza militare è ulteriormente comprensibile se si tiene conto che gli USA hanno il più sbalorditivo debito estero di tutta la storia dell’umanità, qualcosa come 35 milioni di miliardi di lire di debito annuo.
Se i principali centri finanziari statali e privati richiedessero indietro una parte rilevante di tale debito, l’economia USA entrerebbe in una crisi potenzialmente catastrofica: solo il dominio militare e il controllo del pianeta garantiscono agli Stati Uniti che tale richiesta non divenga operativa, inducendo però gli USA a dover ridimostrare continuamente l’intensità e l’onnipresenza di tale dominio.
Questo insieme di ragioni spiega perché anche un Irak, un Afghani-stan o una Jugoslavia, che intendano autonomizzarsi in zone politico-militari-economiche di grande rilevanza strategica, e persino una struttura militare non statuale come Al Qaeda (di cui, peraltro, buona parte di quel che sappiamo deriva da fonti statunitensi, e quindi è bene farci riferimento con grande cautela, restando pur sempre un parto degli apparati militari USA), divengano ostacoli significativi da abbattere.
In particolare, il cosiddetto estremismo islamico, “terrorista” o meno, è considerato pericoloso in quanto potenziale avanguardia armata di una ben più vasta borghesia araba che sta valutando seriamente in questi anni (valeva per l’Afghanistan, vale per l’Iraq e l’Iran, potrebbe valere domani anche per l’Arabia Saudita) la possibilità di svincolarsi dall’egemonia statunitense non certo per contestare il capitalismo e i suoi meccanismi, bensì per ritagliarsi ben più ampi spazi all’interno del sistema economico dominante, utilizzando appieno le proprie ricchezze energetiche.
Consapevoli di ciò, gli Usa stanno invece cercando di usare l’estremismo islamico per togliere definitivamente alle borghesie islamiche ogni vero controllo sulle proprie ricchezze e passare a gestirle in prima persona, anticipando anche le mosse delle altre potenze concorrenti.
Scrive il Washington Post16: “Lo spodestamento di Saddam Hussein aprirebbe un filone d’oro per le compagnie petrolifere americane a lungo bandite dall’Iraq, facendo naufragare gli accordi petroliferi con Baghdad di Russia, Francia ed altri paesi, e provocando un rimescolamento dei mercati petroliferi mondiali… Il petrolio iracheno è una delle principali monete nella contrattazione per ottenere dall’ Onu e dagli alleati occidentali l’adesione alla dura azione internazionale contro Hussein”.
E rincara Manlio Dinucci17: “L’Iraq possiede riserve petrolifere ammontanti a 112 miliardi di barili, le seconde del mondo dopo quelle dell’Arabia Saudita. La loro durata, agli attuali ritmi di consumo, è stimata in oltre un secolo, più di quelle saudite (83 anni). Le compagnie statunitensi, sin dalla fine degli anni ’80, sono state tagliate fuori dallo sfruttamento delle riserve irachene..I paesi che acconsentiranno alla guerra contro l’Iraq potranno avere, in misura minore rispetto agli USA, contratti per lo sfruttamento del petrolio iracheno; quelli che si opporranno, saranno esclusi”.
Di petrolio, dunque, parliamo: altro che lotta al terrorismo!
L’opposizione alla guerra contro l’Iraq

Stante l’accentuarsi delle pressioni egemoniche statunitensi e la conseguente, evidente, insofferenza delle altre potenze minori, è pensabile che la guerra all’Iraq venga arrestata grazie alle contraddizioni e ai conflitti tra gli Stati che subiscono l’egemonia USA? Mi pare non sia il caso di coltivare illusioni in merito. Le caratteristiche dell’attuale “equilibrio diseguale” nei rapporti tra Stati Uniti e potenze minori sono ben tratteggiate da Salvatore Cannavò18: “Mai nella storia uno Stato si è dotato di tale, inattaccabile dominio militare; ma mai a tale dominio è corrisposto una dipendenza globale (si pensi al peso del debito estero) tale da renderlo suscettibile di contraccolpi esplosivi. Gli Usa dipendono dagli investitori europei e giapponesi ma, allo stesso tempo, dettano a quelli il ritmo della politica internazionale: e per mantenere il proprio ritmo, scelgono la guerra infinita… I paesi europei sono sempre meno disposti a tollerare la strategia della supremazia permanente, ma incapaci di descrivere un’alternativa o quanto meno di pronunciare qualche no… L’Europa, protesa verso una propria statualià conflittuale con Washington, è allo stesso tempo interessata ad un ordine liberista garantito dalla guerra, l’unico a garantire da sommovimenti sociali o da crisi di rigetto verso le implacabili terapie liberiste. All’Europa sta stretta la strategia militare USA, ma non può farne a meno, e alla fine sceglie la strategia del “vorrei, ma non posso”… Un atteggiamento analogo seguono Russia e Cina, che pure coltivano sogni di grande potenza e perseguono disegni politici non riconducibili alle aspettative di Washington. E se sul piano politico e militare si confrontano con gli USA, spesso lo fanno per contrattare al rialzo benefici economici, miglioramenti della propria condizione internazionale, risarcimenti e favori”.
Dunque, non c’è da attendersi nulla di decisivo dalle attuali posizioni di alcuni governi europei, tedeschi in prima fila, della Cina e della Russia, che hanno segnalato il proprio disaccordo nei confronti della guerra all’Iraq. In definitiva, la possibilità di fermare o ostacolare al massimo le operazioni belliche è in mano al movimento antiliberista e a tutte le componenti pacifiste e anti-guerra che hanno già dato numerosi e decisi segni di ribellione.
Non è però affatto indifferente alla mobilitazione lo stato delle contraddizioni nel campo imperialista e “liberista”. Se i governi che recalcitrano non fermeranno di per sé Bush e Blair, purtuttavia non si ricreerà quell’ampio fronte sociale favorevole alla guerra verificatosi in Europa durante l’aggressione alla Jugosla-via. I mass-media saranno meno scatenati sulla linea bellica, sarà più facile far crescere la protesta.
E non va poi dimenticato quanto detto all’inizio, a proposito dell’obnubilamento di massa determinatosi dopo il ’90 in tanta parte dell’opinione pubblica “di sinistra” e sui suoi responsabili. Questa volta, in molti paesi europei la sinistra liberista è all’opposizione e sulla guerra prenderà, per motivi prevalentemente strumentali, posizioni opposte a quelle prese nei confronti della guerra alla Jugoslavia e a quella in Afghanistan (come poi riuscirà a spiegare adeguatamente tale rocambolesca capriola resta misterioso). I segnali in tal senso in Italia li abbiamo già tutti: il Cofferati della “contingente necessità” dell’aggressione nei Balcani è oggi per un “forte e deciso no alla guerra”; i DS della “guerra umanitaria” contro la Jugoslavia vogliono ora addirittura promuovere una manifestazione contro la guerra. E tutto ciò, al di là del trasformismo irritante, contribuirà ulteriormente ad allargare la mobilitazione popolare che davvero, stavolta, potrà andare ben oltre i tradizionali campicelli da noi arati di solito.
Due appuntamenti sono già in campo, promossi dal movimento che sta costruendo il Forum sociale europeo: il 5 ottobre, “cento città contro la guerra”, manifestazioni di piazza in tutte le città per fermare la guerra e la partecipazione italiana ad essa; e il 9 novembre, alla chiusura del Forum europeo, si svolgerà la prima e gigantesca manifestazione europea contro la preventivata aggressione all’Iraq. E in mezzo, iniziative davanti alle basi militari statunitensi, proteste davanti a strutture collegate alla guerra e quant’altro sarà utile come “dissuasione preventiva” verso chi ci vuole imbarcare in questa nuova, atroce tappa della guerra permanente.

L’uso della categoria “terrorismo” per giustificare guerra e repressione

Dal palco di S.Giovanni, davanti a centinaia di migliaia di persone convocate dai “girotondisti” e in alcuni dibattiti, Gino Strada, il fondatore di Emergency, ha detto nettamente cose che io ho spesso ripetuto, con ben più scarso successo, nel movimento antiliberista dopo gli attentati dell’11 settembre, polemizzando contro quella formula apparentemente di buon senso (contro la guerra, contro il terrorismo) che aveva il torto di prendere per buona la lettura della realtà proposta dal governo USA, contribuendo a far credere che la guerra fosse davvero una risposta al terrrorismo e che quest’ultimo avesse dimensioni e portata equiparabili alla macchina bellica statunitense.
Ha detto più o meno Gino Strada (cito a braccio, facendo riferimento sia all’intervento dal palco sia al dibattito con decine di parlamentari tenutosi a Roma il 17 settembre): “Che cosa c’è al mondo di più terroristico della guerra?.. Non ha senso domandarsi se la guerra è una risposta giusta o sbagliata al terrorismo, perché quelle che si sono svolte e quelle che si vogliono fare, non erano e non sono guerre al terrorismo ma guerre per il petrolio, per il controllo delle materie prime, per il dominio… È la guerra la forma internazionale del terrorismo… Ed è un evento mostruoso che si è ripetuto continuamente in questi anni, che ha attraversato e insanguinato tutto il mondo, dal Cile al Nicaragua, dall’Afghanistan alla Palestina, provocando, secondo le cifre approssimate prodotte dal Peace Researching Institute di Oslo, più di 9 milioni e mezzo di vittime civili, gran parte delle quali vanno addebitate alle politiche degli Stati Uniti… Dovremmo avere sempre a mente la condizione di tutti quei popoli per i quali ogni giorno è l’11 settembre”.
Parole che ci piacerebbe scrivere a caratteri cubitali in ogni sala di dibattito contro la guerra nei prossimi mesi. Alle quali, da parte nostra, affianchiamo un approfondimento a proposito dell’uso della categoria “terrorismo”.
Intendiamoci: qui non stiamo parlando di Al Qaida, la cui natura interna (ad esempio, il fatto se sia o no ancora manipolabile da quegli apparati militari e spionistici USA che l’hanno ideata e fatta crescere) non possiamo conoscere, ma la cui attività bellica è perfettamente speculare – seppur con potenza distruttiva neanche lontanamente paragonabile, né oggi né mai, a quella statunitense –, a quella imperialistica, e dunque estranea e contrapposta a chi si batte contro la guerra e il capitalismo.
Qui stiamo prendendo atto che uno Stato come quello USA, che ha organizzato non solo decine di guerre nel secolo scorso ma colpi di stato in mezzo mondo, migliaia di attentati, uccisioni e rapimenti di capi di stato o leader politici, che ha calpestato la legalità dappertutto e nei modi più brutali (come sintetizza Chomsky: “Se la definizione di terrorismo è quella che fornisce il Codice USA dell’84, e cioè ogni atto rivolto ad intimidire e obbligare con la forza la popolazione civile, a influenzare la politica di un governo attraverso la coercizione e l’intimidazione, a orientare la condotta di un governo attraverso l’assassinio o il rapimento, allora non c’è dubbio che gli Stati Uniti sono un paese-guida del terrorismo, così come i loro clienti”19), oggi sta costruendo, con il pretesto della lotta ad un indistinto e inafferrabile terrorismo, non solo la guerra permanente ma la cancellazione di ogni conflitto sociale radicale o di ogni resistenza popolare armata, infilando tutte le organizzazioni coinvolte in tali lotte in una sempre dilatantesi “lista nera” di “terroristi” da reprimere e da far sparire con ogni mezzo.
In tale lista sono inserite organizzazioni che praticano o guidano una lotta di liberazione popolare come le FARC colombiane o i palestinesi del Fronte popolare o l’ex-PKK kurdo. Ma questa estate l’operazione “lista nera” ha compiuto un ulteriore salto di qualità, imponendo, tramite il giudice spagnolo Garzon, l’equiparazione tra l’ETA basca e Batasuna, organizzazione politica che notoriamente riscuote il consenso elettorale di una larga parte del popolo basco ed ha centinaia di eletti a livello europeo, regionale e locale. La conseguente messa fuori legge di Batasuna (bloccata in questi giorni dalle decisioni del Parlamento basco) è un ulteriore e senza precedenti salto di qualità nella repressione di qualsiasi voce dissonante rispetto al dominio USA e dei suoi alleati.
Se gli Stati Uniti stavano già cercando di far passare, a livello internazionale, la messa fuori legge non solo di tutte le organizzazioni della “lista nera” ma anche di quelle che manifestino “simpatia” o “solidarietà” o forniscano “aiuti politici ed economici” a tali organizzazioni, con Batasuna si è andato oltre: si mettono fuori legge organizzazioni per il solo fatto che non condannano i responsabili di attentati tramite bombe o omicidi politici, e che non ne permettono/agevolano, collaborando con la polizia, l’individuazione.
La risposta del movimento antiliberista italiano, ma direi di tutta la sinistra anticapitalista, a questo uso liberticida della categoria “terrorismo” è stata finora assai modesta: e a questo, al Forum sociale europeo, ci assumeremo la responsabilità di porre riparo. Ma è ora che tutti si esca dalla posizione difensiva in cui l’11 settembre ci ha oggettivamente collocato; e che, insieme a Gino Strada, si dica chiaro e forte che ci sono popoli “per i quali è sempre 11 settembre”, e, insieme a Chomsky, si affermi che non sarà il paese-guida del terrorismo a poter stilare la lista di chi ha diritto a lottare politicamente e di chi va cancellato con ogni mezzo.

Note

1 Newsweek, 11 settembre
2 Noam Chomsky in 11 settembre, le ragioni di chi?”, AAVV, ed. Odradek, 2002
3 Michael Hardt-Antonio Negri,“Impero”, Rizzoli, 2002, pag.55
4ibidem pag.55
5 ibidem pagg.310-312
6 Antonio Negri “I democratici gendarmi dell’ordine mondiale“ in Alias – supplemento a “il manifesto” 17 aprile 1999
7 ibidem
8 ibidem
9“Impero” pag.181
10 ibidem pag.187
11 ibidem pag.56
12 ibidem pag.14
13 ibidem pag.172
14 “I democratici gendarmi…“ in Alias op. cit.
15 il manifesto, 14 settembre
16 Washington Post, 15 settembre
17 il manifesto, 18 settembre
18 Salvatore Cannavò, Rivoluzioni, settembre 2002
19 N.Chomsky, op.cit.