L’imperialismo e il movimento operaio nel ‘900

1. La posta in gioco

Il 15 gennaio 1991 micidiali bombardamenti sull’Iraq danno il via all’operazione Desert Storm, “una guerra programmata in anticipo, con una mobilitazione di mezzi logistici, di risorse tecnologiche e di strumenti propagandistici, che supera di gran lunga, qualitativamente e quantitativamente, tutte le precedenti esperienze (secondo conflitto mondiale, guerra di Corea e del Viet-nam)1”. Una guerra che apre foschi scenari e suscita inquietanti interrogativi. Pochi giorni dopo, un articolo dell’Unità si preoccupa di prendere nettamente le distanze dal ricorso alla categoria di “imperialismo”, qualificata come “vecchio armamentario”: “La guerra come necessità intrinseca dello sviluppo capitalistico è un vecchio convincimento del marxismo, che non può essere tenuto nel contesto dell’economia capitalistica di questo fine secolo”. L’imperialismo in passato, “si riferiva a visioni strutturali di fase, non ad un rallentamento congiunturale che segue anni di espansione mondiale […] È assurdo pensare che i paesi capitalistici non abbiano altri mezzi per sostenere l’attività economica e risolvere i loro conflitti interni; e ancora ragionare come se l’utilizzo di questi mezzi non comporti infinitamente più consenso e benessere di quanto possa produrne una guerra”2. A quanti nel PCI avevano salutato con Occhetto la caduta dei governi comunisti nell’Est europeo come “il magnifico ‘89”, e si apprestavano a vivere in un mondo post guerra fredda fatto di mercato e democrazia, libertà e progresso (“progressisti” si vollero chiamare nella successiva competizione elettorale, dopo aver abbandonato alle ortiche l’abominevole nome di “comunista”), doveva certo apparire ben strano e fastidioso in quel non lontano ’91 la sola evocazione del termine da “vecchio armamentario” di “imperialismo”. Del resto, anche l’ultimo segretario del PCUS, Michail Gorbaciov, nella seconda metà degli anni Ottanta, si era adoperato per metterlo in soffitta, sostenendo la possibilità di una interdipendenza non conflittuale tra i vari paesi del mondo con sistemi socio-economici contrapposti, che riprendeva la teoria galbraitiana della “convergenza tra diversi sistemi”. Nel suo best seller del 1987, Perestrojka, l’espressione “imperialismo americano” – divenuta oramai canonica e stereotipata nei documenti e negli opuscoli di propaganda sovietici – viene sostituita da quella di “politica imperiale”3. Il ricorso alla “politica delle cannoniere” e alla guerra non viene più visto come un’implicazione necessaria del capitalismo contemporaneo, com’è nella teoria marxista dell’imperialismo, ma l’opzione – scorretta, quanto evitabile – di circoli militaristi: la crescita abnorme del complesso militar-industriale americano viene separata dalla struttura economico-sociale capitalistica.
La ripresa del dibattito sull’imperialismo, che la guerra del Golfo suo malgrado suscita, viene a rompere le uova nel paniere alle costruzioni ideologiche delle magnifiche sorti e progressive del mondo post ’89: questo mondo comincia con la distruzione di Baghdad, funesto annuncio di un nuovo (dis)ordine mondiale costellato puntualmente di ulteriori guerre condotte dagli USA e dalle principali potenze mondiali.
La posta in gioco intorno alla categoria di imperialismo è quindi ben più alta della pur importante discussione scientifica sull’adeguatezza o meno di essa: finisce per coinvolgere tutta la visione del mondo contemporaneo, delle sue strutture economiche e sociali, e le prospettive politiche che su tale visione si costruiscono. Discutere di imperialismo – dal momento in cui tale termine, agli inizi del XX secolo, è divenuto una specifica categoria marxista e non la generica designazione di una politica espansionistica – significa discutere del capitalismo contemporaneo in tutte le sue espressioni, e, dunque, delle scelte strategiche che i comunisti sono chiamati a compiere.

2. Colonialismo e imperialismo

Il termine imperialismo, costituito dalla parola “impero” per suggerire una dottrina o una politica di sviluppo della potenza statale, è stato impiegato correntemente nella storiografia per caratterizzare ogni estensione di sovranità (imperialismo dell’antica Roma, ad es.). Nella seconda metà del 1800, in particolare dagli anni 1870, il termine viene impiegato per designare la trasformazione dei possedimenti coloniali in un insieme organizzato, in imperi coloniali: una transizione terminologica che accompagna una transizione storica, in cui si completa la spartizione del mondo tra i principali Stati capitalistici4.
L’odierna categoria di “imperialismo” nasce dunque in concomitanza con l’espansione coloniale che a partire dall’ultimo decennio del 1800 si fa sempre più incalzante, al punto che, alla vigilia della guerra mondiale, le grandi potenze arrivano a coprire coi loro possessi l’85% della superficie del globo. “Fu il periodo che, convenzionalmente, da alcuni teorici della II Internazionale fu detto del ‘nuovo’ imperialismo perché i moventi e i fini erano mutati rispetto alle precedenti spinte colonialiste, nella misura stessa in cui le strutture della società capitalistica erano uscite trasformate dalla severa lezione della crisi recessiva iniziata nel 18735”.
Per il movimento operaio si trattava allora di comprendere donde provenisse la spinta alla spartizione del mondo, quali mutamenti l’avessero a tal punto accelerata e quale posizione assumere rispetto ad essa.
Dietro la stessa forma fenomenica del colonialismo – che aveva già contraddistinto la politica delle grandi potenze europee nei secoli e decenni precedenti (nel 1876 i domini coloniali della Gran Bretagna coprivano un’area di 22 milioni e 500 mila chilometri quadrati, con circa 252 milioni di abitanti6) – si cela un nuovo contenuto. Nel periodo del capitalismo mercantilista la colonia era essenzialmente fonte di tributi, materie prime e prodotti agricoli pregiati, posta al servizio esclusivo della metropoli. Col passaggio al capitalismo protoindustriale maturato tra ‘700 e ‘800 la colonia divenne anche mercato di assorbimento dei prodotti industriali della metropoli. Alle chiusure protezionistiche delle aree coloniali proprie del periodo mercantilistico si sostituisce il principio dell’open door, della porta aperta, “che servì sufficientemente a contenere la rivalità degli Stati industriali nei limiti di una ‘incruenta spartizione’ delle sfere di influenza economica nei tre grandi scacchieri della concorrenza internazionale, che erano l’Africa, l’Asia e gli arcipelaghi del Pacifico”. Ma le cose cambiano ancora con la grande crisi del 1873-1896 che spinge nuovamente i principali paesi capitalistici, con l’eccezione dell’Inghilterra, all’adozione di politiche protezionistiche, che favoriscono all’interno dei singoli Stati nazionali la formazione di potenti monopoli. I quali, grazie alla loro posizione sul mercato interno, mantengono alti prezzi, realizzando superprofitti che cercano sbocco sul mercato mondiale. È la prima “globalizzazione” ottocentesca: “Dagli anni ’80 fino alla vigilia della guerra mondiale, […] il valore delle merci importate e esportate si triplicò, nel quadro di una ‘economia mondiale’ che rappresentò una vera e propria ‘integrazione capitalistica del mondo’. Il capitalismo monopolistico e protezionista aveva soppiantato il capitalismo individuale liberista; ma la concorrenza, soffocata nei mercati nazionali, si proiettò sul piano internazionale e a un livello tale da richiedere la mobilitazione di ingenti risorse, che solo il capitale finanziario, risultato della fusione di capitale bancario e industriale, fu in grado di soddisfare. Un imponente movimento di esportazione di capitali accompagnò il rilancio del commercio mondiale, servendo esso stesso ad aprire la strada all’esportazione di merci. […] L’espansione coloniale diventa solo uno degli aspetti della politica di conquista dei mercati”: il flusso di investimenti dei capitali non va solo in direzione dei paesi coloniali, ma anche verso i paesi ad avanzato sviluppo. È una corsa all’accaparramento dei mercati in cui la nuova pratica del protezionismo intende non più difendere i mercati nazionali, ma aggredire il mercato mondiale: le colonie non sono più solo sbocchi commerciali, ma aree di investimento di capitali; al dominio indiretto informale esercitato attraverso il sistema dei protettorati o dei ‘trattati ineguali’ o del privilegiamento di compagnie concessionarie, subentrò la conquista diretta e la chiusura del più vasto mercato coloniale possibile entro la cornice di un impero formale, saldamente protetto e monopolizzato, dove il capitale finanziario investiva anche a costo di danneggiare settori dell’area metropolitana7.
Il nuovo colonialismo di fine ‘800 primo ‘900 è quindi intimamente diverso dal vecchio, pur conservandone alcuni tratti formali: esso è figlio della nuova fase capitalistica dei monopoli e del capitale finanziario, che aggredisce il mercato mondiale in una concorrenza sfrenata a tutto campo. In questo contesto va compresa anche l’occupazione di territori non immediatamente funzionali agli interessi dei capitali metropolitani: non dunque per utilizzarli profittevolmente, ma per impedirne l’occupazione da parte della potenza concorrente. “Politica coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi prima del capitalismo stesso. Roma, fondata sulla schiavitù, condusse una politica coloniale e attuò l’imperialismo. Ma le considerazioni generali sull’imperialismo, che dimentichino le fondamentali differenze tra le formazioni economico-sociali o le releghino nel retroscena, degenerano in vuote banalità […] Perfino la politica coloniale dei precedenti stadi del capitalismo si differenzia essenzialmente dalla politica coloniale del capitale finanziario. La caratteristica fondamentale del modernissimo capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori. Tali monopoli sono specialmente solidi allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. […] Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle sorgenti di materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie”8.

3. Teorie dell’imperialismo tra fine ‘800 e primo ‘900

La comprensione di questi passaggi è essenziale per cogliere la genesi della categoria marxista di imperialismo e la sua specificazione storica. L’espansionismo coloniale implica sempre sottomissione dell’indigeno, sfruttamento di risorse, ideologie giustificatrici della superiorità dei dominatori; le politiche imperialistiche delle principali potenze erano sotto gli occhi di tutti e la pubblicistica liberale parlava di imperialismo altrettanto di frequente quanto quella socialista; oggi, quasi tutti i manuali di storia per i licei dedicano un capitolo alla “età dell’imperialismo”. Ma dopo questo riconoscimento, sono in pochi ad esaminare il nesso tra espansionismo coloniale e struttura economico-sociale dei monopoli capitalistici e a cogliere in questi ultimi il carattere determinante dell’imperialismo, rispetto al quale l’espansionismo coloniale assume carattere subordinato e diviene soltanto un aspetto dell’imperialismo stesso. L’identificazione erronea di imperialismo e colonialismo porta a concludere che con la “decolonizzazione” (creazione di Stati formalmente indipendenti liberatisi del dominio coloniale), il cui processo è in gran parte compiuto alla metà degli anni ’60, sarebbe finita anche l’età dell’imperialismo (come fanno Hardt e Negri nel loro libro Impero).
Il fecondo dibattito dei primi del ‘900 verte appunto sull’analisi del meccanismo capitalistico e sui mutamenti intervenuti al suo interno: che nesso c’è tra questi ultimi e le politiche espansionistiche?
Si possono individuare in prima istanza due grandi “correnti”: l’una separa il capitalismo dall’imperialismo (che diviene una pura e semplice opzione politica, frutto di una deviazione da un “sano” e “corretto” sviluppo capitalistico del libero mercato); l’altra, che trova nel testo di Lenin la migliore e più organica sintesi, individua nella struttura stessa del capitalismo mondiale il fondamento dell’imperialismo.
Tra i principali interpreti del primo indirizzo possiamo annoverare, sullo scorcio del XIX secolo, una particolare corrente d’opinione pubblica d’origine borghese e pacifista, impregnata di spiriti liberisti, che si richiamava espressamente all’antimperialismo e che permeò di sè la maggior parte delle prime forme del socialismo moderno nel Regno Unito9 fino ad anticipare la teoria dell’imperialismo di Hobson10, il quale, per il rigore scientifico con cui espose i dati e la grande indignazione morale con cui denunciò i guasti delle politiche imperialistiche, meritò l’apprezzamento di Lenin. Il libro di Schumpeter, pubblicato alla fine del primo conflitto mondiale, sostiene che l’imperialismo sarebbe frutto della sopravvivenza di tendenze legate a situazioni precapitalistiche, alla mentalità di caste feudal-militari, agli interessi dinastici e ad interventi perturbatori dello Stato, quindi ad elementi politici e sociologici che ostacolano il dispiegarsi della razionalità capitalistica11.
Questa “corrente” ha continuato a influenzare il dibattito teorico-politico fino ai giorni nostri. Al fondo di essa vi è una visione apologetica del capitalismo come sistema che può prosperare anche senza crisi e contraddizioni violente, che si esprimono al livello più alto nelle guerre. Chi abbraccia tale visione, chi vede nel capitalismo – magari riformato ed emendato dei suoi peggiori squilibri – l’unico orizzonte possibile per l’umanità, cerca qualunque altra spiegazione, purché non sia l’imperialismo, alle guerre scatenate nell’ultimo decennio: guerre “umanitarie”, di “polizia internazionale”, “contro il terrorismo”, ma non guerre imperialistiche, perché il ricorso a quest’ultima spiegazione metterebbe in luce il carattere violentemente contraddittorio e intimamente generatore di conflitti del capitalismo giunto al suo stadio monopolistico, con la più elevata centralizzazione e concentrazione di capitali. Sostenere la persistenza della categoria di imperialismo nella fase attuale, implica necessariamente la messa in crisi di qualsiasi progetto riformistico del capitalismo e di qualsiasi visione irenica del suo sviluppo. È per questo che la maggioranza del gruppo dirigente del PCI che si apprestava a passare nel campo della liberaldemocrazia, di fronte all’operazione Desert Storm nel ’91 si preoccupava di prendere le distanze dalla teoria dell’imperialismo.
I marxisti si cimentano invece con un’analisi della struttura economica del mondo loro contemporaneo. Tra i testi più significativi possiamo ricordare L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg12, secondo cui l’accumulazione capitalistica non può procedere indefinitamente all’interno del sistema; l’espansione in aree non capitalistiche diventa quindi una necessità assoluta per la sopravvivenza del sistema. “L’analisi complessa della Luxemburg s’incentrava sul fatto che, in presenza della riproduzione allargata dell’accumulazione, non sarebbe bastato il mercato interno; in breve: qualcuno che non produce deve comprare”13.
Il lavoro di Hilferding si soffermava – sulla base delle indicazioni marxiane del Capitale – sui processi di concentrazione e centralizzazione del capitale su scala sempre più ampia e sulla costituzione del capitale finanziario (fusione di capitale industriale e bancario, con predominio del secondo), che portavano al capitalismo monopolistico. Caratteristica essenziale di questo nuovo stadio del capitalismo era non tanto l’esportazione di merci, quanto l’esportazione di capitali. Il capitale finanziario ha bisogno di uno “Stato forte, capace di far valere i suoi interessi finanziari all’estero e di servirsi della propria potenza per estorcere agli Stati meno potenti vantaggiosi trattati di fornitura e favorevoli transazioni commerciali; uno Stato che possa spingersi in ogni parte del globo per fare del mondo intero zona di investimento del proprio capitale finanziario; uno Stato infine sufficientemente forte per condurre una politica espansionistica e per potersi incorporare nuove colonie. Mentre il liberalismo era contrario ad una politica di forza dello Stato […] ora la politica di forza diviene una precisa e incondizionata richiesta del capitalismo finanziario; ciò avviene comunque anche senza tener conto del fatto che le esigenze dell’esercito e della flotta assicurano proprio ai più forti settori capitalistici uno smercio imponente con utili per lo più monopolistici”14.
In Imperialismo ed economia mondiale (1915) Bucharin interpreta l’imperialismo quale caratteristica necessaria del capitalismo nella sua fase di sviluppo più avanzato, in un’economia mondiale segnata da contraddizioni e antagonismi incomponibili. Il monopolio capitalistico finanziario non fa che trasferire la concorrenza capitalistica dal piano interno al piano internazionale tra grandi supermonopoli che hanno comunque la loro base all’interno dei singoli Stati capitalistici: “Nella società capitalistica la guerra non è altro che uno dei metodi della concorrenza capitalistica, quale si esplica sul piano dell’economia mondiale. Perciò la guerra è una legge immanente di una società che produce sotto la pressione delle cieche regole di un mercato mondiale dallo sviluppo caotico, e non di una società che disciplini coscientemente il processo di produzione e di scambio. Internazionalizzazione della vita economica non significa affatto “internazionalizzazione degli interessi capitalistici”, conciliazione dei gruppi capitalisti in una superiore unità del capitalismo mondializzato. “In realtà il fenomeno è molto più complicato di quel che credono gli opportunisti nel loro ottimismo. L’internazionalizzazione della vita economica può inasprire, e inasprisce di fatto al massimo grado, l’antagonismo esistente tra gli interessi dei vari gruppi nazionali della borghesia. Lo sviluppo degli scambi commerciali non implica affatto un rafforzamento della ‘solidarietà’ tra i gruppi che vi sono interessati: al contrario, può essere accompagnato da una esasperazione della concorrenza, da una lotta per la vita o la morte”15.
Il più celebre testo di Lenin, L’imperialismo quale tappa più recente del capitalismo16, utilizza le elaborazioni marxiste precedenti, sottraendole all’unilateralità e inserendole in un quadro sistematico e coerente, che riesce a dar ragione, a partire dai mutamenti subiti dal capitalismo e già analizzati da Hilferding e Bucharin, tanto della “spartizione del mondo tra le grandi potenze” (è il titolo del capitolo VI), e, quindi dell’oppressione e dello sfruttamento da queste esercitato nei confronti dei popoli del mondo, chiamati a sollevarsi in una lotta antimperialista; quanto dei conflitti interimperialistici che la “spartizione del mondo tra i complessi capitalistici” (è il titolo del capitolo V) comporta. Nella sintesi leniniana, insomma, l’imperialismo presenta sempre un duplice carattere strutturale: la tendenza all’espansione in aree non capitalistiche o non capitalisticamente sviluppate, allo sfruttamento e all’oppressione dei popoli (che è, ai tempi di Lenin, il colonialismo); la tendenza allo scontro tra grandi potenze imperialiste per la redistribuzione di aree, materie prime strategiche, mercati, sbocchi agli investimenti capitalistici (che può assumere – come ha assunto – la forma della guerra mondiale interimperialistica): contraddizioni interimperialistiche.

4. Tra due guerre mondiali

Le analisi marxiste sull’imperialismo del primo novecento furono sollecitate dalle trasformazioni che la struttura del mondo in modo travolgente stava subendo, e dalla guerra mondiale. Non bisogna dimenticare che la teoria dell’imperialismo servì ai bolscevichi per denunciare il carattere di tale guerra e per non lasciarsi coinvolgere nelle “unioni sacre” nazionali, come fece purtroppo la maggior parte dei partiti socialisti della II Internazionale. Individuando il nemico principale – causa prima dell’oppressione coloniale e delle guerre interimperialistiche – nei grandi monopoli capitalistici finanziari in concorrenza tra loro per la spartizione del mondo, la teoria dell’imperialismo costituiva un formidabile strumento per unire al livello più alto, in un fronte comune, le lotte di liberazione nazionale dei popoli oppressi dal colonialismo e le lotte del proletariato dei paesi capitalistici: forniva un fondamento analitico e scientifico al progetto comune di unificazione delle lotte degli oppressi di tutto il mondo. Unità che non era affatto scontata: buona parte della cultura della II Internazionale, compresa quella di un marxista per altri versi rigoroso come Antonio Labriola, tollerava o approvava il colonialismo. La categoria leniniana di imperialismo contribuì a “leggere” nella sua struttura profonda il mondo contemporaneo per trasformarlo.
La struttura del mondo capitalistico non muta sostanzialmente nel periodo tra le due guerre; nei principali paesi si accentua anzi il ruolo dello Stato a difesa dei monopoli nazionali e nel finanziamento del complesso militar-industriale: la guerra imperialista – di conquista di territori per il controllo monopolistico delle materie prime e di rispartizione del mondo – è anzi sempre più chiaramente la via che le classi dominanti scelgono per uscire dalla crisi, tanto nei paesi fascisti che in quelli liberal-democratici (non il New Deal, ma la partecipazione alla guerra fu il vero volano dell’economia USA dopo la grande crisi del 1929).

5. Imperialismo e lotte antimperialiste nel secondo dopoguerra (1945-1991)

È nel secondo dopoguerra che intervengono alcuni mutamenti sostanziali. In primo luogo, con la formazione delle “democrazie popolari” nell’Europa centro-orientale e con la vittoria della rivoluzione cinese, si costituisce un “campo” di paesi ad economie non capitalistiche, di transizione verso il socialismo, paesi che stabiliscono un controllo centrale sulle proprie risorse e materie prime, sul commercio estero, sulle transazioni finanziarie, che organizzano un proprio mercato interno chiuso alla penetrazione imperialistica. La presenza di questo “campo socialista” non solo riduce le possibilità di manovra a livello mondiale delle grandi potenze imperialiste, che devono valutare fin dove e fino a quanto possano spingersi con la politica delle cannoniere per imporre i loro diktat ai popoli, ma favorisce il processo di decolonizzazione con la costituzione di Stati formalmente indipendenti. Tale processo – val la pena sottolineare – non sarebbe stato così rapido ed espansivo senza la presenza di questo “campo”, di questa poderosa retrovia per le lotte di liberazione nazionale, che imponeva, tra l’altro, alle forze imperialiste di impugnare propagandisticamente la bandiera della libertà e dei diritti dei popoli per contrastare l’influenza del modello socialista: grazie a questa presenza la vecchia politica coloniale appariva agli occhi del mondo assolutamente ingiustificabile.
Messo nell’angolo dall’avanzata dei movimenti di liberazione nazionale anticoloniali, il vecchio colonialismo imperialista dovette cedere il passo ad una nuova forma di penetrazione imperialistica: non c’era più un dominio diretto, coloniale dei paesi imperialistici, che imponevano i propri emissari di governo e i propri funzionari, ma un controllo indiretto operato attraverso un ceto politico locale piegato ai voleri delle potenze imperialistiche. Dall’America Latina, al Medio Oriente, all’Africa, all’Asia, ogni qualvolta dei governi locali cercavano di fare una politica di difesa degli interessi del paese, stabilendo forme di controllo sulle materie prime e sui mercati, limitando la penetrazione dei grandi monopoli imperialisti, sono intervenuti colpi di Stato, e, se questo non riusciva, interveniva l’aggressione militare, o fomentando “guerre locali” interne, etnicizzando i conflitti, o con l’aiuto di uno Stato-fantoccio che ben si prestava a rendere i suoi servigi alle potenze imperialiste, o con l’intervento militare diretto. Nella seconda metà del ‘900, quando – per l’impetuoso irrompere del processo di decolonizzazione – le forze dell’imperialismo hanno fatto ricorso ad una nuova strategia, si sono avuti numerosi interventi di tutte le tipologie su ricordate: dal colpo di stato di Pinochet contro il governo Allende all’aggressione americana al Vietnam. I mezzi usati per imporre questo dominio “neocoloniale” (nel senso che non si tratta del vecchio colonialismo, che privava direttamente i popoli dell’indipendenza formale, ma del controllo indiretto – attraverso governanti Quisling – dei territori ex coloniali) sono stati quelli “classici” del ricatto economico e dell’aggressione militare.
Questa politica di massiccio e multiforme intervento in ogni parte del mondo è stata praticata principalmente dagli USA (ma non mancano interventi di Francia e Inghilterra), la potenza capitalistica che, con la seconda guerra mondiale, conquista decisamente il primato economico e militare rispetto agli altri imperialismi. Gli interventi degli USA nelle diverse forme, dal ricatto economico all’impegno militare diretto, sono volti essenzialmente a difendere gli interessi dei grandi monopoli americani (petrolio, telecomunicazioni, agro-industria). È dunque corretto parlare di “imperialismo americano”; come fa nella seconda metà degli anni ’60 il redattore della Monthly Review, Harry Magdoff, in piena esplosione della guerra del Vietnam (e della crescente opposizione negli USA e in Europa ad essa), in un libro intitolato L’età dell’imperialismo – l’economia della politica estera USA, in cui individua “alcuni tratti del tutto nuovi” dell’imperialismo, quali “(1) lo spostamento dell’accento principale dalla rivalità per la divisione del mondo alla lotta contro la riduzione dell’area imperialistica; (2) il nuovo ruolo degli Stati Uniti come organizzatori e dirigenti del sistema imperialistico mondiale; (3) la nascita di una tecnologia che ha un carattere internazionale”17. In particolare, riguardo al punto 1, sottolinea: “L’inizio della nuova fase data dalla rivoluzione russa. Prima della prima guerra mondiale le caratteristiche principali dell’imperialismo erano la sua espansione fino a coprire il pianeta, e i conflitti tra le potenze per la redistribuzione dei territori e delle sfere d’influenza. Con la rivoluzione russa viene introdotto un nuovo elemento nel conflitto tra le potenze: l’urgenza di riconquistare quella parte del mondo che si è sottratta al sistema imperialistico e la necessità di impedire che altre abbandonino il sistema. Con la fine della seconda guerra mondiale l’espansione della parte socialista del mondo e la rottura della maggior parte del sistema coloniale ha reso più urgente la necessità di salvare quanto possibile del sistema imperialistico e di riconquistare i territori perduti. In questo quadro la conquista assume forme diverse, a seconda delle circostanze: forme militari e politiche, come pure economiche […] Né subito dopo la rivoluzione russa, e neppure ai giorni nostri l’obiettivo principale di estendere e (ovvero) difendere le frontiere dell’imperialismo comporta il ripudio delle rivalità tra le potenze imperialistiche” (pp. 74-75).
Insomma, per tutta una lunga fase, battezzata (impropriamente, in quanto occulta la “guerra calda” imperialistica contro i popoli ribelli) “guerra fredda”, la necessità di contrastare le forze che avevano rotto la catena imperialistica mette in secondo piano – ma non elimina assolutamente! – l’altro aspetto dell’imperialismo, quello della rivalità e dei conflitti tra grandi potenze per la ripartizione del mondo, le contraddizioni interimperialistiche. Queste non si manifestano – né possono manifestarsi, dati i rapporti di forza militari, sproporzionati a vantaggio degli USA, e data la necessità di fare blocco comune contro il blocco antimperialista – sotto forma di guerre militari, ma, al più, di guerre commerciali. Questa situazione di sproporzione di forze militari all’interno del campo imperialista si profila già all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale. Scriveva Magdoff nel 1966: “Fino alla fine della seconda guerra mondiale le operazioni politiche e militari del sistema imperialistico mondiale erano condotte secondo il metodo tradizionale dello schieramento per blocchi: gli interessi competitivi all’interno di un blocco erano temporaneamente soffocati in nome della unità offensiva e difensiva nei confronti dell’altro blocco. La composizione di questi blocchi mutava nel tempo col mutamento degli obiettivi tattici. A partire dal 1945, il fatto nuovo è la pretesa degli Stati Uniti di governare l’intero sistema imperialistico. In seguito alla crescente forza economica e militare e alle distruzioni inflitte dalla guerra ai suoi rivali, l’America aveva la capacità e la possibilità di organizzare e dirigere il sistema imperialistico moderno. L’organizzazione del sistema imperialistico postbellico si realizzò con la mediazione di istituzioni internazionali create verso la fine della guerra – ONU, World Bank, IMF – in ciascuna delle quali gli USA furono in grado per varie ragioni di esercitare una funzione dirigente. Il sistema si rafforzò con l’attività dell’UNRRA, del piano Marshall, e dei diversi programmi economici e militari finanziati e controllati da Washington […] Un aspetto importante della nuova posizione dirigente degli USA è la sua sostituzione alle altre potenze imperialistiche […] per molti aspetti l’intera storia del dopoguerra è stata una fase del’avanzata americana per assumere le posizioni di sicurezza che erano state in precedenza abbandonate dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dall’Olanda e dal Belgio […] Mentre le aziende americane controllavano prima della seconda guerra mondiale meno del 10% di grezzo del Medio Oriente, e il 72% era controllato dalla Gran Bretagna, oggi le posizioni sono rovesciate: gli USA controllano quasi il 59%, mentre la quota britannica è scesa a poco più del 29%. Le ragioni di questo rovesciamento non si devono cercare in una maggiore abilità o ingegnosità dell’industria petrolifera americana, quanto piuttosto nella politica verso il Medio Oriente, nell’impiego, durante la seconda guerra mondiale, del meccanismo americano degli ‘affitti e prestiti’, nei programmi postbellici di aiuti all’estero…” (ivi, pp. 75-79).
L’egemonia americana nel campo delle grandi potenze capitalistiche (in quello che Magdoff chiamava “sistema imperialistico mondiale”) era ben evidente già negli anni ’50 – ’60, così come appariva chiaro che le contraddizioni interimperialistiche divenivano secondarie rispetto alla contraddizione principale rappresentata dall’esistenza di un “campo” antimperialista che, almeno fino alla metà degli anni ’70 (1975: gli USA sono costretti dalla tenacissima resistenza vietnamita ad abbandonare Saigon), continuava a sottrarre aree importanti al controllo capitalistico.
Nonostante i mutamenti intervenuti nei rapporti di forze tra le grandi potenze imperialistiche, caratterizzati dall’assenza di blocchi imperialistici rivali, come era stato nelle prime due guerre mondiali, la categoria di “imperialismo” continuava a giusto titolo ad essere ampiamente utilizzata dai partiti comunisti, dai movimenti di liberazione nazionale, dagli studiosi marxisti per leggere la struttura del mondo contemporaneo. Essa riusciva a spiegare coerentemente la politica aggressiva degli USA che tendono ad occupare le posizioni delle ex potenze coloniali (Gran Bretagna, Francia), a controllare monopolisticamente le principali fonti di materie prime, ad imporre il primato del dollaro a spese delle altre economie capitalistiche. Attraverso la categoria di imperialismo (piuttosto che quella geograficamente neutra di “Nord-Sud”) si inquadra coerentemente tutto il sistema della dipendenza economica, dello scambio ineguale e della rapina intensiva di risorse dei paesi non capitalistici o capitalisticamente poco sviluppati.

6. L’imperialismo dopo la disgregazione del campo antimperialista (dal 1991 ad oggi)

Nell’ultimo quarto del ‘900, proprio a ridosso della grandiosa vittoria vietnamita, il campo antimperialista entra in crisi (crisi dell’URSS e dei paesi socialisti con essa economicamente e militarmente legati; crescenti difficoltà e ritirate dei movimenti antimperialisti in tutto il mondo, dal Centro America al Sud Est asiatico, al Corno d’Africa) e subisce tra il 1989-1991 una sconfitta epocale. Non è possibile affrontarne in questo articolo – anche in modo estremamente sommario – le ragioni. Come dopo una guerra mondiale, si ridisegnano i confini del mondo, si schiudono le porte d’accesso alla penetrazione imperialistica in una vastissima parte del globo da cui per 70 anni era stata esclusa. Non è un caso che la parola “globalizzazione” diventi di uso corrente solo dopo il 1991, quando si ricostituisce il mercato capitalistico mondiale. Tutti insieme – e in competizione tra loro – i paesi imperialisti si lanciano sulle spoglie dell’Unione Sovietica.
La disgregazione del campo antimperialista, crea le condizioni perché si ripresenti in primo piano la contraddizione tra paesi capitalistici per l’ennesima spartizione del globo. Ma questa contraddizione, a causa dello squilibrio a tutto vantaggio degli USA dei rapporti di forza militari costruiti dal secondo dopoguerra (grazie anche al ruolo egemone nella lotta contro il campo antimperialista assunto dagli USA), non può manifestarsi, per il momento, nella forma del conflitto militare diretto tra grandi potenze. La consapevolezza di un primato militare e di un possibile arretramento economico rispetto ad altre aree capitalistiche (quella della UE in particolare), ha spinto l’amministrazione USA ad elaborare, sin dal 1991, un piano di intervento militare a tutto campo, volto ad occupare e controllare monopolisticamente, prima che vi arrivino i suoi potenziali concorrenti, le zone chiave dell’economia mondiale, a cominciare dai paesi produttori di petrolio e dai corridoi energetici18. La contraddizione c’è, ma non può manifestarsi nell’immediato come scontro militare diretto tra imperialismi. Si può ragionevolmente prevedere, tuttavia, che l’acuirsi della recessione economica su scala mondiale (soltanto la Cina attualmente continua a vivere una fase espansiva) accrescerà il livello di concorrenza e conflittualità tra grandi monopoli e tra le potenze statuali che continuano a supportarli, fino a far diventare question de vie ou de mort il controllo di aree di investimento capitalistico, mercati e materie prime.
Questa situazione dei rapporti di forza militari a livello mondiale non significa certo – come sostiene la tesi 14 di maggioranza per il congresso del PRC – la fine dell’imperialismo quale i marxisti, a partire da Lenin, hanno definito. Esso continua ad operare prepotentemente nel mondo attuale. Né tanto meno la pesantissima sconfitta del campo antimperialista intervenuta nel 1989-91 può autorizzare a decretare la fine dell’imperialismo stesso. Ben al contrario! La sconfitta di quel campo ha aperto una fase nuova, in cui si riaffacciano gli appetiti e la concorrenza dei grandi monopoli imperialisti e degli apparati statuali e militari che li supportano per la rispartizione del mondo. Concorrenza violenta che sinora, nell’arco di soli 11 anni (1991-2001), si è manifestata in ben tre micidiali aggressioni militari (1991 Iraq, 1999 Jugoslavia, 2001 Afghanistan), condotte dagli USA per gettare tutto il peso della loro supremazia militare contro concorrenti che, sul piano economico, nell’ultimo quarto di secolo hanno strappato loro diverse posizioni.
La categoria di imperialismo continua ad essere fondamentale non solo sul piano dell’analisi economico-politica, ma anche su quello della mobilitazione e della lotta. È fondamentale per spiegare le ultime guerre e quelle che si prospettano anche nel breve periodo, smascherando la propaganda imperialista che le presenta come guerre umanitarie, per la libertà, la democrazia, i diritti violati, ecc. È fondamentale per unire il proletariato delle metropoli capitaliste e i popoli oppressi, ancorando marxianamente le motivazioni profonde della guerra alla struttura economico-sociale del capitalismo contemporaneo, che continua ad essere, come ai tempi di Lenin, quello dei grandi monopoli. I quali sono cresciuti a tal punto da costituire potentissime filiere di produzione e immani concentrazioni di capitale finanziario che travalicano i confini dei singoli Stati. E gli Stati, gli Stati capitalisticamente più sviluppati, non sono affatto in estinzione, ma costituiscono il supporto indispensabile all’espansione dei grandi monopoli – oggi in maniera molto più diretta e sfacciata che in passato, grazie anche alla sconfitta subita dal movimento operaio su scala mondiale. In tutti gli Stati imperialistici, in primo luogo negli USA, ma anche in Inghilterra, Germania, Francia, Giappone, Italia, cresce il peso del complesso militar-industriale, aumenta il trasferimento di risorse dai servizi sociali all’apparato militare.
La nozione di imperialismo ci consente di leggere e inserire in un quadro organico e coerente tutti questi fenomeni.

Note

1 Enzo Santarelli, “Come è stata costruita la guerra del Golfo”, in Imperialismo, Socialismo, Terzo Mondo, Urbino, 1992, p. 207

2 S. Biasco, “Guerra giusta o guerra ingiusta, comunque non guerra imperialista” L’Unità, 28.1.91.

3 Cfr. M. Gorbaciov, Perestrojka, Milano 1987.

4 Cfr. R. Gallissot, “Impérialisme” in G. Labica, G. Bensussan, Dictionnaire critique du marxisme, PUF, Paris, 1985
5 Cfr. R. Monteleone, Teorie sull’imperialismo, Ed. Riuniti., Roma, 1974, p. 9.

6 Cfr. R. Villari, Storia contemporanea, Laterza, Bari, 1990, p. 321

7 Cfr. R. Monteleone, op. cit., pp. 10- 14..

8 V. I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, La città del sole, Napoli, 2001, p. 97-98.

9 Cfr. Enzo Santarelli, Imperialismo, socialismo, Terzo mondo, QuattroVenti, Urbino, 1992, pp. 54-55; Olivier Macdonagh, Anti-imperialism of free trade; Riccardo Faucci, “L’imperialismo tardo vittoriano continuità o cambiamento qualitativo?”, in Studi storici 1971 p. 72.

10 J. Hobson, L’imperialismo [1902], ed. it., Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1996

11 J. A. Schumpeter, Sociologia dell’imperialismo [1919], Laterza, Bari, 1972.

12 R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale [1913], trad. it. Einaudi, Torino, 1960.

13 Malcom Sylvers, Per un aggiornamento della teoria dell’imperialismo, Atti del seminario di Carrara, edizioni Punto rosso, Milano, 1994, p. 17 sgg.

14 R. Hilferding, Il capitale finanziario [1910], trad. it., Feltrinelli, Milano, 1961, in R. Monteleone, op. cit., p. 387.

15 N. Bucharin, Imperialismo ed economia mondiale, in R. Monteleone, op. cit., p. 505-507.

16 Così suona alla lettera il titolo del “saggio popolare” di Lenin ed è forse più corretto oggi tradurre (Imperializm’, kak novejsij etap kapitalizma).
Cfr. la riproduzione del frontespizio della prima edizione del 1917 in Lenin, L’imperialism… op. cit.

17 H. Magdoff, L’età dell’imperialismo, Dedalo, Bari, 1971, p. 74.

18 Cfr. Allegretti, M. Dinucci, D. Gallo, La strategia dell’Impero, Edizioni Cultura della Pace, Firenze, 1992.