L’imperialismo americano sfida il resto del mondo

Undici anni dopo la prima guerra del Golfo i venti di guerra soffiano più impetuosi che mai. L’obiettivo è di nuovo Baghdad, il primo, ma non l’ultimo, dei paesi iscritti nella lista nera. Le rive dell’Eufrate saranno il prossimo campo di battaglia. Lo scenario che si profila è terrificante. Al fianco di Bush junior lo scalpitante macellaio del popolo palestinese, Sharon, tiene il dito sul grilletto di oltre 400 testate nucleari israeliane in attesa dell’ora X.
Una vera Armageddon rischia di divampare in tutto il Medio Oriente. Ed è allarmante (anche se un po’ tragicomico) che Bush si domandi: “Ma perché ci odiano tanto?”. Già, perché?
Nel giro di pochi mesi, dopo l’Afghanistan, la politica statunitense sembra essersi avvitata in una delirante spirale di onnipotenza militare. Il clima interno sta diventando peggiore di quello dei tempi di Mc Carty: i nemici si annidano ovunque, non soltanto nei lontani “stati canaglia” da annientare, ma anche nella casa del vicino. Il centro di comando della politica si è trasferito dalla Casa Bianca al Pentagono. La sicurezza nazionale sembra essere stata riconsegnata ai killers professionisti di Langley. I vocaboli classici della diplomazia in tempo di pace sono sempre più rari nel lessico di Colin Powell. Invece di negoziati, mutua comprensione, incremento delle relazioni e rilancio dell’ONU, i termini più ricorrenti sono guerra preventiva, first strike, ultimatum, minacce nucleari, assassinio politico, colpi di stato (ultimo quello di Caracas).
Tutto ciò non poteva non provocare una reazione uguale e contraria.
Il fatto nuovo della politica internazionale è, infatti, rappresentato dalle dimensioni assunte dal movimento della pace, o meglio dal fronte contrario alla guerra, rispetto alle tre precedenti guerre imperialiste, Iraq, Kosovo, Afghanistan.
Mai prima d’ora gli Stati Uniti si erano trovati in una tale difficoltà politica e diplomatica. Il solo alleato su cui possono contare è appunto Sharon. Per Tony Blair il discorso è già diverso. Sebbene il premier britannico sia totalmente schierato con Bush, deve fare i conti con un’opposizione interna alla guerra in continua crescita: all’interno del suo partito, ma soprattutto nell’opinione pubblica inglese.
Il passaggio cruciale dalla strategia della dissuasione a quello della guerra preventiva ha fatto scoppiare a cielo aperto più contraddizioni di quante ve ne siano state negli ultimi 50 anni. Ed è sintomatico che questa opposizione riprenda quota anche negli Stati Uniti dopo l’ondata nazional-patriottica seguita al crollo delle Torri gemelle.
La qualità e l’ampiezza dell’opposizione alla guerra contro l’Iraq è radicalmente diversa dagli ultimi tre conflitti: parallelamente ai tradizionali movimenti pacifisti, che benché consistenti sono pur sempre minoritari, hanno fatto la loro comparsa sulla scena mondiale governi, parlamenti, confessioni religiose, sindacati, organizzazioni umanitarie, uomini di cultura, giornalisti, ecc.
Per la prima volta dopo parecchi anni si ricomincia a parlare di diritto di veto all’ONU.
Parigi, Berlino, Tokio, Mosca, Pechino, manifestano apertamente il loro dissenso da Washington. È ormai chiaro che la partita che si sta giocando non riguarda la lotta al terrorismo né tanto meno la tutela del diritto internazionale. La posta in gioco è un’altra: se il pianeta debba accettare, oppure no, di essere dominato dalla soverchiante potenza militare dell’imperialismo americano, potenza spesso utilizzata, ben più di Bin Laden, a fini terroristici.
Abbiamo ascoltato inviti alla pace di persone insospettabili: quella di mons. Ruini, presidente della CEI e quella del cardinal Ratzinger, punta di estrema destra vaticana.
Abbiamo letto pesanti ammonimenti come quello di Sergio Romano sul Corriere della Sera: “Attenti, in America comanda un gruppo di persone che vuole stravincere militarmente. Oggi Baghdad, domani chissà”. Le settimane passano ma quel “gruppo di persone” sembra diventato cieco e sordo, e continua a mantenere il dito sul grilletto. Ormai non si domandano se e contro chi fare la guerra, ma come e quando cominciarla.
Riusciremo a fermarli?
Intendiamoci, nulla è scontato e irreversibile. Le pressioni ed i ricatti americani sui paesi alleati e “amici”, nonché sull’ONU, sono fortissimi.
I loro preparativi militari procedono implacabili, incuranti di tutto e di tutti.
Non è escluso che Parigi e Berlino, pur contrari alla guerra all’Iraq, ci ripensino e finiscano per rientrare nei ranghi con qualche escamotage diplomatico e qualche distinguo. La Russia di Putin, non ancora uscita dallo sfacelo economico e militare post sovietico, non può esporsi più di tanto. La Cina, unica potenza in grado di opporre dinieghi all’imperialismo americano, ha bisogno di tempo per colmare il divario economico e militare con gli Stati Uniti e non intende lasciarsi distrarre da questa priorità strategica.
Il vulcano delle contraddizioni potrebbe smettere provvisoriamente di fumare, ma nel sottosuolo potrebbero accumularsi forze incontenibili pronte ad esplodere. Chissà, vedremo. Per il momento l’unica cosa certa è che “l’amico George” se ne strafotte di quello che pensa il mondo.

Ne parliamo con Manlio Dinucci, studioso attento e documentato della micidiale accoppiata guerra-imperialismo, tema centrale dei suoi articoli su il manifesto. Ma prima di passare alle domande vorrei ricordare ai lettori l’ottimo libro Tempesta nel deserto che Dinucci ha scritto insieme al Premio Nobel Daniel Bovet, nel 1991 mentre era in corso la prima guerra del Golfo, e il successivo (sempre del 1991) intitolato Hyperwar in cui fa un bilancio della guerra (sono ambedue pubblicati dalle Edizioni Cultura della Pace, fondate da Ernesto Balducci). Ho riletto il primo in questi giorni difficili e l’ho trovato di un’attualità straordinaria. Di grande attualità è anche il libro La strategia dell’impero (Edizioni Cultura della pace, 1992), che Dinucci ha scritto con Umberto Allegretti e Domenico Gallo, in cui si analizza, sulla base dei documenti ufficiali, il riorientamento della strategia statunitense dalla Guerra fredda al dopo Guerra fredda.

Allora Manlio, la guerra incombe, al Pentagono squillano le fanfare e rullano i tamburi. I piani di guerra sono ultimati. Ormai Bush non ha più bisogno di pretesti. Cerca solo di convincere gli americani che gli Stati Uniti sono stati investiti da Dio del compito di punire i cattivi e che i loro soldati sono invincibili, oltre che invulnerabili. Che ne dici, sarà proprio una passeggiata la marcia dei “marines” verso Baghdad?

Tutt’altro, se il peggio dovesse accadere (come ormai purtroppo sembra certo), questa volta non basteranno gli attacchi dei bombardieri e dei missili Cruise lanciati dalle navi a grande distanza. Dovranno combattere, e duramente, sul terreno. Non a caso la preparazione del Pentagono è dettagliata e meticolosa.
A Fort Hood in Texas, la 1st Cavalry Division (la divisione di cavalleria) – la maggiore unità corazzata dell’esercito Usa, comprendente oltre 17mila soldati, con migliaia di carri armati, artiglierie mobili ed elicotteri – ha compiuto una delle più grosse esercitazioni, attraversando un braccio del lago Belton largo oltre 400 metri. Gettato un ponte mobile, 1800 carri armati pesanti Abrams M1A2 da 70 tonnellate e veicoli da combattimento Bradley hanno attraversato lo specchio d’acqua al ritmo di 200 carri all’ora.
Il Washington Post ha spiegato: “A differenza della Guerra del Golfo del 1991, le forze Usa arriverebbero fino a Baghdad, e, per fare ciò, dovrebbero attraversare molti tratti dell’Eufrate”. La forza di sfondamento sarebbe costituita dagli Abrams M1A2 Sep, una versione potenziata che permette agli equipaggi di avere sui monitor il quadro del campo di battaglia. Dato che “la qualità delle forze irakene è fortemente calata rispetto al 1991”, gli Abrams, con strumentazioni elettroniche ed armati di cannoni da 120 mm con proiettili ad uranio impoverito, travolgerebbero ogni difesa. L’unica possibilità per le forze irachene sarebbe di trincerarsi nelle città: l’attacco da terra e dall’aria provocherebbe stragi tra la popolazione. E proviamo a immaginare ciò che succederebbe se le forze statunitensi espugnassero, casa per casa, una città come Baghdad con 5 milioni di abitanti.

L’accordo di Shanghai contro il terrorismo, che qualcuno ha definito imprudentemente una nuova Yalta, è saltato nel giro di qualche mese. Non c’è stata nessuna spartizione del mondo, anzi rispunta la minaccia del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza di Francia, Cina e Russia accompagnato dal riesplodere di enormi contraddizioni.
Lotta al terrorismo o lotta per il petrolio, quali le vere motivazioni e gli interessi in gioco di questa tragedia annunciata?

Ti rispondo con ciò che scriveva il Washington Post il 15 settembre 2002 dopo aver intervistato dirigenti dell’industria petrolifera e leader dell’opposizione irakena: “Lo spodestamento, diretto dagli Stati Uniti, del presidente iracheno Saddam Hussein potrebbe aprire un filone d’oro per le compagnie petrolifere americane a lungo bandite dall’Iraq, facendo naufragare gli accordi petroliferi conclusi con Baghdad da Russia, Francia e altri paesi, e provocando un rimescolamento dei mercati petroliferi mondiali”.
L’Iraq possiede riserve petrolifere accertate, economicamente sfruttabili, ammontanti a 112 miliardi di barili, le seconde del mondo dopo quelle dell’Arabia saudita. La loro durata, agli attuali ritmi di consumo, è stimata in oltre un secolo, più di quelle saudite (83 anni). La durata delle riserve statunitensi è invece stimata in appena 10 anni. Anche se gli Usa hanno continuato a importare petrolio dall’Iraq (un milione di barili al giorno nella prima metà del 2002), le compagnie statunitensi, sin dalla fine degli anni ‘80, sono state tagliate fuori dallo sfruttamento delle riserve irachene.
Dopo la guerra del Golfo, sono state altre compagnie ad assicurarsi contratti con Baghdad. La russa Lukoil ha concluso nel 1997 un accordo da 4 miliardi di dollari per lo sfruttamento del campo petrolifero di Qurna e, nell’ottobre 2001, un’altra compagnia russa, la Slavneft, si è assicurata un contratto da 52 milioni di dollari per la trivellazione del campo di Tuba, anch’esso nell’Iraq meridionale. Altre possibilità si aprirebbero per le compagnie russe con il prospettato accordo economico da 40 miliardi di dollari tra Mosca e Baghdad, tenendo conto che l’Iraq ha con la Russia un debito di circa 8 miliardi di dollari. Contemporaneamente, altre compagnie di una dozzina di paesi – tra cui Francia, Cina, India e Italia – hanno concluso accordi per lo sfruttamento delle riserve petrolifere irachene, che diverrebbero operativi con la cessazione dell’embargo (non a caso voluto dagli Stati Uniti).
Ora però tutto cambia. Le compagnie non americane temono di “essere escluse dagli Stati uniti, che diverrebbero la potenza straniera dominante in Iraq dopo la caduta di Hussein”. I capi dei gruppi di opposizione finanziati dagli Usa hanno annunciato che, con un nuovo governo in Iraq, tutti gli accordi andrebbero rivisti e lo sfruttamento petrolifero sarebbe affidato a un consorzio a guida statunitense. L’Iraq potrebbe inoltre uscire dall’Opec, indebolendo la sua influenza sui prezzi petroliferi. Le compagnie Usa acquisterebbero un peso ancora maggiore nel mercato energetico mondiale, così come è avvenuto con l’instaurazione di un governo filoamericano in Afghanistan, che ha riavviato il progetto del gasdotto Turkmenistan-Pakistan via Afghanistan, prima sfuggito di mano agli Usa: il 16 settembre, i tre governi hanno presentato alla Banca per lo sviluppo asiatico lo studio di fattibilità del gasdotto (con una capacità annua di 15 milioni di metri cubi), che sarà controllato da un consorzio a guida statunitense.
Nello stesso quadro rientra il petrolio iracheno, divenuto “una delle principali monete nella contrattazione dell’amministrazione Usa per ottenere dai membri del Consiglio di sicurezza e dagli alleati occidentali l’adesione all’appello del presidente Bush per una dura azione internazionale contro Hussein”. I termini sono quelli di un ricatto: i paesi che acconsentiranno alla guerra contro l’Iraq (anche se Baghdad ha accettato gli ispettori) potranno avere dal governo filoamericano, in misura minore rispetto agli Usa, contratti per lo sfruttamento del petrolio iracheno; quelli che si opporranno saranno esclusi.

È in tale quadro che si inserisce la “guerra degli oleodotti”…

Esatto. Lo conferma il fatto che, il 18 settembre, sono stati inaugurati i lavori di costruzione dell’oleodotto che, partendo dall’Azerbaigian e attraversando Georgia e Turchia, trasporterà il petrolio del Caspio per 1.760 km fino al porto turco di Ceyha sul Mediterraneo. Alla cerimonia, svoltasi al terminale azero di Sangachal presso Baku, i presidenti dei tre paesi (Alivev, Shevardnadze, e Sezer) hanno gettato con le pale un po’ di terra nella trincea in cui era stata collocata una sezione simbolica della tubatura. A imbracciare la pala c’era però anche una quarta persona, la più importante: il segretario Usa dell’energia Spencer Abraham, latore di una lettera del presidente Bush che definisce il progetto “una componente essenziale del corridoio energetico Est-Ovest”. Non precisa il presidente che, dal suo “Est “, è esclusa la Russia. L’oleodotto Baku-Ceyhan – così come quello che dal 1999 collega Baku al porto georgiano di Supsa sul Mar Nero – segue un tracciato che aggira a sud la Russia, sottraendole il controllo sull’esportazione della maggior parte del petrolio del Caucaso. Il greggio che attraversa questo oleodotto sarà pompato dal Caspio al Mediterraneo, nella misura di 375mila barili al giorno nel 2005 e di un milione nel 2007, sarà controllato soprattutto dalla Bp che, dopo la fusione con la Amoco nel 1998, è diventata anglo-statunitense. La Bp – terza compagnia petrolifera del mondo dopo la ExxonMobil (Usa) e l’anglo-olandese Royal Dutch/ Shell – è capo (col 35%) del consorzio che realizzerà l’oleodotto Baku-Ceyhan, il cui costo è stimato in 3 miliardi di dollari. Ne fanno parte altre due compagnie statunitensi, Unocal e Ameranda Hess, insieme all’azera Socar, i norvegesi Statoli, la turca Tpao, l’italiana Eni, la francese TotalFinaElf e le giapponesi Itochu e Impex.
Con la guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti, affiancati dal fedele socio britannico, hanno sottratto all’influenza di Mosca quasi tutta l’Asia centrale, un tempo sovietica. Hanno potuto così rafforzare la propria influenza anche nella regione del Caspio e, allo stesso tempo, riavviare il progetto di gasdotto che, attraverso l’Afghanistan, trasporterà il gas naturale dal Turkmenistan fino al Pakistan. Anche questo progetto, il cui studio di fattibilità è stato presentato il 16 settembre alla Banca per lo sviluppo asiatico, sarà controllato da un consorzio a guida statunitense: vi svolge un ruolo determinante la Unocal, presente anche nel progetto dell’oleodotto Baku-Ceyhan. E non è finita. Ora è in gioco una posta altrettanto preziosa: il petrolio iracheno che, una volta occupato militarmente il paese, verrebbe anch’esso controllato da un consorzio a guida Usa.

Oltre al controllo delle fonti energetiche del Golfo e del Caspio, a che cosa mira la strategia Usa?

Lo dimostrano i fatti. Gli Usa stanno costruendo in Asia centrale una rete di basi militari: hanno già ultimato la grande base aerea di Manas nel Kirghizistan, cui se ne stanno aggiungendo altre in Uzbekistan e Tagikistan e, probabilmente, nel Kazakistan. Loro scopo è distaccare da Mosca e portare nella propria sfera d’influenza le repubbliche ex-sovietiche, occupando il vuoto lasciato dal crollo dell’Urss in quest’area di enorme importanza sia per le risorse energetiche del Caspio e quelle limitrofe del Golfo, e i relativi corridoi, sia per la posizione geostrategica rispetto a Russia, Cina, Iran, Iraq e India. A tal fine hanno già dislocato in quest’area e nelle zone circostanti una forza di oltre 50mila uomini.
Significativo è ciò che ha dichiarato il generale Kelly, comandante della base di Manas: “Ciò che stiamo facendo qui è d’importanza storica, questo era il cuore dell’impero rosso sovietico. Ora possiamo proiettare da qui la nostra potenza aerea, in qualsiasi forma sia necessaria e a distanza molto più ravvicinata” (The Washington Post, 9 febbraio). Che cosa intenda il gen. Kelly si può comprendere guardando la carta geografica. La base di Manas è situata nei pressi del Kazakistan – paese che possiede sul Caspio grosse riserve di petrolio e gas naturale, sfruttate da una joint-venture cui partecipa al 50% la statunitense Chevron – in uno dei punti nodali da cui dovrebbe passare il progettato corridoio petrolifero Caspio-Cina. Essa è più vicina alla Cina, da cui dista appena 400 km, che all’Afghanistan, che non confina col Kirghizistan.
Quale sia la partita in corso, dietro i sorrisi e le calorose strette di mano degli incontri ufficiali, appare chiaro dall’audizione del direttore della Cia, George Tenet, al senato (The New York Times, 6 febbraio): “Mosca mantiene fondamentali differenze con noi – ha detto nella sessione a porte aperte – e tra i conservatori russi permane il sospetto sugli scopi degli Usa. La Russia adotterà diverse contromisure e nuovi sistemi d’arma per contrastare la difesa missilistica Usa”. Per ciò che riguarda la Cina, “essa ha aderito alla coalizione contro il terrorismo, ma rimane scettica sulle intenzioni degli Usa in Asia centrale e meridionale, temendo che noi accresciamo la nostra influenza nella regione a sue spese. È chiaro che la Cina cerca di diventare una grande potenza e considera gli Stati uniti il principale ostacolo per la realizzazione di tale scopo”.
Si comprende quindi perché gli Usa stiano costruendo una rete di basi nell’Asia centrale. Essa è resa ancora più urgente dal fatto che la presenza militare Usa in Arabia saudita è sempre meno gradita anche a una parte della famiglia reale, capeggiata dal principe ereditario Abdullah. Gli Usa rischiano così di perdere la base aerea Prince Sultan, presso Riyadh, loro principale centro di comando e controllo dalla guerra del Golfo a quella dell’Afghanistan. Già a Washington si stanno preparando a tale possibilità. Di fronte al “tiepido appoggio del regno saudita alla guerra contro il terrorismo e alle restrizioni da esso poste alle operazioni militari Usa” – ha dichiarato il presidente della commissione senatoriale dei servizi armati, Carl Levin – è necessario “trovare un posto dove possiamo essere ben accetti”. Uno l’hanno trovato nel Kirghizisistan, dove gli Usa sono ben accetti in cambio di qualche milione di dollari dato ai governanti.

Guerra e recessione. Insieme al petrolio e con le Borse in caduta libera viene il dubbio che la guerra sia un ottimo espediente per distrarre milioni di piccoli risparmiatori americani dalla catastrofica dissoluzione dei loro dollari investiti con cieca fiducia nella New Economy. Ora si risvegliano in piena crisi. Che rapporto c’è tra la crisi economica e la guerra, chi perde e chi ci guadagna?

La crisi? Non per tutti. Secondo Standard & Poor’s, “la risposta militare agli attacchi dell’11 settembre accrescerà i profitti di alcune società”. Quelle che fabbricano missili, aerei, bombardieri, portaerei, sottomarini…
La bella notizia l’ha data, il 28 agosto, la nota agenzia di valutazioni finanziarie: “La guerra in Afghanistan, accentuando negli Stati Uniti l’importanza della difesa nazionale, ha recato all’industria un beneficio che andrà oltre. La risposta militare agli attacchi dell’11 settembre dovrebbe sostenere la tendenza al rialzo della spesa della difesa e accrescere i profitti di alcune società del settore”. Nei quartieri generali della Boeing, Lockheed Martin e Northrop Grumman, le industrie aerospaziali che si accaparrano i maggiori contratti del Pentagono, c’è un clima di euforia. “Prima dell’11 settembre – racconta Ron Sugar, presidente della Northrop Grumman – valutammo che la pace totale non sarebbe prevalsa nel nostro tempo e, quindi, i nostri sistemi per gli attacchi di precisione sarebbero stati molto efficaci in conflitti come poi è stato quello dell’Afghanistan”. Geniale lungimiranza. Nel momento stesso in cui le Torri Gemelle crollavano, le azioni della Northrop Grumman decollavano salendo del 30% in tre settimane.
Le prospettive, come prevede Standard & Poor’s, sono rosee. Il bilancio del Pentagono, secondo la richiesta dell’amministrazione Bush, aumenterà di 45,5 miliardi di dollari (+ 13%), salendo nell’anno fiscale 2003 (che inizia il 1° ottobre 2002) a 379,3, cui se ne aggiungeranno 16,8 stanziati al Dipartimento dell’energia per il mantenimento dell’arsenale nucleare: in totale oltre 396 miliardi di dollari, circa la metà della spesa militare mondiale. È solo l’inizio: l’amministrazione intende stanziare nei prossimi cinque anni, come bilancio del Pentagono (compresa la spesa per l’arsenale nucleare), 2.100 miliardi di dollari. Tale somma non comprende le spese per le guerre (quella dell’Afghanistan costa oltre 2 miliardi di dollari al mese) e altre voci di carattere militare: tra queste, 40 miliardi annui spesi dal Dipartimento degli affari dei veterani e oltre 30 dalla Cia e altri servizi segreti solo per la struttura organizzativa.
L’altra voce importante per le industrie belliche è la spesa del Pentagono per la ricerca e sviluppo militare, salita nel 2003 a 53,9 miliardi (+ 11%), dato che essa permette loro di mantenere un vantaggio tecnologico sulle concorrenti. Ma, direttamente o indirettamente, le industrie belliche traggono beneficio dall’intera spesa militare e paramilitare, compresa quella per la “sicurezza della patria”. L’apposito dipartimento, appena costituito, ha un bilancio annuo di 37 miliardi di dollari, parte dei quali andrà alle stesse industrie per l’acquisto di sistemi elettronici di sorveglianza e tecnologie dell’informazione. Se si spendono in tal modo oltre 500 miliardi di dollari annui (un quarto del bilancio federale), poco importa. Non si tratta di armi, ma di strumenti della lotta del bene contro il male. Come l’F-22 Raptor, “il caccia più potente del mondo”: esso serve – dichiarano la Boeing e la Lockheed Martin – ad “assicurare la benedizione della libertà a noi e ai nostri posteri”.

Sul tema della guerra si tende a definire l’America come gendarme del mondo, la Nato sembra non esistere più. È proprio vero che gli Stati Uniti abbiano deciso di fare tutto da soli e che l’Alleanza Atlantica sia stata messa da parte?

Il recente meeting del Consiglio nord-atlantico di Varsavia, nonostante sia stato definito “informale”, segna l’inizio di un’altra fase della mutazione genetica della Nato, che sta per allargarsi ad altri sette paesi dell’Est. Il ruolo dell’Alleanza – ha esordito il segretario generale lord George Robertson – va ripensato per “proteggere i nostri cittadini dai terroristi criminali e dagli stati criminali, specialmente quelli che hanno armi destinate a una indiscriminata distruzione di massa”. Nello stesso momento, a Londra, il suo connazionale Blair presentava il dossier con le “prove” sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq. Con altrettanto sapiente gioco di squadra, lord Robertson, ha presentato una proposta perfettamente in linea con il documento della Casa bianca su “La strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti” (il diritto alla guerra preventiva), secondo cui “l’Alleanza deve essere in grado di agire ovunque i nostri interessi sono minacciati”. La Nato – ha detto – deve avere la volontà e la capacità di “esercitare la deterrenza verso queste minacce del 21° secolo ove possibile, sradicarle e distruggerle laddove la deterrenza abbia fallito”. È, in altre parole, la strategia dell'”attacco preventivo” adottata dall’amministrazione Bush.
Subito dopo l’apertura di Robertson, il segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld, ha proposto che la Nato costituisca una “forza di reazione rapida comprendente fino a 25mila uomini, pronta su chiamata a schierarsi velocemente in qualsiasi parte del mondo”. Dovrebbero far parte di questa strike force (forza d’attacco) della Nato, a rotazione, brigate miste di 5mila uomini composte da militari statunitensi ed europei, dotate di armi ad alta tecnologia come le bombe a guida satellitare.

Ma perché i paesi europei dovrebbero parteciparvi se hanno già deciso di costituire una forza di reazione rapida della UE composta da 60 mila uomini?

La forza della Ue, rispondono gli strateghi del Pentagono, dovrebbe occuparsi di prevenzione dei conflitti e operazioni di peacekeeping nelle aree limitrofe, mentre la forza di reazione rapida della Nato avrebbe il compito di proiettarsi in qualsiasi parte del mondo secondo la strategia dell'”attacco preventivo”. Quello che non dicono è che, mentre la prima sarebbe sotto comando europeo, la seconda sarebbe sotto comando Usa. Così la Nato – dopo essersi auto-autorizzata a compiere missioni non previste dall’articolo 5 (che vincola i membri a intervenire solo se uno di loro viene attaccato) e aver fatto, su questa base “giuridica”, la guerra “umanitaria” contro la Jugoslavia – si appresta ora a condurre operazioni militari su scala globale per “sradicare e distruggere” presunte minacce. È questa la Nato che vogliono gli Stati Uniti, secondo il criterio guida dell’alleanza asimmetrica. Non hanno voluto far intervenire l’Alleanza in quanto tale, ma solo singoli membri, nella guerra in Afghanistan, per essere soli (con il fedele alleato britannico) a stabilire gli assetti dell’Asia centrale. E, a quanto sembra, vogliono fare lo stesso nella guerra contro l’Iraq che preparano, per essere i soli a trarre vantaggio dall’occupazione militare di un paese che possiede le maggiori riserve petrolifere dopo l’Arabia saudita ed ha una posizione geostrategica decisiva nel Golfo. Andrebbe invece bene agli Stati Uniti una strike force della Nato come prolungamento del loro braccio armato nella strategia dell'”attacco preventivo”. 12 dei 18 ministri della difesa degli altri paesi Nato avrebbero sostenuto la proposta di Rumsfeld. Tra questi, il ministro Antonio Martino che, ancor prima di ascoltare il discorso del segretario Usa alla difesa, ha dichiarato che si tratta di un'”ottima idea”. Con l’Italia siamo anche all'”approvazione preventiva”.

Il ritornello di questa guerra contro l’Iraq, ripetuto dall’amministrazione Bush, è quello di aver individuato in Saddam un diabolico terrorista, possessore di armi di distruzione di massa (atomiche, chimiche, batteriologiche). Ne deriverebbe il carattere preventivo, umanitario, di questa guerra per salvare il mondo dall’apocalisse, la guerra del bene contro il male. Un’argomentazione totalmente ideologica che sconfina spesso nella rappresentanza della volontà di Dio, ma che occulta i fatti e i dati reali su quante e dove siano le armi di distruzione di massa nel mondo. Cosa si può obiettare?

Con perfetto tempismo – nel giorno in cui a Baghdad venivano aperti alla stampa internazionale i siti “nucleari” per dimostrare che servono a usi civili e industriali – è sceso in campo, a dar man forte a Bush, nientemeno che John Chipman, direttore del prestigioso Istituto internazionale di studi strategici (Iiss) di Londra: il 9 settembre, ha dichiarato alla Bbc che non solo l’Iraq possiede armi chimiche e biologiche ma che, “se Saddam riuscisse a ottenere dall’estero materiale fissile, rubandolo o acquistandolo, sarebbe in grado di mettere insieme un’arma nucleare molto rapidamente, nel giro di qualche mese”. Poco importa che un rapporto, diffuso dallo stesso Iiss alla vigilia dell’incontro Bush-Blair, affermi che “non ci sono segni che Baghdad abbia la capacità di produrre materiale fissile o ne abbia acquistato dall’estero” e che, oltre a non avere armi nucleari, “probabilmente manca dei vettori per usare efficacemente le sue residue armi chimiche e biologiche in modo tale da provocare una massiccia perdita di vite umane” (Reuters, 9 settembre). L’importante è che l’allarme, amplificato dai media, sia risuonato in tutto il mondo, entrando nelle case attraverso giornali e telegiornali, per atterrire e convincere la gente che Saddam, il folle, sta preparando l’olocausto nucleare e va quindi fermato, finché siamo il tempo. A lanciare l’allarme è la maggiore potenza nucleare del mondo, il cui arsenale può cancellare dalla faccia della terra non una ma più volte non solo la specie umana ma ogni forma di vita. Le armi nucleari degli Stati uniti sono però le armi della lotta del bene contro il male.
A lanciare l’allarme sulla minaccia nucleare irachena è, insieme agli Stati uniti, Israele: il paese che, procurandosi clandestinamente tecnologie e materiali nucleari, ha potuto costruirsi un arsenale che comprende oggi probabilmente oltre 400 armi nucleari, sia termonucleari di grande potenza, sia “tattiche” di minore potenza, tra cui bombe al neutrone che provocano minore contaminazione radioattiva dell’area colpita (in modo da poterla occupare) ma una maggiore emissione di radiazioni letali per l’uomo. La potenza complessiva di queste armi – valuta l’autorevole rivista JanÈs – equivale a quella di 3.850 bombe di Hiroshima. Inoltre, a differenza dell’Iraq che secondo l’Iiss possiede al massimo una dozzina di antiquati missili (tipo gli Scud sovietici) in grado di raggiungere Israele, questa possiede ogni tipo di moderno vettore nucleare, dal missile Jericho II con raggio di 5mila km, agli F-16 forniti dagli Stati uniti, ai sottomarini forniti dalla Germania, su cui sono stati installati missili nucleari. Questo arsenale non esiste agli occhi del mondo, perché il governo israeliano non ne ammette l’esistenza e nessuno propone di andarlo a verificare con ispettori internazionali.
Tutti i governi sanno però che, come per la prima guerra del Golfo, il governo israeliano ha allertato le forze nucleari e potrebbe anche usarle. È d’altronde esperto in attacchi “preventivi”. Come quello con cui, il 7 giugno 1981, distrusse il reattore nucleare iracheno di Osiraq. Pur non essendovi alcuna prova, il governo israeliano dichiarò che, “in base a fonti di indiscutibile affidabilità”, l’Iraq stava fabbricando bombe nucleari e per questo Israele aveva compiuto “l’attacco preventivo”. Bush non ha dunque la primogenitura del first strike.

Giovedì 2 ottobre il Parlamento Italiano ha approvato la decisione del governo Berlusconi di inviare gli alpini in missione di guerra in Afghanistan. Cosa significa in concreto questa decisione approvata, purtroppo, con i voti di una parte dell’Ulivo?

L’amministrazione Bush, che prima era contraria all’invio di altre truppe in Afghanistan, ora ritiene che “dislocare altre truppe fuori Kabul può contribuire alla sicurezza del paese”. Lo hanno dichiarato al New York Times (30 agosto) alcuni funzionari, spiegando il perché: la costruzione dell’esercito afghano va a rilento (alla fine dell’anno comprenderà solo 3-4 mila soldati) e i signori della guerra continuano a erodere l’autorità del governo centrale di Kabul. È necessario quindi inviare altre truppe, che dovrebbero presidiare i punti caldi. Gli Stati Uniti “forniranno il sostegno, ma non truppe”. L’Italia, in base a una richiesta fatta direttamente da Bush a Berlusconi, manderà in Afghanistan un migliaio di soldati. Essi andranno a sostituire i Royal Marines inglesi, che vengono ridislocati nel quadro dei preparativi di guerra contro l’Iraq.
A differenza dei militari già impegnati nella forza internazionale di sicurezza dislocata a Kabul a protezione del governo Karzai, essi saranno impiegati in operazioni di combattimento sotto il diretto comando statunitense. A comandare le forze terrestri in Afghanistan, sia degli Stati Uniti che di altri paesi, è il tenente generale a tre stelle dell’esercito Usa, Dan K. McNeill, il cui quartier generale si trova a Bagram, un’ex base sovietica a nord di Kabul. A sua volta, il gen. McNeill è agli ordini del gen. Tommy Franks, a capo del Comando centrale (CentCom) responsabile dell’area che comprende l’Afghanistan, il cui quartier generale è a Tampa in Florida.
Questi, a sua volta, è agli ordini del Pentagono.
Il contingente italiano sarà dunque inserito nella catena di comando statunitense: sarà il gen. McNeill a decidere, in base alle direttive ricevute dal quartier generale del CentCom, quali zone dovrà rastrellare, quali incursioni dovrà compiere. Gli ufficiali italiani saranno praticamente relegati a compiti operativi e di collegamento. Ciò significa che, una volta in Afghanistan, il contingente non sarà più nei fatti agli ordini dello stato maggiore italiano, la cui funzione si limiterà al sostegno logistico. Né dipenderà dal nostro ministero della difesa e, tantomeno, dal parlamento che, qualunque cosa accada, non avrà alcun potere decisionale (salvo quello di ritirare il contingente). La questione non è tecnica, ma politica: si tratta non solo di un’altra grave violazione dell’articolo 11 della Costituzione, ma di una completa rinuncia alla sovranità nazionale.
Le conseguenze sono prevedibili. Il contingente sarà probabilmente dislocato a Khost, in una delle aree che lo stesso gen. McNeill definisce “da un punto di vista tattico, più problematiche” (Npr, 26 agosto 2002). La sua forza principale sarà costituita dal battaglione alpini-paradutisti Monte Cervino, composto esclusivamente di volontari – i ranger – addestrati al combattimento diurno e notturno, sia su terreni montuosi che in centri abitati, ed esperti in imboscate. I ranger – spiega Analisi Difesa (anno 2, n. 18) – sono in particolare addestrati alla “acquisizione delle reazioni automatiche immediate” e alle “tecniche di tiro mirato e istintivo”. In altre parole, a sparare d’istinto, ancor prima di pensare. Ci sono dunque altissime probabilità non solo che qualcuno dei ranger venga ucciso, ma che molti afghani vengano uccisi dalle “reazioni automatiche” dei ranger.
Naturalmente, come avvenne in Somalia dove ogni ucciso veniva chiamato “bandito”, gli afghani che cadranno sotto il “tiro istintivo” dei ranger saranno tutti definiti “talebani” o “terroristi di al-Qaeda”. E non saranno, per questo, compianti nelle cerimonie ufficiali. Comunque, in caso di “errori” nel “tiro istintivo”, nessuno sarà deferito alla Corte penale internazionale dell’Aia: lo garantisce l’appartenza alla catena di comando statunitense.

Come valuti questa follia di passare dalle missioni di peacekeeping all’invio in zone di guerra di militari italiani esponendoli al rischio di un viaggio di sola andata?

In gioco, ancora una volta, ci sono le basi stesse della nostra democrazia. La colonna portante dell’art.11 della Costituzione, “l’Italia ripudia la guerra quale mezzo di soluzione delle controversie internazionali”, viene sgretolata dal “Nuovo modello di difesa”: non semplicemente una ristrutturazione delle forze armate, ma l’istituzionalizzazione di una nuova politica militare, basata sul concetto anti-costituzionale della difesa degli “interessi esterni” con la forza armata, e contestualmente di un nuovo tipo di politica estera nel ruolo di subpotenza sulla scia della “potenza globale” statunitense.
Un altro aspetto è il costo di tali operazioni.
Esso consiste non solo nel pagare a ciascun militare una indennità di missione di migliaia di euro al mese fuori busta ed esentasse, ma nel sostenere l’enorme costo della macchina logistica e dell’acquisizione di sistemi d’arma idonei alla “proiezione di forze” in lontani teatri bellici. Tanto per dare un’idea, i nuovi aerei 767 Tanker Transport (aerei cisterna e da trasporto), che l’aeronautica italiana acquisterà per le operazioni a lunga distanza, costano a seconda della versione dai 150 ai 225 milioni di dollari ciascuno (da quasi 300 a oltre 400 miliardi delle vecchie lire).
Al salone aerospaziale di Farnborough, il 26 luglio, il ministero della difesa e Alenia aeronautica hanno firmato un accordo con la statunitense Boeing che stabilisce la partecipazione italiana al programma del 767 Tanker Transport, con un costo stimato in 1.300 milioni di euro (oltre 2.500 miliardi di lire).
Questo e altri accordi – che accrescono la capacità offensiva delle nostre forze armate e fanno lievitare la spesa militare, già cresciuta nel decennio 1990-2000 da 28 mila a 43 mila miliardi di lire annui a scapito delle spese sociali e degli investimenti produttivi – vengono ignorati da quasi tutte le forze politiche e sindacali di opposizione. Giusta è la lotta per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non sufficiente a difendere la democrazia se ci si dimentica dell’articolo 11 della Costituzione.