Il giorno precedente il vertice dei capi di stato dell’Unione Europea lo scorso ottobre a Gand, un brivido ha percorso la schiena delle cancellerie europee e l’ottimismo degli europeisti. Il vertice a tre tenutosi tra Francia, Gran Bretagna e Germania ventiquattro ore prima dell’apertura ufficiale dei lavori, ha portato in evidenza con estrema pesantezza le contraddizioni interne del progetto di Unione Europea a due mesi dall’entrata in vigore della moneta unica. Il successivo incontro di Londra ha esteso l’invito e il coinvolgimento anche all’Italia. La cambiale da pagare era la disponibilità ad inviare le forze militari sul fronte della guerra in Afganistan. Mostrando “le baionette”, anche l’Italia si è conquistata un “posto al sole” tra le potenze occidentali. L’incontro di Gand, fortemente voluto dal presidente francese Chirac con Blair e Schroeder, era durato meno di un ora, un vertice “tecnico” è stato detto dai portavoce. Appare evidente che sulle questioni decisive la discussione c’era già stata e che il breve vertice serviva solo a definire i dettagli. Ma è indubbio che quei quaranta minuti di discussione hanno pesato quanto quaranta anni di “europeismo” sul resto dei paesi membri. Abbiamo visto un Prodi furioso, un Berlusconi schivo e non in vena di esternazioni, la presidenza belga irritata. Dieci giorni dopo Prodi finiva sulla graticola della stampa tedesca, inglese e francese e Berlusconi – insieme a Ciampi – compieva il beau geste di difendere il suo ex avversario. Grande è la confusione in Europa. Se però ci ponessimo coerentemente la domanda se a questo corrisponda una “situazione eccellente” (come direbbe Mao Tse Tung), avremmo l’obbligo di risponderci o quantomeno di abbozzare qualche valutazione. Partiamo da un primo dato. Dopo gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico sembrano essere tornate ad una lettura tradizionale dei rapporti di subalternità dell’Europa verso gli Stati Uniti. Su questo, occorrerebbe andare oltre le apparenze e molto dentro le contraddizioni che sono emerse chiaramente nelle relazioni tra questi due poli “imperialisti” e che fanno a dire ad un crescente numero di studiosi e analisti che la “globalizzazione” (almeno così come l’abbiamo conosciuta negli anni ’90) è finita. La fase che si apre è degna di incognite inquietanti.
Stati Uniti versus Europa: un gioco pesante
Un pericoloso grande vecchio del potere USA come Henry Kissinger, nella sua ultima visita in Italia, si è espresso piuttosto chiaramente. “Mi preoccupa il fatto che quando l’Unione Europea agisce come soggetto unico negli affari mondiali, molto spesso, e sarei tentato di dire sempre, agisce in opposizione agli Stati Uniti”, ha detto Kissinger in una intervista ad un noto settimanale italiano. “Sarebbe un errore”, ha proseguito, “un errore capace di portare gradualmente a una frattura tra le due sponde dell’Atlantico in un mondo sempre più pieno di problemi”.
Il tono esplicito di un uomo influente come Henry Kissinger, ricorda molto da vicino quello di un altro influente esperto americano come Martin Feldstein. Feldstein, noto economista, era il capo dello staff economico di Bush padre ed è stato assunto come consigliere anche nell’amministrazione presidenziale di Bush figlio. Nel 1997 Feldstein pubblicò un famoso saggio sulla rivista Foreign Affairs che fece tremare le vene ai polsi ai leader europei. La sua tesi, confermata in una intervista al Sole 24 Ore, era che l’introduzione dell’Euro avrebbe portato “alla discordia e alla guerra all’interno dell’Europa” e “alla guerra tra Europa e Stati Uniti”, ragione per cui egli aveva richiesto un cambiamento della politica estera degli USA verso l’Europa.
Un altro consigliere di Bush padre ed ora vice-ministro dell’amministrazione di George W.Bush, Paul Wolfowitz, è colui che agli inizi del 1992 presentò un rapporto del Pentagono in cui si affermava la “indiscutibilità della supremazia mondiale americana” e si dissuadevano i partner dal cercare di mettere in discussione tale supremazia.
A tale scopo, secondo Wolfowitz, occorreva scongiurare la nascita di qualsiasi potenziale rivale degli Stati Uniti dopo la dissoluzione dell’URSS. Dopo gli attentati a New York e Washington, Wolfowitz ha viaggiato molto in “parallelo” a Colin Powell e ha visitato anche i “partner europei”. I colloqui diplomatici di queste settimane con le varie cancellerie europee non devono essere stati molto “facili”.
Quale influenza possono aver avuto fattori come quelli segnalati all’interno dei governi europei? Essere tornati a “sentire il fiato sul collo” del primus inter pares statunitense quanto ha rafforzato o indebolito il progetto strategico dell’Unione Europea? Siamo alla vigilia di una crisi politica, della crisi di una classe dirigente inadeguata alle ambizioni del progetto europeo?
Ipotecato il progetto di Difesa Europea
La prima contraddizione che balza agli occhi è la seria difficoltà a procedere sul piano di una Difesa Europea comune ed autonoma dagli Stati Uniti. La presenza/dissonanza della Gran Bretagna, le ambiguità dell’Italia berlusconiana ma anche il sistematico doppio gioco della Germania, continuano a depotenziare questo progetto, che pure nei vertici europei di Nizza e Helsinki sembrava definito in parecchi dettagli. Le ultime sortite estive di Chirac (l’esercito europeo al servizio dell’ONU) hanno persuaso gli Stati Uniti che su questo terreno occorreva dare una “spallata” per ridimensionare ogni ambizione. Di fronte all’occasione della guerra contro l’Afganistan hanno diviso prima e poi imbrigliato i partner europei invocando l’art. 5 della NATO, poi hanno cooptato separatamente le tre principali potenze europee: la fedele Gran Bretagna, la disponibile Germania e la riottosa Francia. I ringraziamenti ad personam, una volta iniziati i bombardamenti sull’Afganistan, hanno reso visibile quella geometria variabile delle “alleanze” che liquida ogni interlocuzione con l’Unione Europea in quanto tale. A Prodi e Solana è rimasto in mano in cerino sempre più corto.
Una volta investiti Gran Bretagna, Germania e Francia come interlocutori principali degli Stati Uniti sul terreno politico-militare, era conseguenza che questi tre paesi si sentissero autorizzati a rappresentare il “direttorio europeo”, anche se tale direttorio appare più una stanza di compensazione delle reciproche diffidenze che un gruppo dirigente omogeneo in grado di guidare un progetto europeo indipendente dalle vecchie relazioni di subalternità con Washington.
Serie preoccupazioni per l’euro
Preoccupazioni sulla “tenuta” dell’Europa sono emerse piuttosto chiaramente. “L’Europa è adesso davanti ad un evento straordinario e violento che può unirla o spaccarla” (La Stampa, 21 ottobre). ” Non siamo più, come negli anni della guerra fredda, al centro della grande politica e saremo ancora meno centrali se il nostro maggiore alleato, gli Stati Uniti, sarà dominato da altre preoccupazioni” (Sergio Romano su Corriere della Sera del 16 ottobre). Preoccupazioni ancora più forti stanno emergendo anche sull’obiettivo decisivo dell’euro e della sua forza di attrazione come moneta internazionale. Dagli scongiuri rivelati dalle pagine del CorrierEconomia (“Si teme un ulteriore tonfo, soprattutto se il gran momento dell’arrivo dell’euro nelle tasche degli europei coinciderà con un attacco americano in Asia centrale”) alle sortite non certo lusinghiere di Soros che ne prevede la scivolata in basso nei confronti del dollaro.
Se osserviamo sul campo quali potrebbero essere gli effetti dell’introduzione dell’Euro nelle relazioni reconomiche internazionali, emerge con evidenza la rottura di quello che è stato definito il “signoraggio del dollaro”.
Allo stato attuale, il 59% delle riserve internazionali possedute dalle banche centrali sono in dollari. Il 75% dei prestiti bancari internazionali viene effettuato in dollari. Il 60% dei dollari oggi circolanti sono posseduti all’esterno degli Stati Uniti. Come sostiene giustamente Vladimiro Giacchè, i dollari posseduti all’esterno degli USA rappresentano un prestito senza interessi concesso dagli altri paesi agli Stati Uniti, cioè il cosiddetto “signoraggio”.
L’introduzione dell’Euro inevitabilmente rompe tale signoraggio. La sua eventuale capacità di diventare una moneta di riserva per le transazioni internazionali, toglierebbe al dominio del dollaro non solo una delle aree più ricche del mondo (l’Europa) ma anche la sua area di influenza (Europa dell’Est, Russia e parte dell’ex URSS, Maghreb e parte del Medio Oriente, inclusi alcuni paesi petroliferi come Iran e Iraq). In sostanza sarebbe un terremoto che cambierebbe la mappa delle relazioni economiche mondiali disegnate dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
In secondo luogo, l’Unione Europea troverrebbe attraverso il piano economico e monetario una coesione “de facto” che stenta ancora a realizzarsi sul piano politico.
Come sostiene giustamente Guglielmo Carchedi, le istituzioni europee (Banca Centrale, Commissione, i Consigli dei Ministri, l’Ecofin etc.) agiscono in modo coeso verso i paesi dominati, rendendo possibile l’appropriazione e la ripartizione di plusvalore nei confronti dei paesi aderenti alla Convenzione di Lomè o agli accordi di associazione dei paesi dell’Europa Centrale e dell’Est. Tali istituzioni non solo mediano interessi nazionali comuni anche se contraddittori dei paesi “forti” della UE, ma formulano tali interessi in maniera relativamente indipendente, perchè gli stati membri hanno ceduto una parte di sovranità a queste istituzioni. Ragione per cui, anche se l’Unione Europea non è ancora uno “Stato”, possiede già gli strumenti legali per legiferare e regolare intere sezioni dell’economia e di altre sfere degli stati membri.
Una dinamica di questo tipo e la nascita di un polo economico e tendenzialmente politico di dimensioni come l’Unione Europea, rappresenta un fattore evidente di competizione con gli Stati Uniti (rivendicato apertamente da Prodi) e una minaccia alla supremazia mondiale degli stessi.
L’amministrazione Bush sembra dare molta continuità a quella logica di supremazia statunitense verso i partner che nei primi anni Novanta aveva ispirato l’amministrazione di George Bush senior.
È chiaro dunque che la nascita di un polo europeo economicamente, monetariamente, politicamente e militarmente autonomo dagli Stati Uniti sarebbe destinato a cambiare in profondità i rapporti di forza nelle relazioni internazionali. In questo senso, non possiamo affatto escludere che da oltre Atlantico sia stato aiutato a vincere e a nascere un governo come quello Berlusconi.
Non certo per le qualità dell’uomo, quanto per cercare di interdire la dinamica messa in moto dalla nuova classe dirigente europeista. Le scorribande politico-diplomatiche della Gran Bretagna e l’invocazione dell’art.5 della NATO a seguito degli attentati a New York e Washington, rappresentano il tentativo piuttosto scontato e tradizionale per condizionare i partner europei e tenerli ancora vincolati sul terreno dove la supremazia americana appare ancora indiscutibile: quello militare.
Una classe dirigente inadeguata
In secondo luogo emergono la approssimazione e gli sbandamenti dell’attuale leadership europea. Da Schroeder, che il giorno prima sostiene di “essere pronto a far diventare l’Europa un protagonista internazionale con una capacità di influenza globale” ed il giorno dopo dichiara invece che “politiche come quella estera, di sicurezza e di difesa non hanno ancora raggiunto un livello tale da poterne discutere a livello collettivo” (Sole 24 Ore del 19 e del 20 ottobre).
A Chirac che ha insistito per il vertice a tre a Gand per dare corpo alla sua visione degli equilibri europei fondata su Francia, Gran Bretagna e Germania come capofila, ma rivelando così la consapevolezza della fine dello storico asse bilaterale franco-tedesco.
A Blair, che qualcuno paragona al “Kissinger europeo” (sic!), che approfitta apertamente della pavidità di Bruxelles tenendo sul filo gli ambienti economici con l’entrata o meno nell’euro, mentre continua a lavorare chiaramente in funzione degli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Al ministro degli esteri belga Michel che dichiara “Nessuno creda che seguiremo ciecamente gli Stati Uniti e l’Inghilterra”. Per finire con Berlusconi che, il Financial Times accusa di animare il feeling con Bush perchè emarginato dall’Unione Europea.
Mentre Prodi è tornato nel mirino di ben mirate campagne stampa tese a delegittimare la sua gestione europeista e antiamericana della Commissione Europea.
L’inadeguatezza della classe dirigente europea verso le ambizioni e le aspettative create in questi anni è ormai palese.
Ne viene che in Europa nei prossimi mesi potremmo trovarci di fronte e dentro una crisi politica verticale (dentro ogni singolo Stato) e orizzontale (tra i vari Stati) assai profonda.
Le parole di Feldstein sulla discordia e la guerra all’interno dell’Europa dovute all’introduzione della moneta unica sembrano avere e diffondere l’inquietudine della profezia ben guidata.
Il fattore militare come strumento di supremazia
La NATO del resto rimane l’unico strumento formalmente “unitario” tra le due sponde dell’Atlantico. Per dirla con Brzezinski: “Per gli Stati Uniti, la NATO non è solo il meccanismo principale che consente loro d’intervenire nelle questioni europee, ma anche la base per la presenza militare – politicamente decisiva – nell’Europa occidentale”. Compito della NATO è dunque quello di operare affinchè l’Unione Europea resti sul piano militare e politico una potenza imperialista di secondo rango.
I processi in corso appaiono per certi aspetti ineluttabili. La costruzione dell’Unione Europea, la sua unificazione monetaria, il prossimo avvento dell’Euro come moneta per la transazioni internazionali, la costituzione di un esercito europeo e la riorganizzazione dei poteri decisionali dell’unione (vedi il Trattato di Nizza e il prossimo vertice di Laeken), hanno dato il segno delle ambizioni dell’Europa a giocare un ruolo di “superpotenza” – parole testuali di Prodi – nelle relazioni internazionali ed anche in quelle con il vecchio tutore statunitense Nei prossimi mesi verificheremo se a queste ambizioni corrisponderà la capacità effettiva di realizzarle. La storia ci ha insegnato che per bloccare alcuni processi, esauriti altri strumenti, si è arrivati alla guerra. Per fermare la nascita di un polo europeo seriamente competitivo con gli Stati Uniti qualcuno potrebbe prendere in esame anche questa opzione (vedi Feldstein). Gli Stati Uniti hanno cominciato una guerra – infinita per loro stessa ammissione. Le maggiori potenze europee muovono anch’esse le flotte, gli aerei ed i soldati verso l’Oceano Indiano e le steppe dell’Eurasia. Ottancinque anni fa il “Secolo breve”, l’epoca più violenta della storia dell’umanità come sostiene Eric Hobsbawn, è cominciato con la guerra contro la piccola Serbia. Sessanta anni fa contro la debole Polonia. Oggi tocca al già devastato Afganistan. Domani?