L’età di Stalin e il movimento comunista del Novecento

*Docente di Filosofia – Università di Urbino

Il miglior regalo che si potesse fare alla storiografia revisionistica o a quella postmoderna oggi in voga sarebbe stato quello di affrontare la questione Stalin in una chiave apologetica. Non è questo ciò che fa Domenico Losurdo nel suo ultimo libro (Stalin. Storia e critica di una leg – genda nera, Carocci, Roma 2008). Losurdo non tace affatto sugli aspetti più inaccettabili della storia dell’Urss e sulle scelte sbagliate che Stalin ha ripetutamente compiuto ma parte da un dato di fatto: fin oltre la sua morte e “per tutto un periodo storico, in circoli che andavano ben al di là del movimento comunista, il paese guidato da Stalin e Stalin stesso poterono godere di interesse simpatetico, di stima e talvolta persino di ammirazione”, come dimostrano i giudizi encomiastici di personalità insospettabili come De Gasperi, Bobbio, Croce e molti altri. Tutto cambia con il Rapporto Cruscev del 1956, quando le rivelazioni su “un dittatore morbosamente sanguinario, vanesio e assai mediocre o addirittura ridicolo sul piano intellettuale”, nate nell’ambito di una feroce lotta interna al gruppo dirigente poststaliniano, si incontrano oggettivamente con gli interessi di due fronti contrapposti ma in questo momento convergenti. Si tratta da una parte della sovietologia anglosassone “militarizzata” dalla guerra culturale di sistema e interessata a ribadire la “purezza dell’Occidente” contro l’Oriente barbaro e comunista; e dall’altra “di una certa sinistra marxista” di ascendenza trotzkista, che sin dal 1917 aveva contrapposto la presunta “purezza del marxismo e del bolscevismo” alle miserie del socialismo realizzato e, ben poco materialisticamente, aveva individuato nella singola personalità di Stalin (e nella cerchia “burocratica” attorno a lui) il capro espiatorio delle difficoltà del movimento comunista internazionale.

Lasciamo perdere le accuse contenute nel Rapporto Cruscev che imputano a Stalin una colpevole inadeguatezza nella gestione della guerra contro Hitler, o quelle relative al “culto della personalità”. Il fatto è che l’epoca di Stalin si comprende solo sullo sfondo di una catena inestricabile di conflitti, nella quale ben tre guerre civili (quella tra la rivoluzione bolscevica e i bianchi, quella innescata dalla “rivoluzione dall’alto” che promuove la collettivizzazione dell’agricoltura e l’industrializzazione, quella che divide senza esclusione di colpi lo stesso gruppo dirigente bolscevico) si intrecciano con le molteplici spinte di un conflitto internazionale che si svolge esso stesso su più piani (Prima guerra mondiale, conflitti nazionali, cordone sanitario, nazifascismi, Seconda guerra mondiale, Guerra Fredda, contrasti interni al campo socialista…).

Il primo elemento da tenere in considerazione è quindi il permanente stato d’eccezione che caratterizza la vita della Repubblica sovietica. E’ qui che Losurdo fa entrare in gioco il metodo comparatistico: di fronte a una minaccia esterna che rischia di mettere a repentaglio l’esistenza stessa della comunità nazionale e dello Stato, come si sono comportati storicamente i paesi liberali? E’ in questa problematica, che è quella della guerra totale novecentesca, che vanno rintracciate le origini di quelle spinte alla mobilitazione totale che segnano la crisi dello Jus pu – blicum euro p a e u m, in un insieme complesso di fenomeni che vanno dalla sospensione dell’habeas corpus e dal ricorso al concetto di “responsabilità collettiva” alle esecuzioni sommarie (Katyn), dalle deportazioni di massa al ricorso su vasta scala all’incarcerazione e ai campi di lavoro, dall’irreggimentazione ferrea della società al terrore contro i nemici politici sospettati di ordire complotti o di costituire quinte colonne “oggettive”. E’ un orrore che si lega in primo luogo all’orrore della guerra, quindi, e di fronte al quale le misure prese da un paese come gli Stati Uniti non sono essenzialmente diverse da quelle prese dal gruppo dirigente sovietico. Con la differenza che la posizione geopolitica rendeva molto meno grave per il paese atlantico quel rischio che invece per la Russia, aggredita da ogni parte, risultava essere un rischio mortale. E con la differenza non da poco, inoltre, che mai in Russia queste pratiche si sono sovraccaricate di quel surplus di barbarie motivato su basi razziali che ha invece macchiato il comportamento degli USA nei confronti dei giapponesi o dei tedeschi, sulla scorta di un atteggiamento profondamente radicato in quel paese.

Ma lo stato d’eccezione non è certamente sufficiente a spiegarne il decorso. Esso può essere fronteggiato in maniere diverse e questo chiama in causa le scelte politiche concrete degli uomini, degli Stati e dei grandi movimenti. Ebbene, di fronte a queste gravi responsabilità, il gruppo dirigente sovietico si trova del tutto impreparato e deve scontare gravissime carenze sul piano soggettivo e ideologico. E’ il messianismo utopistico che impregna di sé il bolscevismo a condizionare le risposte che questi uomini sono o non sono in grado di dare e il modo in cui le danno. Un utopismo che è in parte esso stesso figlio dello stato d’eccezione permanente (pensiamo all’indignazione morale di massa contro la Prima guerra mondiale) ma che è in parte anche radicato nella componente “religiosa” e “mitologica” del movimento operaio, alle prese con una questione sociale di proporzioni immani e intenzionato a rovesciare uno sfruttamento delle classi subalterne di durata millenaria. In questo senso, il cuore di questa vicenda è costituito dalle feroci divisioni che spaccano il gruppo dirigente rivoluzionario sin dall’inizio, prendendo addirittura le forme “di una guerra di religione”.

DIVISIONI LACERANTI NELLA DIRIGENZA BOLSCEVICA
Fare la rivoluzione contravvenendo all’ortodossia secondinternazionalista o non farla, come vorrebbero i menscevichi? Continuare la guerra per portare la rivoluzione nel cuore dell’Europa, come vorrebbero Trotzkij e molti altri, o accettare le condizioni al ribasso di Brest Litovsk, come sostiene Lenin?
Generalizzazione del comunismo di guerra o Nuova Politica Economica per garantire un minimo di sviluppo e sfamare la popolazione? Costruzione del socialismo in Russia o ancora esportazione della rivoluzione? Smantellamento dello Stato o costruzione e rafforzamento di una statualità di tipo nuovo?

Dissoluzione di ogni forma di mercantilismo oppure costruzione di un mercato socialista in grado di distribuire con efficacia le risorse? Edificazione di un ordinamento legale, con una Costituzione e uno Stato di diritto oppure libera autogestione in nome della fine di ogni tipo di conflitto di classe?
Dissoluzione automatica del potere trasfigurato in spontanea cooperazione sociale o elaborazione di una forma di potere popolare di tipo nuovo? Sono problemi di enorme portata che lacerano i bolscevichi e dimostrano tutta la serietà tragica delle contraddizioni che hanno dovuto fronteggiare. E che hanno dovuto fronteggiare in una situazione del tutto inedita, senza precedenti e senza manuali o libri sacri da applicare con facilità.
“Tradimento” è la parola-chiave di questo groviglio di problemi.

L’accusa rivolta a Stalin da Trotzkij, e dalla quale Trotzkij stesso finirà per essere schiacciato, nasce in questa dialettica: da una parte “le attese messianiche” di un gruppo dirigente che ha preso il potere sull’onda della “rivendicazione di un ordinamento politico-sociale totalmente nuovo” e che crede in maniera entusiasta e quasi fanatica ad una palingenesi totale della società russa e persino dello scenario internazionale; dall’altro la difficile “costruzione del nuovo ordine”: ecco che “l’accusa o il sospetto del tradimento emerge ad ogni svolta di questa rivoluzione particolarmente tortuosa, spinta dalle necessità dell’azione di governo a ripensare certi originari motivi utopistici e comunque costretta a misurare le sue grandi ambizioni con l’estrema difficoltà della situazione oggettiva”. Già egli stesso oggetto di questa accusa, Trotzkij costruirà su questo canovaccio una lotta politica ininterrotta che arriverà alle soglie del colpo di Stato. E’ una guerra civile che invita non solo ad una “nuova, grande rivoluzione” del proletariato ma anche all’uso del terrorismo contro un gruppo dirigente che è bollato come usurpatore e viene contrastato con efficacia tramite l’infiltrazione, la cospirazione e la disinformazione. Come traditore Trotzkij viene ovviamente bollato a sua volta da Stalin, il quale – in un clima di sospetto generalizzato – individua una “convergenza almeno “oggettiva”” tra le trame di Trotzkij e gli interessi delle grandi potenze straniere, fino a vedere nell’opposizione, considerata “in blocco”, “una minaccia per la sicurezza nazionale” e “un covo di agenti del nemico”.

La verità è che nella catastrofica anarchia seguita al crollo dello zarismo – nella quale il rancore contro i responsabili della guerra si sommava alla vendetta indiscriminata per secoli di sfruttamento e servitù della gleba – e di fronte al pericolo di una dissoluzione della Russia, ormai in preda ad una “violenza selvaggia”, i bolscevichi si impongono anzitutto grazie “alla loro straordinaria capacità di “costruire lo Stato””, di “rimettere ordine” e “lottare contro il caos”. “La dittatura rivoluzionaria scaturita dalla Rivoluzione d’ottobre”, nota Losurdo, “assolve anche ad una funzione nazionale” perché “il potere sovietico era riuscito a conferire una nuova identità e una nuova autocoscienza ad una nazione non solo terribilmente provata, ma anche in qualche modo frastornata e alla deriva”. Molto meno valgono queste spiegazioni, invece, per il periodo successivo, quando il gruppo dirigente sovietico è messo in crisi nel processo di costruzione dell’ordine nuovo dal conflitto che si apre “tra i diversi principi di legittimazione del potere”. Quando cioè al “potere tradizionale” rappresentato da Stalin, che “conferiva una nuova dignità e identità alla nazione russa”, si oppone il “potere carismatico” rappresentato da Trotzkii, in uno scontro di lunga durata che finisce solo con la morte di quest’ultimo e che aggrava dall’interno lo stato d’eccezione già abbondantemente indotto dall’esterno.

Al contrario di quanto vuole la vulgata storiografica, in questo groviglio di contraddizioni Stalin primeggia spesso per lucidità e persino per moderazione. A più riprese egli ha cercato di imporre una qualche “normalità” alla vita politica e sociale del paese; tanto che, commenta Losurdo, “nei tre decenni di storia della Russia sovietica diretta da Stalin l’aspetto principale non è costituito dallo sfociare della dittatura di partito nell’autocrazia, bensì dai ripetuti tentativi di passare dallo stato d’eccezione ad una condizione di relativa normalità”. Questi tentativi, però, “falliscono per ragioni sia interne (l’utopia astratta e il messianismo che impediscono di riconoscersi nei risultati conseguiti) sia internazionali (la permanente minaccia che pesa sul paese scaturito dalla Rivoluzione d’ottobre)”. “Col divampare della terza guerra civile (nell’ambito delle file bolsceviche) e col contemporaneo approssimarsi del Secondo conflitto mondiale (in Asia prima ancora che in Europa)”, conclude, “questa serie di fallimenti sfocia alfine nell’avvento dell’autocrazia, esercitata da un leader oggetto di un vero e proprio culto”. E’ un percorso dialettico rispetto al quale corre in parallelo la storia dell’”universo concentrazionario” sovietico, un fenomeno che “non presenta un andamento rettilineo e un quadro omogeneo” ma che “attraversò cicli di relativa crudeltà e relativa umanità” (Applebaum).

Costantemente condizionato dallo stato d’eccezione e caratterizzato dall’”ossessione produttiva” e da quella “pedagogica”, ma non certo da quella di sterminio, il gulag sovietico si differenzia comunque nettamente dal Lager nazista, che era stato “sin dagli inizi il risultato di un ben determinato progetto politico e di una ben determinata visione ideologica”. Quante “Siberie”, a volte nemmeno conosciute, hanno poi avuto gli Stati Uniti e l’Inghilterra liberale nel corso della loro storia anche recente?

Non è dunque quella di “totalitarismo” la categoria sotto la quale sussumere la storia dell’Urss e dell’epoca di Stalin. Semmai bisogna vedere qui la progressiva e contraddittoria affermazione di una “dittatura sviluppista che cerca di mobilitare e “rieducare” tutte le forze in funzione del superamento della secolare arretratezza” della Russia, in uno sforzo immane volto a bruciare le tappe dello sviluppo e concentrare in pochi anni ciò che i paesi più avanzati avevano realizzato in diversi secoli. Uno sforzo nel quale, però, “il terrore si intreccia con l’emancipazione di nazionalità oppresse nonché con una forte mobilità sociale e con l’accesso all’istruzione, alla cultura e persino a posti di responsabilità e di direzione di strati sociali sino a quel momento del tutto emarginati”. Ecco allora che dietro la tragedia storica si delineano i contorni di una tragedia filosofica ancora più profonda. E’ la tragedia dell’”uni- versalismo astratto”, denunciato già a suo tempo da Hegel, nel quale “l’universalità agognata è quella che si presenta immediatamente nella sua incontaminata purezza, senza passare attraverso la mediazione e l’intreccio con la particolarità”, dice Losurdo, e proprio “questo culto dell’universalità astratta” spinge a “gridare al tradimento ogni volta che la particolarità si vede riconosciuti i suoi diritti o la sua forza”. Al contrario, c’è universalità reale, universalità realmente compiuta, solo nella forma dell’”utopia concreta” e cioè solo nella misura in cui l’universale sa realizzarsi di volta in volta nel particolare, seppure in maniera imperfetta e ancora approssimativa, confrontandosi con la storia reale e con i problemi economici e politici che essa pone. Passando in altre parole per la mediazione e il lavoro del negativo. La costruzione di un ordine nuovo sconta inevitabilmente la “contaminazione” con le impurità degli interessi particolari; ma proprio in quanto si vuole universale, essa deve essere capace di realizzarsi attraverso tali interessi e tramite il governo delle contraddizioni ad essi immanenti. Deve cioè sapersi impegnare in un continuo “processo di apprendimento”, nel quale “imparare a governare significa imparare a dare un contenuto concreto all’universalità”.

La tragedia dell’epoca di Stalin è in questo senso la tragedia della storia in quanto tale, nella quale spesso tutte le parti in gioco hanno le loro ragioni e nessuno può pontificare con piglio manicheo. E’ quella tragedia, per capirci, che fa sì che quel grandioso processo di emancipazione consapevole, collettiva e organizzata che costituisce il cuore del progetto della modernità finisca molto spesso per passare attraverso l’urto del negativo, della contraddizione oggettiva e del dolore soggettivo. Il terrore dunque, sì, ma accanto ad esso – e per tanti aspetti proprio attraverso esso – la fuoriuscita dalla servitù della gleba di un popolo che non conosceva la parola “individuo” e portava sulle spalle il peso di secoli di sfruttamento. Il terrore, sì, ma l’avvio di un percorso emulativo che libererà il mondo coloniale dalle catene delle grandi potenze e cioè da un terrore di non minore portata che era stato all’origine della ricchezza e del progresso delle nazioni “civili”. Il terrore, sì, ma l’innesco di un processo politico e culturale grandioso che si è caricato delle aspettative e delle speranze di un movimento mondiale di milioni e milioni di persone. Il terrore, sì, ma la distruzione di quell’orrore ben peggiore che fonda nella razza la superiorità dell’uomo sull’uomo. Il terrore, sì, ma il concomitante ed essenziale stimolo alla costruzione della democrazia moderna nello stesso Occidente liberale…

Una grande tragedia, come si vede, alla quale non è estranea nemmeno quella coscienza morale che di fronte al terrore si dissocia e vorrebbe ribadire che le proprie mani non sono sporche di sangue. E però nessun individuo, gruppo sociale, nazione, movimento politico e ideologia è al riparo dal rischio della lacerazione, perché le contraddizioni e i dilemmi della morale sono inscritti in primo luogo nelle cose stesse: la storia ci costringe di continuo a scegliere, esponendoci per lo più a sacrificare per ragioni legittime altre ragioni che possiedono anch’esse almeno una parte di fondatezza. Proprio questa consapevolezza tragica della storia è il senso di un lavoro filosofico e storiografico che raggiunge qui un punto cruciale. Al contempo, esso costituisce un contributo importantissimo alla rifondazione del materialismo storico in quanto lo rinnova nei contenuti, nel metodo e soprattutto nella forma di coscienza ad esso soggiacente.