COME LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE E IL PENSIERO LENINISTA IMPONGONO ALLA DEMOCRAZIA MODERNA IL SUPERAMENTO DELLE DISCRIMINAZIONI RAZZIALI, CENSITARIE E SESSUALI.
Ha ancora senso occuparsi di Lenin? L’ideologia oggi dominante sembra voler compendiare il bilancio del Novecento in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia; divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: a Lenin e alla rivoluzione da lui ispirata e diretta si può guardare solo con orrore. Sennonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. La democrazia contemporanea si fonda sul principio per cui titolare di diritti inalienabili è da considerare ogni individuo, indipendentemente dalla razza, dal censo e dal genere (o sesso) e dunque presuppone il superamento delle tre grandi discriminazioni (razziale, censitaria e sessuale) ancora vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917. Soffermiamoci intanto sulla prima. Essa si presenta in duplice forma. Da un lato, a livello planetario, vediamo – osserva Lenin – l’”asservimento di centinaia di milioni di lavoratori dell’Asia, delle colonie in generale e dei piccoli paesi” ad opera di un pugno di grandi potenze. Dall’altro, la discriminazione razziale si fa sentire anche all’interno degli Stati Uniti, negando ai neri i diritti politici e talvolta gli stessi diritti civili, e comunque sottoponendoli ad un regime terroristico di white supremacy, nell’ambito del quale le squadracce del Ku Klux Klan possono tranquillamente umiliare, torturare e linciare i membri ribelli delle “razze inferiori”. Ma ora volgiamo pure le spalle alle colonie e alla sorte delle “razze inferiori”, per concentrare lo sguardo sulla metropoli capitalistica, anzi esclusivamente sulla sua popolazione “civile”. Anche a questo livello – fa notare Lenin – continuano ad essere operanti significative clausole di esclusione dalla cittadinanza. In Inghilterra il diritto elettorale “è ancora abbastanza limitato da escludere lo strato inferiore propriamente proletario”; per di più, sempre nel paese classico della tradizione liberale, la Camera Alta (interamente ereditaria, eccettuati pochi vescovi e giudici), è appannaggio dell’aristocrazia terriera, la quale in ultima analisi detiene il controllo degli affari pubblici. Se si prende l’Occidente nel suo complesso, la clausola d’esclusione più macroscopica è quella che colpisce le donne. In Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che dirigono il movimento delle suffragette, sono costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. Denunciata da Lenin, l’”esclusione delle donne”dai diritti politici è cancellata in Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, salutata come “rivoluzione proletaria” (per il peso esercitato dai Consigli e dalle masse popolari) da Gramsci, il quale sottolinea calorosamente il fatto che essa “ha distrutto l’autoritarismo e gli ha sostituito il suffragio universale, estendendolo anche alle donne”. Questa medesima strada viene poi imboccata dalla repubblica di Weimar (scaturita dalla rivoluzione scoppiata in Germania ad un anno di distanza dalla rivoluzione d’Ottobre) e solo in seguito dagli USA. Della democrazia come oggi viene per lo più intesa fanno poi parte anche i diritti sociali ed economici. Ed è proprio il gran patriarca del neoliberismo, Hayek, a denunciare il fatto che la loro teorizzazione e la loro presenza in Occidente rinviano in misura considerevole all’influenza, da lui considerata funesta, della “rivoluzione marxista russa”. In conclusione, al momento della sua scomparsa, Lenin avrebbe potuto essere orgoglioso dell’impulso da lui e dalla rivoluzione d’Ottobre impresso al superamento delle tre grandi discriminazioni e all’affermazione del diritto alla vita, in ultima analisi alla causa della democrazia e dei diritti dell’uomo nel mondo e nello stesso Occidente. Epperò, i progetti del rivoluzionario russo erano ben più ambiziosi. Come emerge con particolare evidenza dal discorso con cui egli conclude il I Congresso dell’Internazionale comunista: “La vittoria della rivoluzione proletaria in tutto il mondo è assicurata. Si approssima la fondazione della repubblica sovietica internazionale”. Dunque, all’imminente sconfitta del capitalismo su scala mondiale avrebbe fatto rapidamente seguito la fusione delle diverse nazioni in un unico organismo, e questa fusione avrebbe a sua volta accelerato il processo di estinzione dello Stato! Tutto ciò appare oggi come il libro dei sogni! La rivoluzione in Occidente non si realizza. Ma non è questo il punto più importante. Stando almeno a certe pagine di Marx e Engels, nella società comunista da loro vagheggiata, oltre alle classi, allo Stato e al potere politico, dileguano anche la divisione del lavoro, le nazioni, le religioni, il mercato, ogni possibile fonte di conflitto. Non priva di elementi messianici, questa piattaforma teorica resta sostanzialmente immutata in Lenin. Il quale, però, dà prova al tempo stesso di una straordinaria flessibilità e di una grande capacità di apprendimento. In un intervento pubblicato sulla Pravda del 30 maggio 1923 egli cita Napoleone: “On s’engage et puis…on voit”. Aveva sperato, come abbiamo visto, nella rapida realizzazione della “repubblica sovietica internazionale”; dopo il dileguare di tali speranze dedica tutti i suoi sforzi alla costruzione di una nuova società nella Russia rivoluzionaria. Aveva teorizzato l’estinzione dello Stato, ma dopo un po’ si rende conto che l’agitazione di questa parola d’ordine rende impossibile il reale superamento dell’Ancien régime zarista. Ed ecco, in un celebre articolo del 4 marzo 1923 (Meglio meno, ma meglio), Lenin lancia parole d’ordine del tutto nuove: “migliorare il nostro apparato statale”, costruire un apparato statale “veramente nuovo” e che “meriti veramente il nome di socialista, di sovietico, ecc.”; non esitare ad imparare dai “migliori modelli dell’Europa occidentale” e dell’Occidente nel suo complesso, inviando “alcune persone preparate e coscienziose” in Germania o in Inghilterra o in America e nel Canada “per raccogliere le pubblicazioni esistenti e per studiare questo problema”. Aveva riposto non poche speranze nel comunismo di guerra, ma ecco che la necessità di sfamare un popolo stremato lo spinge a porsi il problema dello sviluppo delle forze produttive e a sperimentare la Nep. No, non si tratta di pragmatismo senza principi. In Marx (Miseria della filosofia) Lenin aveva potuto leggere: “La storia procede sempre dal suo lato cattivo”. E Lenin stesso, prima ancora della rivoluzione d’Ottobre, nel luglio 1916 a sua volta ammonisce: “Colui che si aspetta una rivoluzione sociale ‘pura’ non la vedrà mai”. Per rigorosa e articolata che possa essere una teoria rivoluzionaria, il processo storico reale si rivela sempre infinitamente più ricco e più complesso; e la maturità di una teoria rivoluzionaria si rivela in primo luogo dalla sua capacità di apprendere e di svilupparsi ulteriormente. Al momento della sua morte, Lenin aveva compiuto solo i primi passi in questa direzione. Si comprende che la scomparsa di una personalità così autorevole aggravi enormemente la soluzione dei numerosi problemi più che mai aperti. Alla guerra civile in atto tra i seguaci dell’Ancien régime (appoggiati dall’Occidente) e la Russia rivoluzionaria si aggiunge la guerra civile (latente o manifesta) che ora più che mai lacera il gruppo dirigente bolscevico; e si aggiunge altresì, a partire dal 1929, la guerra civile nelle campagne. È l’intreccio di queste tre guerre civili, assieme alle debolezze teoriche e alle tendenze messianiche presenti già nella teoria di Marx ed Engels, a spiegare la tragedia che si verifica. Questa tragedia non dev’essere mai persa di vista, e dev’essere tenuta presente senza indulgenze e senza abbellimenti. E, tuttavia, essa non deve farci dimenticare il contributo fornito da Lenin e dalla rivoluzione d’Ottobre al superamento delle tre grandi discriminazioni. Soprattutto oggi che almeno una di esse si rivela più che mai di attualità. Lenin definisce l’imperialismo come la pretesa di “poche nazioni elette”, di riservare a se stesse “il privilegio esclusivo di formazione dello Stato”, negandolo ai barbari delle colonie o semicolonie. Vale la pena di ricordare che George W. Bush ha condotto la sua campagna elettorale, proclamando un vero e proprio dogma: “La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo”.
*Per l’ Humanitè ( 29 maggio 2004) e per l’ernesto