Le forze moderate dell’Unione sono all’offensiva. Dopo il “manifesto dei coraggiosi” di Rutelli, dopo i commenti di Veltroni sull’esito della trattativa su pensioni e competitività, adesso scende in campo anche Dini e lo fa con toni ultimativi. La sostanza è semplice. Rifondazione ha già avuto e non gli spetta più nulla. Se ne stia buona, metta da parte ogni velleità massimalista. E’ giunta l’ora dei moderati.
Che non si tratti di una boutade, né dell’esternazione del solito estremista di centro, lo dimostra il fatto che l’irrigidimento dei moderati dell’Unione si sta determinando su tutta la linea. Dall’accordo col sindacato sull’allungamento (tramite scalini) dell’età pensionabile, all’intesa su precarietà e straordinari, vi è stato nel giro di pochi giorni una escalation che ha fatto saltare le illusioni sulla vocazione progressista del governo dell’Unione. A ben guardare, però, anche su altri terreni, dove la sinistra di governo ha espresso il suo compiacimento, non c’è di che essere tranquilli.
Il documento di indirizzo licenziato dalla Camera dei Deputati, a conclusione dell’esame del DPEF, se formalmente si dimostra aperto su una serie di tematiche (dall’ambiente, alla lotta alla precarietà, al mezzogiorno) di fatto, però, muove da un’impostazione che non può che allarmare, specie se si considera che questa sarà la base per la costruzione della proposta della finanziaria 2008. Si parte, cioè, dall’idea che le risorse derivanti dal recupero dell’evasione fiscale debbano essere utilizzate per ridurre la pressione fiscale; che per accrescere l’avanzo primario occorra ridurre la spesa attraverso un’operazione di sua razionalizzazione; che il piano di abbattimento del debito debba proseguire, giungendo addirittura per il 2011, a oltrepassare gli obiettivi fissati nel precedente DPEF.
Forse ha ragione Spaventa nell’interpretare queste proposte come l’esplicitazione di un “non detto”, costituito dalla segreta speranza che i conti pubblici, in virtù di un trend positivo della crescita economica, possano migliorare al punto da compensare le necessità di spesa. Non è detto però che questo si verifichi e, in tal caso, il rischio che si passi ad una pericolosa contrazione della stessa è tutt’altro che imprevedibile.
Ma ancor più probabile è che il contenimento e la razionalizzazione della spesa si realizzino attraverso una redistribuzione alla rovescia del reddito. Dal mondo del lavoro alle imprese e alla rendita.
Si pensi alla vicenda della trattativa su pensioni, stato sociale e competitività. Viene compressa la spesa previdenziale, le imprese ottengono favori in termini di decontribuzioni e riduzioni degli oneri sostenuti, gli interventi a favore dei lavoratori e pensionati sono minimi e spesso virtuali. In generale si ripete lo schema sperimentato con la finanziaria 2007. Una redistribuzione del reddito alla rovescia – per l’appunto – che si produce in virtù del fatto che gli scarsi benefici a favore di lavoratori e pensionati vengono pagati con il taglio dei servizi (in primis quello previdenziale) e con sostegni diretti o riduzione di imposte per le imprese.
Quando Dini pone lo stop alle rivendicazioni della sinistra in sostanza vuole dire che da questo schema non si esce: che la competizione globale ha dei costi, che il risanamento non è rinviabile e che per rispondere a queste esigenze bisogna torchiare il mondo del lavoro e tagliare la spesa sociale.
Il punto è se la sinistra può accettare una simile impostazione. Dal punto di vista formale ha ragione a protestare, giacché ormai il programma è diventato carta straccia, anche se ben si poteva supporre da prima che dietro le ambiguità dei contenuti di quel programma avrebbero potuto nascondersi gravi insidie. Dal punto di vista sostanziale, non può che prendere atto che ormai si è voltata pagina nella vicenda del governo. La nascita del PD e le esigenze della competizione globale spingono irresistibilmente il governo verso una politica di fatto alternativa a quella auspicata.
In questo quadro, che quattro ministri protestino, chiedano garanzie sul rispetto del programma, che Rifondazione ed altri annuncino la mobilitazione ad ottobre, va bene. Ma non inganniamoci. Il punto è che alla fine varrà, con ogni probabilità, quanto ha ribadito il portavoce di Prodi: si può discutere, ma la sostanza degli accordi non si cambia. Ma, se è così, non può valere l’escamotage di utilizzare consultazioni – dagli esiti in larga misura scontati – per acconciarsi alla fine a piegare la testa. Il problema è che, se la natura dell’intesa è cambiata, è gioco forza, prima o dopo, che si rimetta in discussione l’attuale collocazione della sinistra al governo. Ma le forze della sinistra di alternativa sono disposte ad affrontare questo nodo?