*Università La Sapienza di Roma – Dir.Scient.CESTES e della rivista PROTEO
UNIONE EUROPEA, CAPITALISMO SELVAGGIO E MISERIA SOCIALE DI MASSA.
1. POVERTÀ E LAVORO NEGATO
In passato la povertà è stata quasi del tutto associata ai paesi meno industrializzati, meno sviluppati, più “emarginati” dal moderno sistema economico di sviluppo e si tendeva, quindi, ad allontanare il problema dai paesi a capitalismo maturo che sembravano essere ricchi. Ma ormai negli ultimi anni questa non è assolutamente la situazione reale.
In realtà molte analisi e ricerche anche da parte di istituti e centri studi legati ad organismi internazionali, quali l’ONU, la Banca Mondiale, ecc, hanno accertato che la disoccupazione, le disuguaglianze distributive anche legate alla crescita smisurata dei prezzi alla produzione e al consumo e la sempre maggiore precarizzazione di un gran numero di persone nel mercato del lavoro hanno fatto sì che il problema nuova povertà sia diventato sempre più grave e in continua crescita.
La globalizzazione neoliberista, l’internazionalizzazione dei processi produttivi si accompagnano alla realtà di centinaia e centinaia di milioni di lavoratori disoccupati e precari in tutto il mondo.
Il sistema fordista ci aveva abituato al lavoro a tempo pieno e di durata indeterminata, ora invece un grande numero di lavoratori ha un contratto di breve durata o con orario breve, i nuovi lavoratori possono essere impegnati per poche ore al giorno per cinque giorni a settimana, oppure per molte ore al giorno ma solo per due o tre giorni a settimana.
Contratti di formazione lavoro, borse di dottorato, apprendistato, piani di inserimento professionale, borse di lavoro, contratti temporanei di anziani in possesso dei requisiti per il pensionamento, lavori socialmente utili e lavori di pubblica utilità , contratti atipici nella pubblica amministrazione, sono solo alcune delle decine di forme e combinazioni dei lavori atipici. Se guardiamo la situazione dal punto di vista dei lavoratori si hanno insicurezza economica, totale mancanza di prospettive, difficoltà di conciliazione dei tempi, precarietà in ogni fase della propria esistenza, ecc.
E’ necessario ricordare che l’aumento della precarizzazione del lavoro porta con sè una crescita dell’instabilità del reddito da lavoro; a ciò si aggiunge il graduale abbattimento del welfare soprattutto in campo previdenziale e sanitario. Tutto questo fa si che la situazione peggiori incessantemente e determini uno stato di precarietà permanente nel e del vivere sociale.
Ed è proprio con la flessibilità imposta dalle regole di efficienza di impresa che si arriva alle condizioni di lavoro precarie, non continuative e temporanee nelle quali il lavoratore è lasciato a se stesso e si trova solo davanti all’imprenditore con il quale deve trattare le condizioni economiche e di tempo del proprio lavoro.
La nuova condizione del lavoro diventa sempre più privata dei diritti, degli ammortizzatori sociali, della democrazia stessa; il tutto diventa precario, senza alcuna sicurezza di continuità.
Tutto ciò si aggiunge e non si va a sostituire alle cosiddette vecchie forme di povertà. I dati ufficiali continuano a segnalare che nei vari Sud del mondo sono più di 100 milioni i bambini che vivono sulla strada, sono 250 milioni di bambini che lavorano, più di 300 milioni di bambini sono soldati e più di un milione di donne giovani sono obbligate a prostituirsi. E tali dati non considerano il “profondo Sud” dove qualsiasi stima è impossibile. Basta ricordare solo che l’80% della popolazione del mondo vive nei paesi del Terzo mondo ed ha a sua disposizione meno del 20% della ricchezza mondiale ed ogni anno oltre 14 milioni di bambini muoiono prima di arrivare a 5 anni.
2. LA DISINFORMAZIONE STAT IST ICA E LA POVERTÀ… DA LAVORO
Ma come misurare la povertà? Chi viene ritenuto povero e perché, in base a quali criteri?
Come convezione all’interno della Unione Europea si è adottato come limite – soglia della povertà un valore pari al 50% del reddito medio europeo pro capite, e quindi viene considerato povero colui che percepisce annualmente una quota di denaro pari o inferiore al 50% del reddito annuale medio pro capite europeo.
Nel Primo “Rapporto sulla povertà in Europa” dell’anno 2002 emerge che, dato come indicatore della soglia della povertà la metà del reddito medio, tra gli Stati membri dell’Unione la percentuale più elevata della popolazione povera tra il 1987 e il 1997 si registra in Italia (14,2%) e nel Regno Unito (13,4%).
In realtà però questo metodo analizza solo in modo aritmetico il problema in quanto stabilendo la percentuale di coloro che sono al di sotto del 50% del reddito medio pro capite si ha una estesa generalizzazione della situazione e non si comprende quale siano le differenze esistenti all’interno della classe dei soggetti al di sotto del “50% di reddito medio pro capite”.
Inoltre non va sottovalutato un altro elemento: la crescita del reddito pro capite medio in Europa, ad esempio, è sinonimo di una maggiore ricchezza o piuttosto è dovuto ad una diminuzione delle nascite e quindi della popolazione totale? Ed ancora : per misurare la povertà il conteggio deve essere fatto su base individuale o familiare?
Ad oggi comunque non vi è un indicatore generale valido in assoluto per la misurazione della povertà; non sussiste un limite fisso e valido entro cui collocare una persona tra i poveri o meno; non vi è neppure una unità di base sicura sulla quale lavorare (che sia reddito o che sia consumo) (1).
Tra le ipotesi studiate per misurare la povertà vi è l’indicatore dello sviluppo umano HDI (Human Development Index), che si basa sulla speranza (o aspettativa) di vita; sul livello di alfabetizzazione raggiunto dal paese considerato, sul tasso di iscrizione alla formazione scolastica; ed infine dal reddito pro capite. Con questo indicatore si calcola (in percentuale o in valori relativi da 0 a 1) il valore di ogni singola voce, poi si fa una media aritmetica per ogni paese considerato, per avere l’indice di sviluppo umano richiesto. E’ interessante notare nella tabella seguente l’applicazione di questo indicatore HDI nei paesi industrializzati per l’anno 1997.
L’Italia e la Gran Bretagna raggiungono una percentuale più alta di poveri rispetto anche a paesi come Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia. I motivi della povertà in Europa – secondo il rapporto – sono da attribuirsi alle ripercussioni geopolitiche del crollo dell’Unione Sovietica e del blocco dell’Est, che ha causato la nascita di oltre 150 milioni di “nuovi poveri”.
A ciò si aggiunge la “recrudescenza dei conflitti nel mondo – compresa l’Europa orientale” che ha causato un aumento del numero di rifugiati, richiedenti asilo e immigrati. Da ultimo ma non ultimo come importanza si aggiunge l’accelerazione del processo di globalizzazione neoliberista, “occasione per una più grande ingiustizia”, denuncia il Rapporto. Infatti si sono globalizzati anche “la tratta di esseri umani, il traffico di stupefacenti e il terrorismo internazionale” (2).
Si evidenzia ancora la sproporzionata distribuzione delle risorse ; ad esempio nel Regno Unito il 20% dei ricchi gode del 43% delle risorse disponibili mentre il 20% dei poveri utilizza soltanto il 6,6%.
Tra i nuovi poveri ci sono poi i disoccupati, i lavoratori poveri , gli anziani, le famiglie numerose.
Non ci sono indicatori statistici che riescono a misurare con un livello certo l’insieme di queste condizioni di povertà, che evidenziano in tutta Europa un appiattimento verso il modello USA, con la “vecchia povertà” che si accompagna alle “nuove” forme di povertà da lavoro.
3. LA VIA EUROPEA AL CAPITALISMO SELVGGIO: CONVIVERE CON LA POVERTÀ DA LAVORO
E’ molto importante evidenziare quanto riferito mercoledì 17 dicembre 2003 nella sede dell’UE a Bruxelles:
– BRUXELLES, 17 DIC – In tutta l’Unione europea è a rischio povertà il 15% della popolazione con grandi differenze tra paese e paese: dal 10% della Svezia al 21% dell’Irlanda. Per l’Italia invece il rischio, secondo i dati del 2001, riguarda una percentuale del 19%, così come per la Spagna. Ma il dato sale al 25% per la fascia di età dai 18 ai 24 anni: un giovane su quattro in Italia, così come in Spagna e in Portogallo, e’ a rischio povertà. E’ quanto rileva un rapporto della Commissione europea, in base al quale seppure la percentuale di poveri negli ultimi anni sia progressivamente diminuita, più di 55 milioni di persone e un bambino su cinque sono minacciati dalla povertà.. L’esecutivo europeo indica che la strada da seguire per raggiungere l’obiettivo di Lisbona, di sradicare totalmente la povertà entro il 2010, e’ un impegno coordinato tra gli Stati, la società civile e le autorità locali e regionali (3).
In sostanza negli anni che vanno dal 1995 al 2001 pur essendo diminuita la percentuale di persone a rischio completa povertà (si è passati dal 17% al 15%) restano comunque oltre 55 milioni le persone minacciate. Tra queste i giovani e i minori sono tra le categorie più a rischio anche perché pesa molto l’abbandono scolastico (l’Italia ha una percentuale del 29% a fronte di una media europea del 18,5%).
Uno studio della Commissione europea evidenzia che i paesi che investono maggiormente nella protezione sociale (come quelli del Nord Europa) registrano i più bassi livelli di povertà (ad esempio la Svezia ha solo il 10%).
Il Patto di Stabilità e Crescita approvato nel 1997 ha cominciato la sua verifica nel 1998, anno in cui i criteri del trattato di Maastricht sono stati attuati nei paesi dell’UE. I dati dell’Euro Panel (ECHP), dell’anno 1997 (ultimo anno disponibile) evidenziano che il reddito netto mediano familiare equivalente rilevato nei 14 Paesi dell’Unione Europea era di circa 11.623 unità standard di potere d’acquisto; rispetto a questo valore si possono distinguere due gruppi di Paesi: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Olanda e Regno Unito caratterizzati da livelli di reddito superiori alla media europea; Finlandia, Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna e Svezia, con livelli di prosperità al di sotto della media (4).
Negli anni che vanno dal 1994 ed il 1997 Italia si è avuto un aumento del divario tra i livelli di reddito familiari nazionali da quelli medi europei, diversamente dalla Grecia, Portogallo e Spagna paesi nei quali questa differenza è diminuita.
Di solito nei paesi UE con bassi livelli di reddito vi sono disuguaglianze distributive maggiori e viceversa; gli unici due paesi che non rispondono a questi criteri sono il Regno Unito e il Belgio che hanno alti livelli del reddito familiare nonostante gli alti valori dell’ “indice di Gini”, che descrive il livello delle disuguaglianze distributive.
Tra i paesi con una migliore distribuzione del reddito vi sono la Finlandia, la Danimarca, la Svezia e l’Irlanda mentre Grecia, Italia, Portogallo e Spagna sono quelli con la peggiore redistribuzione.
Nei paesi dell’Unione la percentuale di popolazione che risulta essere povera per più di due anni consecutivi raggiunge una percentuale dell’11%. Questo valore arriva all’8% per persone povere da più di 3 anni e al 7% per persone povere per oltre 4 anni. Il Portogallo risulta essere il paese con la più alta percentuale di povertà persistente, in quanto l’11,8% della popolazione resta in condizione di povertà mediamente per 4 anni consecutivi. Il paese invece con la minore diffusione di povertà risulta essere la Danimarca.
Per quanto riguarda invece le retribuzioni nei paesi dell’Unione Europea lo sviluppo dei principi di flessibilità occupazionale e l’adesione al Trattato di Maastricht hanno portato ad un progressivo impoverimento dei salari con una conseguente diminuzione del peso dei redditi da lavoro sul PIL. Anche per la struttura e l’andamento del salario indiretto le condizioni europee tendono ad avvicinarsi sempre più alle determinanti del capitalismo selvaggio anglosassone. Infatti se si analizzano i sistemi di protezione sociale è evidente che negli ultimi 20 anni si è avuto un progressivo deterioramento di ogni sicurezza e di welfare. Infatti in tutti i paesi dell’UE sono stati avviati processi di riforma anche radicale dei precedenti sistemi di protezione sociale e nei mercati del lavoro, fino a giungere ad intensi processi di privatizzazione della sanità, della previdenza, dell’assistenza. A risentire sono ovviamente le fasce più deboli della società, quelle prive di lavoro e quelle sempre più numerose dei lavoratori intermittenti, precari e atipici in genere. La tabella seguente evidenzia la percentuale delle persone a rischio povertà in ogni paese dell’Unione Europea per gli anni 1995 e 2001.
Ma il precedente dato va supportato e analizzato in funzione della potenzialità di povertà derivante anche dalla disoccupazione e dal lavoro precario in genere.
4. LA SITUAZIONE ITALIANA: L’ECONOMIA DELLA PRECARIZZAZIONE
In Italia (anno 2001), una famiglia di due persone con una entrata pari a 559,6 euro mensili è considerata appartenente all’ultima soglia di povertà, ossia quella della povertà assoluta; il nord del paese evidenzia una percentuale dell’1,3 %, il centro del 2,3% mentre il Mezzogiorno del 9,7%.
Vi sono poi i casi di povertà estrema rappresentati da coloro che vivono senza fissa dimora, dai nomadi, i clandestini,ecc..
Tale situazione convive con le mille forme di nuova povertà da lavoro. Una peculiarità del mercato del lavoro italiano fino ai primi anni ’90 è stata quella di una determinata struttura soggettiva di una disoccupazione a carattere per lo più congiunturale. Infatti la stragrande maggioranza dei disoccupati rientravano nella classe delle forze di lavoro più giovani e potevano quindi essere considerati inoccupati più che disoccupati. Questo portava ad una situazione di “relativa sicurezza” familiare in quanto in ogni nucleo familiare vi era almeno un adulto in grado di sostenere la disoccupazione del giovane.
In questi ultimi anni invece la situazione è molto cambiata; la nuova struttura del mercato del lavoro con l’introduzione della flessibilità , dei lavori temporanei e cosiddetti atipici ha diversificato la composizione per età della disoccupazione (6).
Se si guarda alle tipologie del lavoro i dati ISTAT del 2001 segnalano che le famiglie con almeno un componente impiegato nel lavoro atipico sono aumentate da una percentuale del 9,2% nel 1993 ad una del 15,5% nel 2001.
Inoltre va ricordato che i lavoratori atipici sono difficilmente classificabili in quanto offrono una prestazione lavorativa regolamentata in forma non tradizionale e quindi non inclusa in un modello di regolare classificazione.
Ciò determina che anche le statistiche sulla povertà, quella da lavoro, da lavoro povero, siano falsate e non capaci di fotografare la drammaticità del vivere quotidiano di milioni di famiglie.
I dati dell’ISTAT relativi all’anno 2001 basati sulla spesa media mensile pari a 814,5 euro, indicano che una famiglia di due persone viene classificata povera se spende meno di questa cifra al mese per i consumi mensili. Se si considerano le famiglie con 5 persone il 25% delle famiglie italiane sono da considerarsi povere. Se si parla di povertà relativa ed il dato arriva al 36% nel Mezzogiorno. La povertà relativa è ovviamente molto connessa alla disoccupazione e al lavoro precario. Infatti aumenta il numero dei lavoratori che non riescono ad arrivare alla fine del mese con il loro salario. E quindi a garantire condizioni di vita minimamente dignitose per sé e per la propria famiglia. Negli USA questi lavoratori sono chiamati working poors ossia i lavoratori poveri, ai quali pur avendo un lavoro sono molto vicini alla soglia di povertà assoluta e comunque costituiscono la schiera dei nuovi poveri da lavoro. In Italia il numero di questi lavoratori è in continua crescita. I nuovi poveri sono oggi coloro che non possono accedere all’informazione, alla cultura, alle garanzie di reddito, sono coloro che stentano ad “arrivare alla fine del mese”; oggi il problema povertà riguarda quindi una larga fascia di persone che lavorano, ma che percepiscono redditi bassi, non adeguati.
L’ISTAT osserva che nel 2002 il 22,4% delle famiglie residenti nel Sud d’Italia sono povere mentre al Nord la percentuale scende al 5%; al Centro la percentuale è del 6,7%. L’ISTAT rileva che l’11% delle famiglie residenti (ossia 7 milioni 140 mila individui, pari al 12,4% dell’intera popolazione) vive in condizioni (stabili o temporanee) di povertà relativa, ossia non hanno una possibilità di spesa in grado di garantire loro le normali necessità della vita quotidiana.
Si calcola che come media un nucleo familiare può disporre di meno di 823 euro al mese per sopravvivere. Questo valore rappresenta la linea di povertà relativa calcolata su una famiglia composta da due persone. Questa cifra è impiegata per l’85% nei bisogni primari (ossia alimentazione, casa, trasporti, vestiti); solo il 2,8% della spesa di un mese è impiegato per l’istruzione e le spese mediche (7).
Tra le spese più rilevanti si trovano senza dubbio la casa e l’alimentazione che risultano rappresentare ben il 31,1% della spesa media mensile di una famiglia povera, ossia un terzo del totale; questa percentuale per le famiglie più ricche è invece del 18,3%.
Sempre nell’anno 2002 si calcola che può considerarsi sicuramente povero il 5,1% delle famiglie residenti (ossia 1 milione 137 mila famiglie), mentre viene definito appena povero il 5,9%, (ossia 1 milione 318 mila famiglie). La dicitura di quasi povero è per l’8% delle famiglie (1 milione 772 mila famiglie). Quindi ci sono 2 milioni 916 mila cittadini (5,1% della popolazione) che sopravvivono in condizioni di povertà assoluta, ossia che non hanno la possibilità di nutrirsi adeguatamente, non hanno abitazioni stabili o comunque confortevoli e non possono viaggiare, leggere o comunicare in modo consono.
Va evidenziato che la mancanza di lavoro influenza molto la condizione di povertà dal momento che più di un quinto delle famiglie con un componente in cerca d’occupazione è povero. Il valore cresce ad oltre un terzo (37,3%) se i componenti in cerca di lavoro sono due o più . La povertà relativa incide molto più significativamente se ci si trova nella posizione di lavoratore dipendente rispetto all’autonomo e supera il 32% per i soggetti in cerca di occupazione.
Tre milioni di lavoratori con un salario netto compreso tra i 600 e gli 800 euro, altri tre milioni circa con una busta paga un po’ più consistente, ma che raggiunge a malapena i 1.000 euro.
I “lavoratori poveri”, coloro che pur lavorando tutti i giorni gravitano intorno alla soglia di povertà, sono oltre sei milioni. Tanti. Dallo studio emerge un fatto nuovo, particolarmente inquietante: se è vero che il “lavoratore povero” nasce come prodotto dei contratti atipici, della flessibilità, del sommerso diffuso, è altrettanto vero che oggi il fenomeno ha ormai raggiunto “anche categorie storiche del cosiddetto “made in Italy”, del pubblico impiego e degli altri servizi, della piccola e media impresa, dell’edilizia, dell’artigianato. Milioni di lavoratori che sono poveri ma che lavorano, perchè hanno un livello di vita che è poco sopra quello di un disoccupato.
La situazione attuale mostra che la condizione di disagio e povertà riguarda soprattutto i lavoratori precari, i giovani in cerca di occupazione e i pensionati. Ma come si spiega tutto ciò?
In primo luogo va evidenziato che si è avuto un deciso rallentamento della produzione industriale in concomitanza ad un forte aumento dei prezzi ed aumenti salariali che non hanno rispettato neppure l’incremento dell’inflazione programmata; si pensi che l’inflazione reale ufficiale secondo i dati ISTAT si attesterebbe in media intorno al 2,7% ma già l’inflazione cosiddetta percepita è almeno il doppio, e quella misurata effettivamente sui beni di consumo quotidiano da parte di tali categorie di cittadini può considerarsi certamente al di sopra del 15%. Si consideri poi quanto si è perso in termini di salario indiretto con i continui tagli allo Stato sociale ed anche con il continuo inasprimento fiscale generale in termini non solo di tassazione dei redditi ma anche dei consumi di prima necessità. In ultimo non si dimentichino gli incrementi di produttività che non sono tornati in alcun modo al fattore lavoro.
Il problema è molto serio anche perché l’Italia oltre a registrare solo il 3,3% di restituzione al lavoro della crescita di produttività il resto è stato quasi tutto destinato a rendite e profitti e non ad investimenti produttivi o ricerca.
Ma occorre chiarire che a risentire della situazione non sono solo i giovani lavoratori precari o i pensionati al minimo, o i ceti sociali meno abbienti ma anche e soprattutto gli appartenenti al ceto medio il Rapporto Italia dell’Eurispes del 2004 segnala che il 96,7% degli italiani ha molto risentito nell’anno 2003 dei rincari dei prezzi soprattutto nei settori alimentari, dell’abbigliamento, ma anche della riduzione complessiva del potenziale salariale.
Il modello produttivo capitalistico produce ricchezza che si diffonde però a “pelle di leopardo” ed è caratterizzato dalla scomparsa della stabilità del lavoro, della sicurezza economica. I nuovi poveri sono i professionisti di mezza età, il cosiddetto ceto medio, che molto spesso non parla e si nasconde per una sorta di “vergogna”.
In un sistema sociale in cui vengono rappresentate le varie forme di esclusione economica diventa ancora più evidente la marginalizzazione di settori sempre maggiori di popolazione a partire dai disoccupati.
Di qui l’urgenza di tornare a parlare a partire dalle condizioni reali dei lavoratori e non più in termini di “media statistica”. Riaprire, dunque, la questione salariale, attraverso una nuova politica dei redditi che passi per la retribuzione completa a salari degli aumenti di produttività, per il ripristino dell’indicizzazione dei salari agli aumenti del costo della vita, quindi per incrementi reali del salario diretto, indiretto e differito con rilancio del sistema pensionistico pubblico, per una occupazione buona a pieno salario e pieni diritti per tutti i cittadini, per la riduzione dell’orario di lavoro, per uno Stato sociale di nuova cittadinanza con il riconoscimento immediato di un Reddito Sociale per disoccupati, precari, pensionati al minimo.
Note
1 In Italia ci sono 2 fonti principali dei dati a riguardo: l’indagine campionaria sulle famiglie della Banca d’Italia e l’indagine ISTAT annuale sui bilanci delle famiglie.
2 Per approfondimenti sulle condizioni sociali dei diversi paesi europei e della modalità di costruzione dell’Europa si veda anche Arriola J, Vasapollo L. , “La dolce maschera dell’Europa”, Jaca Book, 2004; Cfr. www.Caritas.it ; Caritas Europa , studio statistico e descrittivo della condizione sociale nel continente grazie ai contributi di 43 Caritas nazionali.
3 http://www.ueitalia2003.it/ITA/Notizie/Notizia_12171735236.htm
4 Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro CNEL Commissione per l’Informazione Commissione Politica economica SESTO RAPPORTO CNEL SULLA DISTRIBUZIONE E REDISTRIBUZIONE DEL REDDITO IN EUROPA 2000 – 2001, Luglio 2002, pag. 9.
5 http://www.didaweb.net/fuoriregistro/legi.php?a=4040
6 Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali; Commissione di indagine sull’esione sociale, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, anno 2003, Commissione di indagine sull’esclusione sociale (istituita ai sensi dell’art. 27 legge 8 novembre 2000, n. 328) , pagg.13-19
7 Cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali; Commissione di indagine sull’esclusione sociale, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, anno 2003, Commissione di indagine sull’esclusione sociale (istituita ai sensi dell’art. 27 legge 8 novembre 2000, n. 328.