Le prospettive del Prc e della sinistra italiana

Com’era prevedibile, il risultato delle elezioni del 13 maggio ha determinato uno sconvolgimento del quadro politico. La fase che si apre è densa d’incognite e, pertanto, ogni riflessione sulla prospettiva di Rifondazione comunista non può che partire da un’analisi del voto e delle sue implicazioni. Che il centro sinistra perdesse queste elezioni era ampiamente previsto, dato l’evidente squilibrio delle forze in campo e una percezione diffusa che l’azione di governo non avesse suscitato larghi consensi. Era, altresì, prevedibile che l’Ulivo avrebbe ottenuto un migliore consenso nei collegi uninominali, dove poteva vantare un personale politico più conosciuto e più preparato di quello della Casa delle libertà. Non credo che, seriamente, nessuno, neppure nella leadership del centro sinistra, si fosse illuso che vi fosse una qualche possibilità di vittoria. Vi era una tenue speranza in un pareggio al Senato, niente di più.

Il risultato elettorale ha, così, confermato sostanzialmente quanto gli osservatori meno faziosi avevano previsto da tempo. Tuttavia, alcuni elementi di novità dal voto sono emersi. Il primo è che le forze che si opponevano più o meno esplicitamente al bipolarismo sono state spazzate via, con l’unica eccezione di Rifondazione comunista. Era per tutti chiaro, prima del voto, che fra le varie liste Bonino, Di Pietro, D’Antoni, qualcuna non ce l’avrebbe fatta a superare la fatidica soglia del quattro per cento, ma difficilmente si poteva pensare che l’insuccesso sarebbe stato generale. Il voto sancisce, così, la tendenza alla bipolarizzazione del sistema politico italiano. Il fatto è di per sé di grande rilevanza e condiziona lo sviluppo dello scenario politico.

Il secondo elemento di novità è rappresentato dagli sconvolgimenti prodottisi all’interno delle coalizioni. Il fatto che nel centro destra CCD e CDU e Lega nord non raggiungano la soglia del 4% e che altrettanto avvenga nel centro sinistra per Verdi, Socialisti e Comunisti italiani è significativo perché evidenzia la crescente semplificazione del quadro politico. Di fatto, ormai, quattro forze politiche si disputano, all’interno dei due poli, il ruolo di protagonisti: Forza Italia e AN a destra e Margherita e DS a sinistra. Qui, la novità più significativa è certamente rappresentata dal riequilibrio dei rapporti di forza a vantaggio della Margherita. Per la prima volta la leadership dei DS è rimessa in discussione per effetto del successo della coalizione di centro. La qual cosa, insieme con il risultato deludente della coalizione, tende ad accentuare la crisi di questa forza politica.
Il terzo elemento di novità è rappresentato dal risultato positivo di Rifondazione Comunista. In verità, la novità non sta tanto nel superamento della soglia del 4%, fatto rilevante ma prevedibile, né nella tenuta sul 5% – anche in questo caso i sondaggi fatti in precedenza avevano confermato la possibilità di un risultato positivo. Il vero elemento di novità è rappresentato dal valore che il risultato assume in relazione agli sconvolgimenti a cui si è accennato in precedenza. Rifondazione Comunista riesce, cioè, a consolidarsi come unica forza alternativa al bipolarismo e si afferma come l’unica formazione di sinistra in grado di reggere elettoralmente. Questi fatti, al di là del risultato in termini di voti, fanno sì che il ruolo di Rifondazione comunista in questa nuova fase possa essere rilevante.

Il carattere non effimero della vittoria delle destre

Nella nuova fase che si apre, decisiva è l’analisi delle forze in campo. Da questo punto di vista, molti sono gli elementi di incertezza, ma nondimeno è possibile individuare alcune tendenze fondamentali. La prima questione decisiva è relativa alle caratteristiche della coalizione di destra che si accinge a governare il Paese. Su questo terreno non è opportuno coltivare facili ottimismi. Lo scenario è quantomai preoccupante. Innanzi tutto, se è vero che complessivamente nel risultato della destra è decisiva l’operazione di ricomposizione delle forze che diedero vita alla coalizione del ’94 (mentre in termini di consenso effettivo non si nota un’allargamento, ma semmai una sua contrazione rispetto al risultato ottenuto nel ’94), tuttavia la coalizione vincente si presenta ben più forte di allora.

In primo luogo, essa è cementata al suo interno da elementi di cultura politica e da un progetto. Nel corso di questi anni, una coesione reale ha cominciato a prodursi fra le forze della destra attraverso un avvicinamento progressivo di impostazioni diverse, maturato anche attraverso pratiche comuni. L’impostazione liberista di Forza Italia si è via via saldata con l’integralismo delle componenti cattoliche, la destra sociale ha portato il contributo di un’impostazione populista e, infine, la Lega ha contaminato l’alleanza con il particolarismo etnico e le vocazioni razziste. Esperienze di governo in realtà importanti hanno, poi, contribuito a sperimentare questi nuovi indirizzi. È il caso di Formigoni in Lombardia o di Storace nel Lazio, per citare solo i nomi più importanti.

Alla coesione politico-culturale si aggiunge l’interesse comune a preservare la coalizione. L’esperienza del primo governo Berlusconi, con la rottura consumata dalla Lega nord, è difficilmente ripetibile nel nuovo contesto. Non solo il centro destra è galvanizzato e le aspettative derivanti dalla prossima collocazione di governo sono tali da mettere in secondo piano le pur evidenti aspirazioni alla visibilità delle singole forze, ma i rapporti di forza consegnati dal risultato elettorale sono tali da rendere molto difficile per la Lega esercitare ricatti o minacciare disimpegni. Peraltro, le prime battute sulla formazione del nuovo governo la dicono lunga sulla reale autonomia che in questa fase conserva questa forza politica nei confronti dell’insieme della coalizione. Anche questo è l’effetto di quella semplificazione del quadro politico di cui si è accennato in precedenza, che tende a rafforzare la leadership di alcune forze politiche sulle altre.

Accanto a questi fatti, vanno sottolineati i consensi che i vincenti stanno ottenendo da parte dei poteri forti. Di fatto, la borghesia si è ricompattata intorno al nuovo governo. Alcuni soggetti, come gli Agnelli, hanno cambiato collocazione e la nuova leadership della Confindustria non fa mistero della propria simpatia nei confronti del governo Berlusconi.
Analogamente, la gerarchia cattolica, nella sua componente maggioritaria, vede la possibilità di operare uno sfondamento su alcuni terreni e già puntualizza le sue richieste. Inoltre, sul piano internazionale è evidente il tentativo di tessere una relazione privilegiata con gli USA di Bush. Infine, sul piano sociale, si comincia ad intravedere un diverso atteggiamento nelle confederazioni sindacali nel confronto col governo. In particolare segnali di disponibilità si colgono in Cisl e Uil, che tendono a differenziarsi dalla fermezza della CGIL.

Per tutte queste ragioni, l’esperienza del governo delle destre non sarà con ogni probabilità effimera. Inoltre, il suo programma politico, proprio perché ispirato ad un mix di liberismo, populismo e localismo, potrebbe favorire il cementarsi di un blocco sociale interclassista. Liquidazione dello stato sociale, libertà d’azione per l’impresa e pratiche clientelari nei confronti dei soggetti deboli potrebbero così consentire un’operazione di sfondamento a livello sociale.
Naturalmente non si può escludere che, all’opposto, la compresenza di riferimenti politico-culturali così diversi possa alimentare contraddizioni. Ma su questo aspetto è necessaria la cautela nelle previsioni.

Le contraddizioni del centrosinistra

Come affronterà la nuova fase il centro sinistra? E in particolare cosa avverrà nei DS? I primi segnali non sono, da questo punto di vista incoraggianti. Il dibattito che si è aperto è, infatti, molto segnato dal politicismo, mentre una seria analisi della sconfitta non è stata compiuta. A tale riguardo, il leitmotiv che accomuna gli stati maggiori dell’Ulivo può riassumersi in una frase: “Peccato, potevamo farcela!” Il recupero di consensi nel maggioritario uninominale viene spiegato come l’effetto di valore aggiunto portato dalla coalizione. Il che, fra l’altro, contribuisce ad alimentare l’idea che, tutto sommato, un rigido sistema bipolare qualche chance comunque può darla. Questa lettura ha poi inevitabili corollari, quali il convincimento che il problema si riduce all’allargamento della coalizione e quindi, inevitabilmente, ci si sofferma sull’errore compiuto da Rifondazione comunista, Di Pietro e quanti altri non hanno voluto appoggiare l’Ulivo.

La sensazione che si ha, insomma, è che da una sconfitta così radicale il centro sinistra esca col convincimento che non si poteva fare diversamente da quello che si è fatto, essendo gli errori imputabili principalmente a scelte tattico-elettorali inadeguate, mentre sul piano dei contenuti dell’azione di governo e del programma elettorale non vi sia di che rammaricarsi.
Paradossalmente, se vi è qualcosa che mette in crisi questo approccio giustificazionista è il brutto risultato ottenuto dalle forze della sinistra moderata, ma anche qui qualche distinzione è d’obbligo, in quanto è soprattutto nei DS che il dibattito si fa più articolato, mentre nei Comunisti italiani e negli stessi Verdi, la sconfitta tende, da un lato, a favorire l’entrismo nei DS e, dall’altro, a far prevalere spinte liquidatorie o integraliste.

Nel dibattito avviatosi nei DS i termini della questione sono invece più chiari, anche se l’esito resta molto nebuloso. Se vi è una considerazione che sta diventando comune in quel partito è che, venuta meno la supremazia dei DS nella coalizione, l’ipotesi del Partito democratico è ormai improponibile e la ridefinizione dell’identità dei DS non è più eludibile. Le due opzioni in campo, in tal senso, oltre a riflettere uno scontro di potere particolarmente aspro, alludono a due opzioni che in ultima analisi rimandano alla lettura del voto. La prima, che potremmo definire neo-laburista, tende in qualche modo ad evidenziare i limiti di un’impostazione troppo politicista e punta a ricollocare i DS in una posizione affiancata a quella della CGIL l’altra, tende a considerare la sconfitta come l’effetto di una scarsa propensione all’innovazione. Quest’ultima impostazione, che potremmo definire modernizzatrice, tende, non a caso, a riproporre il confronto con il centro destra in termini di collaborazione-competizione.

Nel complesso entrambi gli schieramenti sembrano approdare ad una ridefinizione dell’identità dei DS nell’ambito di un orizzonte socialista moderato. Il punto è invece un altro: entrambe le opzioni si dimostrano inadeguate. Nel primo caso si elude il fatto che la sconfitta discende da un deficit di alternatività e non dalla incapacità di cimentarsi sul terreno delle destre. Nel secondo caso, pur ponendosi in qualche misura il tema dei soggetti sociali di riferimento, l’assunzione di un approccio compatibilistico, depotenzia la proposta. Il rischio, alla fin fine, è che, partendo da queste premesse, l’opposizione al governo delle destre risulti poco incisiva, non avendo l’ambizione di proporre un’alternativa reale in termini di programmi e oscillando fra tentazioni consociative e pratiche concertative.

I limiti del risultato elettorale di Rifondazione Comunista

E`evidente che in una situazione così complessa il risultato positivo di Rifondazione comunista rappresenta una risorsa. Ho già sottolineato le ragioni della positività di questo risultato. Esse stanno essenzialmente nel valore politico dello stesso, e cioè nella capacità, dimostrata, di reggere la competizione bipolare in una collocazione autonoma. Per prospettare, tuttavia, le possibilità di un’azione efficace nel nuovo contesto apertosi dopo il 13 maggio, si deve tener conto di tutte le implicazioni di tale voto e in modo particolare dei suoi limiti.

Rifondazione Comunista aumenta in valori assoluti rispetto alle regionali, ma sarebbe incauto sopravvalutare questo risultato, dato che, come è noto, fra le due elezioni vi è stata una riduzione significativa dell’astensione. Inoltre, se analizziamo il dato articolandolo territorialmente, verifichiamo che, sia per quanto riguarda il dato politico sia per quanto riguarda quello amministrativo, vi sono differenze nei vari contesti territoriali. Gli elementi significativi possono essere così riassunti: Rifondazione cresce soprattutto nelle aree dove, per effetto della rilevanza delle contraddizioni sociali e per la scarsa presenza della sinistra moderata, l’effetto voto utile si annulla (è il caso del sud e del nord est), ma resta stabile, o addirittura perde, dove la sinistra moderata conserva un’egemonia (ciò vale per parte dell’area del centro e del nord ovest). A ulteriore riprova di questa tesi, si osservino i risultati elettorali di Camera e Senato. Nelle prime aree la scarsa influenza del voto utile è dimostrato da risultati migliori al Senato rispetto alla Camera, nelle seconde si verifica invece il contrario. Se tutto ciò corrisponde al vero, risulta evidente che Rifondazione beneficia in larga misura di un voto di opinione.

Seconda considerazione: Rifondazione Comunista non riesce a incidere significativamente nella base sociale della sinistra moderata, specie dove questa è molto forte. Lo dimostrano in maniera inequivocabile i comportamenti che si registrano in alcune regioni dove i DS subiscono flessioni da capogiro, ma dove Rifondazione ottiene incrementi modesti se non decrementi. Sicuramente anche in queste elezioni si è avuto un passaggio di voti fra sinistra moderata e Rifondazione comunista. Il punto è che, di fronte al richiamo al voto utile, una parte consistente di quell’elettorato viene congelato. E che di questo si sia trattato lo dimostra la parallela crescita della Margherita. Queste dinamiche cosa ci dicono? Ci dicono che in aree significative del Paese non solo si pone come urgente il problema di un’iniziativa nei confronti di questa parte dell’elettorato, ma che a tal fine la semplice contrapposizione o l’accentuazione della critica non basta. Il problema della prospettiva politica, delle alleanze e più in generale del profilo politico di un partito si pongono se si vuole intercettare un elettorato che è sensibile a questi temi.

Terza considerazione, Rifondazione Comunista ha un problema di radicamento sociale. Sono convinto che, a ben guardare, anche nel risultato del voto politico questo elemento potrebbe essere colto, non di meno è evidente che è nel voto amministrativo che se ne può cogliere appieno la portata. Ad esempio, nelle difficoltà riscontrare in alcune città metropolitane emergono con chiarezza alcuni limiti. Si tratta in generale della difficoltà ad interpretare compiutamente le società locali, costruendo progetti coerenti e socialmente efficaci che superino l’enorme difficoltà di comunicazione sociale che la complessità urbana pone. Ma non vi è solo questo, e lo si può cogliere da molti esempi, anche negli andamenti dei comuni che si collocano al di sotto della dimensione metropolitana. Qui non solo si percepisce con chiarezza, scorrendo i dati, la diversa consistenza della presenza del partito nelle diverse realtà, ma anche la sua diversa adeguatezza e capacità di azione politica. Ciò vale ad esempio per le scelte in tema di alleanze.

Le contraddizioni della fase e il possibile ruolo di Rifondazione Comunista

Nonostante i limiti sottolineati in precedenza, in virtù del risultato conseguito Rifondazione Comunista può proporsi di svolgere un’azione rilevante nell’attuale fase. Ciò discende, in modo particolare, dalle contraddizioni che sussistono e che sono state esaltate dallo stesso risultato elettorale. Mi riferisco, in primo luogo, alla novità rappresentata dall’estendersi del conflitto sociale. Nel corso di questi mesi abbiamo assistito al dilatarsi degli episodi di conflitto. Essi hanno riguardato gli insegnanti, i giovani impegnati nella battaglia contro la globalizzazione e i settori dei servizi, mentre sul piano locale si è avuto un proliferare di iniziative su temi come quelli ambientali. Non si può certo parlare di una fase di lotte, ma di un segnale di ripresa o di disgelo questo sì. Non solo, il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, con il successo delle mobilitazioni promosse e con l’oggettiva prospettiva di una radicalizzazione della lotta, in presenza di atteggiamenti oltranzisti della controparte, costituisce un banco di prova decisivo.

È lecito chiedersi se tali manifestazioni rappresentino eventi estemporanei o siano il riflesso di fenomeni più profondi. In realtà, alcuni fatti eclatanti che stanno modificando la scenario internazionale non possono essere sottovalutati. Mi riferisco, in particolare, ai segnali di crisi che si stanno moltiplicando sul piano economico per effetto di una fase recessiva che muove dagli Stati uniti. Queste tendenze probabilmente cominciano a scuotere anche l’egemonia liberista realizzatasi in questi anni. Che si sviluppino movimenti contro la globalizzazione capitalista e che essi si estendano anziché esaurirsi è il segnale che cresce un’insoddisfazione per gli effetti devastanti del nuovo assetto economico sociale. La categoria dell’instabilità, come è stato sostenuto nel recente CPN di Rifondazione Comunista, tende a caratterizzare la nuova fase, con ciò che ne può derivare in termini di dinamizzazione del corpo sociale.

Tornando al quadro nazionale, la questione che inevitabilmente tenderà a riproporsi sarà quella della compatibilità fra ripresa del conflitto sociale e i limiti imposti dal quadro politico. Ma a tale riguardo l’esigenza di una ricollocazione di opposizione da parte del centro sinistra, in connessione con la ripresa di un’iniziativa sociale, tendono inevitabilmente a rimettere in discussione il quadro concertativo. Nasce da qui la possibilità di un’offensiva sociale, in primo luogo sulla questione, decisiva, della redistribuzione del reddito. In questo quadro, la partita del congresso CGIL è essenziale. Senza la costruzione di una vera sinistra sindacale, che costituisca un riferimento certo per quelle aree sindacali che sentono il bisogno di una radicale modifica della linea fino ad ora seguita, ben difficilmente si potrà dare prospettiva all’iniziativa contrattuale. Anche in questo caso il ruolo di Rifondazione comunista è centrale, in quanto parte attiva di una battaglia nel sindacato. In generale, si può quindi sostenere che compito fondamentale di Rifondazione Comunista in questa fase sia quello di sostenere un’allargamento del conflitto sociale per determinare una rottura dello schema concertativo.

Il secondo elemento che consente un rilancio dell’iniziativa del partito è rappresentato dalla possibilità di sviluppare un’iniziativa di egemonia a sinistra. Tuttavia, perché questa iniziativa abbia efficacia, occorre avere ben chiari due elementi che sono in campo. Il primo riguarda la difficile eludibilità di un confronto con Rifondazione Comunista da parte delle forze della sinistra moderata. Questo fatto non implica nessun automatismo nella ricerca di alleanze. Infatti, la stessa forte caratterizzazione in senso bipolare del voto può alimentare nuove tensioni fra Ulivo e Rifondazione comunista. Tuttavia è abbastanza evidente che difficilmente l’Ulivo e, all’interno di esso la sinistra moderata, avranno delle possibilità nel confronto con le destre se non viene affrontato il nodo del rapporto a sinistra. Ciò vale per il governo del Paese come per quello degli enti locali, dove peraltro l’esistenza di un accordo con Rifondazione Comunista ha permesso dei successi che altrimenti sarebbero stati impensabili.
Il secondo elemento, ben più forte del primo, è rappresentato dall’intima contraddizione che una battaglia di opposizione apre nel centro sinistra. Tale contraddizione nasce dal fatto che una piattaforma di opposizione al centro destra implica, ed è il fatto decisamente più significativo, la rimessa in discussione di gran parte delle scelte compiute dal governo di centro sinistra. Ciò significa che nel corso dei prossimi mesi continuamente si riproporrà la questione dell’incompatibilità fra rivendicazioni socialmente mobilitanti e permanenza all’interno del quadro programmatico a suo tempo assunto dall’Ulivo. Nasce da qui la potenzialità di una battaglia per l’egemonia. Non si tratta, quindi, di sposare una prospettiva genericamente alleantista, ma di favorire, nella nuova fase politica, la crescita di una dialettica a sinistra capace, da un lato, di realizzare momenti di convergenza nella battaglia contro le destre e, dall’altro, di aprire positive contraddizioni nella sinistra moderata per far maturare contenuti più avanzati.

Un programma di opposizione

Il programma di opposizione al governo di centro destra costituisce, quindi, non solo una necessità legata al mutamento del quadro politico, ma anche un mezzo per avviare un processo di ristrutturazione della sinistra italiana. I terreni sui quali concentrare l’intervento sono in gran parte già iscritti nell’agenda politica. Vi è, innanzi tutto, un problema generale, correttamente individuato nelle proposte finali approvate dal CPN di Rifondazione Comunista, e cioè quello della redistribuzione del reddito. Le grandi questioni, come quella dell’aumento dei salari, quella delle pensioni minime, del salario sociale per i disoccupati e del salario minimo intercategoriale, possono costituire una base efficace per guidare l’azione nei rinnovi contrattuali e per gestire una piattaforma di opposizione al nuovo governo. Ma tali proposte, inevitabilmente, entrano in collisione con i vincoli attualmente posti dagli accordi concertativi e, più in generale, pongono un problema rilevante in termini di orientamento della politica economica, perché ripropongono la questione delle priorità degli indirizzi di spesa e del sistema fiscale. A ben vedere è su questi punti che si determinò in gran parte la rottura fra Rifondazione Comunista e il governo Prodi, ed è per questo che un’offensiva su questi temi è destinata ad aprire contraddizioni anche nel centro sinistra.

Il secondo terreno che ormai si profila come centrale è quello del welfare. Dopo le denunce della Banca d’Italia, puntualmente riprese dalla Casa delle libertà circa l’eccessivo indebitamento dello Stato, la tendenza a comprimere la spesa sociale costituisce una prospettiva prevedibile. Non solo, ma le sottolineature emerse nel dibattito politico sulla responsabilità dell’esenzione dai ticket nel determinare un eccessivo aggravio della spesa sanitaria, o gli allarmi lanciati sull’onere insostenibile del sistema pensionistico, la dicono lunga sui punti di possibile attacco. Peraltro, la stessa scuola è al centro del mirino e non solo per quanto riguarda la possibile liquidazione della riforma dei cicli, ma soprattutto per quanto riguarda la volontà di sostenere le strutture private in contrapposizione a quelle pubbliche. Va da sé che un attacco su questi versanti muove dalla prospettiva di liquidare il sistema universalistico dei servizi sociali, favorendo una crescente privatizzazione. Su questi terreni è probabile che vi sia maggiore disponibilità dell’Ulivo a sostenere uno scontro col governo, ma anche in questo caso non senza contraddizioni. La vicenda della scuola è da questo punto di vista assi significativa, date le posizioni assunte a suo tempo dallo stesso centro sinistra.

È del tutto evidente, specie dopo l’esito dei ballottaggi, che la presenza del centro sinistra nel governo di molte regioni, province e comuni rappresenta uno dei punti di forza per la battaglia contro il centro destra. Come si atteggerà il centro destra nei confronti del sistema delle autonomie è ancora da vedere, tuttavia il ricorrente dibattito sulla situazione dei conti dello Stato, ripropone già oggi la questione della necessità di un ulteriore contenimento della spesa locale. È peraltro evidente che già oggi la condizione finanziaria degli enti locali è molto critica e che per supplire alle loro esigenze finanziarie essi hanno dovuto spesso ricorrere a imposte aggiuntive nei confronti dei cittadini. Che fare dunque? È pensabile continuare sulla strada intrapresa dal centro sinistra in questi anni continuando a giustificare a livello locale i tagli ai trasferimenti statali? Si pone qui in modo evidente la necessità di un aumento dei trasferimenti agli enti locali e di una modulazione fortemente progressiva degli attuali tributi. In secondo luogo, di fronte alle non celate velleità privatizzatici del centro destra, è credibile riproporre la logica della privatizzazione dei servizi locali a rete, o non si pone invece obbligatoriamente una scelta che, valorizzando l’autonomia delle decisioni locali, riproponga la decisività della gestione pubblica dei servizi?

Infine, un questione decisiva, ma indubbiamente molto complessa: quella delle istituzioni. Nei prossimi mesi l’agenda politica sarà occupata da due questioni: il referendum sul testo di riforma della seconda parte della Costituzione e la partita degli statuti regionali. Sul referendum gravano molte incertezze, ma è del tutto evidente che il testo approvato dal centro sinistra, nel tentativo di contrastare la destra, ha elementi di contraddizione tali da lasciare aperti molti varchi all’offensiva di quest’ultima. Sulla partita degli Statuti regionali è ormai evidente il fallimento della strategia federalista dell’Ulivo. Le questioni che si pongonosono quindi quelle di una difesa del quadro dei diritti sociali e della democrazia: una battaglia contro il presidenzialismo, per la salvaguardia di essenziali condizioni di partecipazione democratica, per la tutela dell’autonomia degli enti sottordinati. L’altra grande questione riguarda la legge elettorale nazionale, che ha dato, anche in questa circostanza, una pessima prova. Ma l’interrogativo che si riproporrà è come modificarla? Dovrebbe ormai essere chiaro che il meccanismo del maggioritario di collegio produce danni incalcolabili (ammessi nel corso della campagna elettorale, ma oggi rapidamente dimenticati). Non solo, ma dovrebbe altresì essere chiaro per l’Ulivo che con questo meccanismo elettorale la partita del rapporto con Rifondazione Comunista è persa. La questione di una nuova legge elettorale impostata prevalentemente sul proporzionale, o comunque modificata in questa direzione, si pone oggettivamente.

Rifondazione Comunista e la sinistra alternativa

Nessuno può negare che in uno scenario politico così complesso, e per molti versi compromesso, occorra un soggetto politico a sinistra dei DS forte e radicato. Le argomentazioni che sono state poc’anzi sviluppate confermano questo giudizio. Ciò vale sia per quanto riguarda la capacità di attivare un’opposizione estesa al governo di centro destra, sia per quanto attiene alla capacità di sostenere e riunificate i movimenti di massa, sia infine per quanto si riferisce allo sviluppo di un’iniziativa efficace nei confronti della sinistra moderata. Il quesito che si ripropone, quindi, anche in questa fase, è relativo all’adeguatezza di Rifondazione Comunista. Ora, è evidente che la forza di Rifondazione Comunista è inadeguata. Non si tratta solo del fatto che otteniamo il 5% dei voti, quanto soprattutto dell’effettiva solidità di questo 5%, data la grande mobilità del suo elettorato e della consistenza del radicamento sociale. Il problema, quindi, della disponibilità di una massa critica necessaria a sostenere i processi politici e sociali si pone. Ciò rimanda inevitabilmente alla necessità/possibilità di costruire dei rapporti con quei soggetti politici e sociali che oggettivamente e soggettivamente vengono a collocarsi a sinistra dei DS. Per questo il tema della sinistra di alternativa non va derubricato, esso anzi costituisce uno dei campi di intervento essenziali di Rifondazione Comunista.

Il problema, tuttavia, è come dare sbocco a tale esigenza. Alcuni autorevoli commentatori politici, come a suo tempo Pintor, hanno proposto, in tal senso, di dar vita ad un nuovo soggetto politico della sinistra alternativa. Nessuno, in verità, ha mai spiegato con chiarezza cosa significasse nel concreto tale proposta, lasciando quindi una sensazione di precarietà e indeterminatezza che ne ha in gran parte motivato lo scarso appeal. Non solo: dopo esperienze deludenti come quelle tentata dai DS con la proposta delle Cosa uno, la Cosa due, la Cosa tre, costantemente evocate come potenzialità che puntualmente venivano smentite, è evidente che non sono più sufficienti suggestioni ma occorre mettere in campo proposte concrete. Per questo sarebbe utile cominciare ad entrare nel merito. Il primo interrogativo, che può apparire banale, ha tuttavia il pregio di rimettere le cose per terra. Esistono le forze disponibili per una simile impresa politica? La risposta non è così scontata, dato che Rifondazione già fece un tentativo in questa direzione con esiti deludenti. Cosa si può cogliere da quell’esperienza? Che i soggetti sono molto disomogenei, andando da espressioni di movimenti radicalizzati, a pezzi di associazionismo, ad espressioni giovanili come i centri sociali, per finire con fasce intellettuali riconducibili in parte ad alcune testate (è il caso del Manifesto); che gran parte di questi soggetti non sono interessati a costruire una formazione politica, ed infine che le distanze in termini politico culturali sono considerevoli.

È possibile in questo contesto dar vita a un nuovo soggetto politico? Se per soggetto politico s’intende un nuovo partito, appare francamente difficile; ma anche se si pensa ad una sigla elettorale che sconfini in una nuova formazione (per capirci, l’esperienza di Jsquierda Unida) la cosa non è molto facile. In esperienze simili la credibilità dell’operazione è essenziale. La sommatoria di soggetti diversi, in caso contrario, può tradursi in un disastro. Ne fu un celebre esempio la vicenda della tentata unificazione della sinistra extra parlamentare negli anni ’70 sotto la sigla di Nuova Sinistra Unita. Al di fuori di questi due esempi, mi è difficile comprendere a cosa si alluda quando si parla di nuovo soggetto politico, anche perché le parole hanno un senso preciso. Ma anche ammettendo che l’uso di tale termine, per un eccesso di carica evocativa, alluda a qualcos’altro, l’unica prospettiva che mi pare francamente matura è quella di una convergenza programmatica di forze diverse, disponibili su alcuni temi a condurre un’iniziativa politica comune.
E`troppo poco?, Francamente mi pare che, alla luce di quanto si è potuto verificare nel corso di questi anni, questo sarebbe già un notevole progresso.

Ad ogni modo vi è una ragione più di sostanza che deporrebbe a favore di una scelta ragionata evitando forzature e precipitazioni, e riguarda la natura dei processi sociali in atto e le caratteristiche che dovrebbe assumere un soggetto politico alternativo in questo contesto.

L’egemonia moderata presente in larghe fasce di società, le difficoltà a raccogliere i movimenti che si producono nella società attorno ad un progetto comune, e la stessa crisi che attanaglia la sinistra moderata rendono necessaria la presenza di una forza politica capace di alta progettualità, anziché di un soggetto politicamente debole, unificato su minimi comun denominatori.
Questa considerazione, in parte , vale oramai per tutte le forze politiche, e non è un caso che vi sia stato negli ultimi anni la riscoperta del partito di massa come soggetto che meglio può misurarsi con una realtà complessa e disgregata. Tuttavia nel nostro caso c’è qualcosa di più perché questo partito è nato con un’aspirazione precisa e cioè quella di produrre una nuova sintesi pratica e teorica di ispirazione comunista. Ma tale aspirazione, che a mio avviso costituisce un’esigenza vitale per ridare senso alla stessa battaglia anticapitalista, non è compatibile con qualsiasi sbocco politico organizzativo. In particolare, senza la salvaguardia di un’effettiva autonomia (che non significa assenza di interlocutori e di rapporti, che anzi debbono essere sostanzialmente rafforzati) la pratica sociale tende a rifluire nell’enfatizzazione di un generico antagonismo e la proposta politica rischia di eludere le contraddizioni di fondo della nuova fase.

La riqualificazione del Partito

Che Rifondazione Comunista non sia adeguata come partito è evidente, anche se si deve riconoscere che comunque, dopo le dure prove alla quale è stata sottoposta, e a partire dalle tre scissioni subite, questo partito ha saputo resistere e molto spesso facendo conto sulle proprie strutture di base, mentre parte dei gruppi dirigenti abdicavano alle loro responsabilità. Questa constatazione non deve servire a rimuovere la consistenza dei limiti attuali ma a consentirci di affrontarli in maniera obiettiva. Il problema a mio avviso è il seguente. Le difficoltà che si riscontrano nell’iniziativa politica del partito dipendono da un’ inadeguatezza della cultura politica o da resistenze politiche, insomma da vincoli politico culturali che agirebbero nel senso di depotenziare la linea politica nazionale o piuttosto da limiti generali della stessa linea politica e delle modalità dell’azione?

E`evidente che le due spiegazioni sono solo in parte alternative. Data la modalità di costituzione di Rifondazione Comunista con l’afflusso nelle sue fila della base del PCI, ma con pochissimi dirigenti, e del successivo accumularsi di forze che in parte portavano l’eredità delle loro culture politiche , in parte non erano sostenute da una solida cultura politica, era del tutto evidente che elementi di autoreferenzialità, di chiusura verso il confronto con le altre forze politiche o di sottovalutazione dell’importanza dei movimenti tendessero a permanere. Il punto, tuttavia, è se la pratica concreta del partito in questi anni abbia aiutato le nostre strutture di base a superare tali limiti e se, soprattutto, abbia consentito di trasformare il partito in un reale soggetto di iniziativa sociale. In realtà ciò non si è prodotto, ma io ritengo non malgrado la linea generale ma anche in ragione di questa linea.
Mio spiego. Nessuno si sognerebbe di mettere in discussione gli sforzi fatti dal gruppo dirigente nazionale del partito in questi anni per rilanciarne l’immagine, renderlo visibile, qualificarlo con proposte coraggiose. Il punto è che questa opera indispensabile ha inevitabilmente puntato sull’efficacia propagandistica del messaggio politico anziché sulla costruzione del radicamento sociale.

In particolare le nostre strutture di base, già deboli di per sé, con forti carenze di quadri, inevitabilmente hanno ripiegato, da un lato, su ciò che erano in grado di fare meglio anche prima – mi riferisco ad alcuni impegni organizzativi – e, dall’altro, hanno funzionato come cassa di risonanza dei messaggi veicolati dal centro. Per questo motivo la riforma organizzativa del partito implica, in primo luogo, un adeguamento della linea generale, un ripensamento delle modalità del fare politica e del rapporto da tenere con le strutture di base.
Da questo punto di vista è necessario che si sviluppi un’adeguata riflessione.
Tuttavia, alcuni elementi possono già essere richiamati. Il primo riguarda la questione dell’insediamento sociale. Senza l’identificazione delle priorità sociali dell’iniziativa politica vengono a mancare le premesse per indirizzare l’attività dei circoli. Non conosciamo che in maniera superficiale il profilo sociale dei nostri elettori, ma la sensazione che il radicamento sociale del partito nel lavoro dipendente e nelle fasce a basso reddito sia insufficiente è diffusa. Una riforma del partito non può prescindere, quindi, da un chiarimento sui soggetti che vogliamo rappresentare. Solo in quest’ottica può trovare impulso, ad esempio, la costruzione di circoli sui luoghi di lavoro.

La seconda osservazione è relativa alla proiezione sociale del partito. Tale proiezione passa attraverso due vie. In primo luogo, nella declinazione della linea generale in iniziative articolabili territorialmente. So bene che questo obiettivo è facile a dirsi e meno facile a realizzarsi, ma se non si sviluppa una modalità diversa di funzionamento del partito, molto più fondato su una pratica di massa, difficilmente vi potranno essere risultati. Va da sé che per tale pratica l’irrobustimento degli attuali dipartimenti nazionali sarebbe essenziale. In secondo luogo, la riscoperta di una pratica sociale passa attraverso l’assunzione della centralità del conflitto locale.
Lo scarso peso dato in questi anni alle politiche locali, viste esclusivamente come ambito di intervento degli eletti negli enti locali, ha impedito in gran parte sia la connessione di questi con il partito sia il diffondersi di una pratica sociale a livello locale.

In terzo luogo, la riforma del partito passa attraverso una scelta coraggiosa di investimento sulle strutture di base, a partire dai circoli territoriali.
Le esperienze recenti delle altre forze politiche, a partire da quelle di destra, dimostrano come la costruzione organizzativa di un partito, anche nei casi in cui questo si giova di un clima politico favorevole, non è mai l’esito di processi spontanei. Senza un investimento in strutture e formazione, e soprattutto senza una pratica di sostegno politico costante, il radicamento di un partito è difficile, a maggior ragione se questo è impegnato in una battaglia contro corrente.