Le occasioni della sinistra

Senza l’assunzione di una concreta prospettiva europea sarà difficile portare a compimento quel processo di rinnovamento e rifondazione delle sinistre, apertosi e mai conclusosi dopo la crisi dell’89. La realizzazione di un tale obiettivo, in verità in più occasioni proclamato ma mai effettivamente praticato, per tante ragioni non è più rinviabile. Ciò vale per la sinistra italiana, ma anche per il complesso delle sinistre europee. E vale anche in una nuova prospettiva mondiale, perché nemmeno il movimento no-global e lo stesso successo di Lula in Brasile potrebbero colmare il vuoto che lascerebbe sulla scena internazionale una sinistra europea confusa sul suo ruolo e le sue prospettive e, sia pure in diverso grado e misura, subalterna al pensiero neoliberista sinora dominante oppure ad esso radicalmente ostile, ma attraverso pratiche e modalità che la condannano al minoritarismo.
La diffusa contrarietà alla guerra in Iraq che attraversa le opinioni pubbliche dei diversi paesi del Vecchio continente costituisce a questo scopo un punto di partenza promettente. E può diventare la leva di una efficace azione sul piano internazionale da parte delle sinistre europee contro la “dottrina Bush” e l’assetto del mondo che in essa è indicato, se trova il suo punto di applicazione in un progetto che punti alla costituzione in Europa di un’autonoma entità politica sovranazionale a cui la sinistra porti il suo contributo di idee e valori costitutivi. Il rinnovato asse franco-tedesco, quale argine alla politica aggressiva dell’attuale amministrazione americana e insieme spina dorsale del processo di allargamento dell’Unione, può certo riportare il processo di integrazione europea entro gli antichi schemi dei rapporti tra potenze, ma può costituire anche il punto di partenza per un assetto politico mondiale di tipo multipolare. Di ciò la sinistra non potrà che giovarsene.
La lotta contro il neoliberismo, a cui il movimento no-global ha dato quell’importante contributo noto a noi tutti, può trovare un ancoraggio istituzionale duraturo nella battaglia per collocare l’Europa nel quadro della competizione globale secondo linee di sviluppo coerenti con quei tratti della sua civilizzazione elaborati nel quadro del compromesso tra capitale e lavoro nato nel secondo dopoguerra. Costituzione politica democratica dell’Europa e lotta per un nuovo modello di sviluppo fondato sulla valorizzazione del lavoro e sul rispetto dell’ambiente aspetti di una stessa battaglia.
In questa prospettiva il ruolo di una sinistra, che ritorni a mettere al centro della ricostituzione del suo profilo identitario il tema della rappresentanza politica del lavoro, riceve una legittimazione che attiene non solo a una ritrovata dimensione ideale e sociale ma a un progetto storico-politico in cui sono coinvolti i destini degli stati e delle nazioni di questa parte del mondo.

Fuori dal contesto della costruzione dell’Europa politica e del processo costituente che ne è una premessa, anche le discussioni che attraversano la sinistra italiana rischiano di continuare a muoversi entro il recinto di un circolo vizioso, di una crisi che viene ormai da lontano e stenta a trovare i suoi sbocchi. Ciò vale per il dibattito che il congresso di Rifondazione comunista ha solo aperto sulla collocazione di quel partito rispetto al complesso del movimento operaio italiano, ai movimenti, e alle altre forze del centro sinistra. Ma vale ancor di più per la contrapposizione tra partiti e movimenti che attraversa le forze dell’Ulivo e attorno a cui si sviluppa la lotta per la leadership tra Cofferati e i leader delle forze politiche della coalizione di centrosinistra.
Non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che tutto ciò che è accaduto tra la manifestazione del 14 settembre promossa dai “girotondi” contro la legge Cirami e il grande raduno di Firenze con Sergio Cofferati abbia segnato un punto di svolta nella politica italiana. Ha suggellato, anche per il suo forte impatto simbolico, un dato: le forze del centrosinistra tutto – da Rifondazione a Italia dei valori – dovranno fare i conti con i movimenti che, da Genova alle manifestazioni sindacali sull’art. 18, all’esplosione dei girotondi, hanno accompagnato l’esperienza di governo della destra costituendone il principale fattore di contrasto. Tutto questo non è tuttavia un’assoluta novità. Infatti, è dal ’68 che ritorna periodicamente irrisolto il problema del rapporto tra movimenti di massa e di opinione, che nel loro stesso sviluppo esprimono la tendenza a autorappresentarsi politicamente, e i partiti politici che per la loro natura ambiscono a esercitare il monopolio della mediazione tra società civile e istituzioni democratiche. Che questa “pretesa” dei partiti sia nelle società mature ormai infondata, essendo ampiamente esaurita la funzione da essi esercitata nell’avvento della democrazia di massa di rapportare le masse escluse allo Stato, è noto a tutti. Ma ciò che non è chiaro è che cosa debba diventare la rappresentanza democratica in un modello nel quale partiti e movimenti concorrano a pari titolo alla sua formazione. E non è legittimo il dubbio che uno sviluppo dei movimenti a scapito della funzione dei partiti possa, sebbene non necessariamente, imboccare la strada tracciata dai processi di “americanizzazione” delle società europee (opinioni pubbliche invece che masse organizzate, società dell’informazione invece che della partecipazione, governabilità e astensionismo elettorale invece che rappresentanza e sovranità popolare).
Questo mi sembra oggi in Italia il principale problema con cui deve fare i conti il processo che dovrebbe portare attraverso l’unità di tutte le opposizioni alla costruzione di una nuova coalizione democratica capace di costruire un’alternativa al governo della destra.
Sbaglierebbero, tuttavia, la sinistra e i suoi partiti se dovessero sottrarsi alla sfida dei movimenti. Non solo perché si accentuerebbe la loro crisi di legittimità rispetto all’opinione pubblica democratica, ma perché verrebbero meno a una funzione che può essere loro propria e che è vitale per il futuro dei sistemi politici maturi. Mi riferisco alla riaffermazione del ruolo del pluralismo politico (a cui solo i partiti possono contribuire in modo decisivo essendone la principale manifestazione) che resta fattore essenziale per il superamento della crisi delle democrazie moderne.
Non c’è infatti nessuna sottovalutazione del ruolo dei movimenti nella sottolineatura del fatto che la loro aspirazione all’unità, la loro giusta intolleranza verso pratiche da ceto politico separato, la loro proiezione simbolica verso leadership carismatiche, possano riprodurre un rapporto tra rappresentanza e opinione pubblica che non dà risposte a quella crisi della partecipazione e a quel rinsecchimento dei corpi intermedi tra istituzioni e società civile che costituiscono il principale fattore di deperimento delle democrazie occidentali.

La sinistra potrà contribuire a dipanare questi nodi – particolarmente evidenti oggi in Italia ma comuni a tutti i paesi sviluppati – se colloca la loro soluzione nella prospettiva della costituzione dell’Europa politica. Costituzione politica di una comunità sovranazionale non significa solo valori e istituzioni, divisioni di poteri tra Stati e Unione, ma anche costituzione di un sistema politico europeo, cioè quali partiti, quale sistema elettorale, quali alleanze, quali rapporti tra rappresentanza politica e rappresentanza sociale (a cominciare dal ruolo dei sindacati) a livello continentale.
Un approfondimento di queste questioni potrebbe aiutare anche la sinistra italiana a uscire dalla pasticciata discussione sull’Ulivo e il centrosinistra che l’attraversa dal ’96. Nella discussione italiana sull’Ulivo, il suo ruolo e le sue prospettive, si confondono e si sovrappongono due concezioni tra loro radicalmente antitetiche. La prima è quella che concepisce l’Ulivo come un’alleanza politica e quindi come una “coalizione di partiti”, la seconda è quella invece che lo pensa come organico soggetto politico e quindi come una sorta di “partito-coalizione” che dovrebbe aiutare il sistema politico italiano a evolvere verso un bipartitismo sia pure imperfetto di tipo anglosassone o americano.
Non c’è dubbio che nelle posizioni maggioritarie che fanno capo alle componenti moderate dell’Ulivo, sia nei Ds che nella Margherita, sia prevalsa questa seconda interpretazione. Ma ciò che appare singolare che, dal punto di vista del modello politico, anche i cosiddetti movimenti proiettati attorno alla leadership di Sergio Cofferati non si discostano da questa posizione. Da qui l’opzione per un sistema elettorale maggioritario e e la tendenza a concepire l’Ulivo come la versione italiana del processo di trasformazione delle socialdemocrazie in organiche formazioni di centrosinistra.
Una discussione approfondita su quale debba essere per la sinistra la nuova costituzione politica dell’Europa, intesa anche come fondazione di un sistema politico europeo, potrebbe aiutare a contrastare un’ipotesi che starebbe, tra l’altro, a significare il declino della sinistra stessa, intesa come soggetto autonomo che è tale perché irriducibile, al fondo, agli assetti e alle logiche del capitalismo.
Ma di quale sistema politico avrebbe bisogno la costituzione di un’Europa unita? Se guardiamo alla dinamiche reali e ai problemi tuttora irrisolti che attraversano il Vecchio continente non è difficile comprendere che in Europa di fronte al dilagare della destra sull’onda delle culture neoliberiste ci sarebbe bisogno di un incontro e della realizzazione di un compromesso tra le forze eredi delle grandi tradizioni popolari europee, quelle che traggono la loro origine dal movimento operaio, dalla tradizione cristiana e da quella liberaldemocratica del secondo dopoguerra, le quali hanno tra i loro fondamenti la comune esperienza antifascista maturata nel corso della seconda guerra mondiale. Tale esperienza può essere produttiva ancora oggi di un comune collante capace di fare di queste correnti politiche, alleate tra loro, l’alternativa alla deriva populista e liberista di tante forze moderate cadute sotto l’egemonia di gruppi dirigenti la cui vocazione politica e culturale (da Aznar a Berlusconi) è orientata a destra, e nel caso dell’Italia anche verso la destra estrema. Insomma c’è bisogno di un centrosinistra europeo.
Ma un tale incontro e un tale compromesso che, per intenderci, innanzitutto aprano un conflitto all’interno del Partito popolare europeo, stentano a venire avanti. Anche perché una sollecitazione in tale direzione non c’è da parte delle forze della sinistra socialdemocratica, orientate con le loro politiche a occupare esse stesse il centro dello schieramento. E tantomeno da parte delle sinistre alternative prigioniere di una cultura sostanzialmente minoritaria. Eppure le potenzialità di una siffatta interlocuzione possono essere enormi, come dimostrano ad esempio le posizioni della destra gollista francese, sulla cui matrice antifascista non possono esserci dubbi, sul caso della guerra all’Iraq.

Di una simile strategia, tuttavia, può essere protagonista solo una sinistra che sia nettamente ancorata a una sua autonoma identità e sia profondamente radicata tra gli strati popolari del Vecchio continente. E’ esattamente il contrario di una trasformazione dei partiti socialdemocratici in forze di centrosinistra, rappresentative delle “classi medie” orientate all’innovazione, secondo le posizioni dei teorici della “terza vita” raccolti attorno all’esperienza di governo di Blair. Ma è anche il contrario dell’antagonismo radicale che caratterizza gli orientamenti di tanta parte della sinistra alternativa europea. Sembra ragionevole pensare che tale identità e tale autonomia della sinistra possano essere fondate su una rinnovata rappresentanza di un mondo del lavoro capace di unificare le istanze riformatrici di movimenti in cui si incontrano gli orientamenti di forti correnti di opinione pubblica e i bisogni di vasti strati popolari. Insomma una sinistra che torni a ripensare al mondo a partire dal rapporto tra lavoro e capitale nell’era della globalizzazione e dopo la rivoluzione neoconservatrice dell’ultimo ventennio del secolo scorso, e cominci a concepire la libertà di chi lavora come la leva fondamentale di un nuova tappa di liberazione dell’umanità.