L’ Europa orientale e lo spazio ex sovietico meritano due discorsi distinti a proposito dei processi di ricomposizione del fronte delle forze comuniste e di sinistra dopo la disintegrazione del sistema di socialismo cosiddetto “reale”.
POLONIA, UNGHERIA, ROMANIA
Nei paesi dell’Europa centro-orientale, dove, nel periodo antecedente il secondo conflitto mondiale, il movimento comunista non aveva mai avuto, tranne poche eccezioni co – me quella cecoslovacca, un radica – men to di massa e dove gli esperimenti di transizione al socialismo sono stati in larga parte condizionati da un rapporto di sostanziale dipendenza dal modello sovietico, la rapida trasformazione dei partiti comunisti al potere in forze che, per semplificare, possiamo definire “socialdemocratiche”, ha provocato una situazione tale da riproporre spesso scenari di dislocazione delle forze politiche per molti versi simili a quelli che nell’anteguerra caratterizzavano questa parte del continente europeo. Se pensiamo a paesi come la Polonia, l’Ungheria, la Romania, ad esempio, la decisa affermazione in queste realtà di forze reazionarie, xenofobe, a volte apertamente fasciste, ci rimanda tragicamente ad alcune situazioni degli anni Trenta del 900, caratterizzati dalla presenza ingombrante e dal governo di movimenti di estrema destra, legati ai fascisti tedeschi e italiani, di cui hanno seguito la sorte. La storia degli ultimi anni ha inoltre ampiamente dimostrato che i diversi tentativi di dare vita a partiti che facciano riferimento all’esperienza dell’Internazionale Socialista e che si dimostrino in grado di gestire u na transizione morbida al capitalismo, sembrano in gran parte falliti, se si pensa come, dopo una fase relativamente breve che ha visto queste forze al governo dei rispettivi paesi, nella gran parte dei casi esse abbiano subito un drastico ridimensionamento che le ha costrette ad un ruolo non solo marginale, e si siano dimostrate subalterne alle direttive dei poteri forti, economici, politici e militari, dello schieramento imperialista occidentale, al punto che i processi di integrazione nel sistema di alleanze occidentali sono stati spesso avviati e portati a compimento dagli stessi partiti cosiddetti “socialisti”. Emblematico è il caso del Partito Socialista Bulgaro, inizialmente attraversato da un vivace dibattito, caratterizzato dalla presenza di una componente di “sinistra” non liquidazionista, che nel corso degli anni è stata progressivamente emarginata da settori più inclini al compro – messo con i circoli imperialisti. Un discorso a parte merita l’evoluzione subita dal partito al potere nella Repubblica Democratica Tedesca, la cui più recente storia esula dal tema che sto affrontando [cfr. in questo stesso numero l’articolo di Feldbauer]. A maggior ragione, i partiti e i settori dei partiti precedentemente al potere che tuttora si richiamano al comunismo, almeno nella maggioranza dei casi, non hanno saputo riprendersi dalla sconfitta e hanno indubbiamente pagato amaramente le conseguenze degli errori commessi nella precedente fase di transizione, in cui si è assistito – occorre riconoscerlo con lucidità – ad una lacerazione profonda del rapporto con ampi strati dei settori sociali di riferimento, a cominciare dalla classe operaia. Di più, nel ventennio della restaurazione capitalistica, i comunisti hanno dovuto fare i conti con una vera e propria campagna persecutoria nei loro confronti e nei confronti degli stessi ideali del socialismo e del comunismo, avviata dai regimi subentrati al potere, anche a direzione socialdemocratica, e avallata dalle stesse istituzioni occidentali, a cominciare dall’Unione Europea, che ha indubbiamente contribuito a limitare la penetrazione della propaganda e delle idee, pur in presenza delle drammatiche conseguenze delle violente trasformazioni sociali che hanno sconvolto praticamente tutti i paesi ex socialisti di quella parte del continente europeo. Partiti comunisti, come quello ungherese (il Partito Comunista Operaio, Munkaspart), quello polacco (Partito Comunista della Polonia), come quello romeno, recentemente ricostituitosi con la stessa denominazione del partito di Ceausescu, dopo una fase in cui avevano operato dietro altre sigle (Partito Socialista del Lavoro, Partito dell’Alleanza Socialista in Romania, Partito Socialista Operaio in Unghe – ria), stentano a instaurare legami profondi con i settori popolari, limitandosi ad un ruolo sostanzialmente marginale più che altro nell’ambito del movimento sindacale e in quei movimenti, di discreto impatto, che, in particolare in Unghe – ria, si sono manifestati contro i processi di colonizzazione imperialista seguiti all’adesione alla NATO. Sul piano elettorale, la presenza di questi partiti comunisti è francamente irrilevante e la sensazione che si ricava è che, tra i militanti di queste forze, non si manifesti una sufficiente consapevolezza della necessità di fare i conti con un passato di sconfitte che non può essere ascritto solo alle trame dell’imperialismo, ma che deve indurre ad una severa indagine di tutte le cause e le respon – sabilità che hanno portato a un così drammatico scollamento rispetto al sentire delle masse. Nei loro documenti più recenti, spes – so ripresi dalla rete comunista internazionale “Solidnet”, non mi pare emerga un sufficiente approfondimento autocritico delle ragioni che hanno determinato la sconfitta dell’esperienza socialista. La semplice sottolineatura dei disastri provocati dalla restaurazione capitalistica, messi a confronto con la stabilità e la sicurezza sociali che caratterizzavano la fase socialista, appare per molti versi rassicurante e non riesce francamente o fornire un’esauriente spiegazione delle ragioni del distacco di larghe masse di questi paesi dai comunisti, dai loro attuali partiti e dagli stessi ideali del socialismo, un distacco che, in alcuni casi, come quello polacco, ha assunto forme di tragico rifiuto e contrapposizione, che sembrano trasmettersi anche alle nuove generazioni.
REPUBBLICA CECA
Un discorso diverso va fatto per la Repubblica Ceca, dove si sono ricostituite organizzazioni politiche del movimento operaio, che, in qualche modo, ripropongono rapporti di forza e scenari di confronto che ci riportano all’anteguerra. A fianco di una forza socialdemocratica, al momento prevalente sul piano elettorale, in un contesto, che lo dif feren zia dai partiti che abbiamo sopra descritto, di severa autocritica rispetto al passato, soprattutto in merito alle vicende della “Primave ra di Praga” e della conseguente occupazione da parte delle truppe del Patto di Varsavia, dell’adozione di un programma politico estremamente dut tile e dell’esistenza di un dibattito interno caratterizzato da una cer ta conflittualità, è venuta ricostituendosi una forza ben strutturata e dotata di una notevole influenza e di un peso elettorale certo non trascurabile, con percentuali che hanno oscillato in questi anni tra il 13 e il 18%, che ha inteso mantenere un esplicito riferimento agli ideali e ai valori del comunismo, vale a dire il KSCM, Partito Comunista di Boemia e Moravia. Anche i comunisti della Repubblica Ceca hanno dovuto fare i conti, fin dall’inizio della loro riorganizzazione, con una campagna di persecuzione avviata dai gruppi che si sono avvicendati al potere in questi ultimi anni. Una campagna che si è sostanziata nell’allontanamento di molti comunisti dagli impieghi pubblici e, che si propone, se non di met tere fuorilegge le sue organizzazioni, almeno di condizionare gli sviluppi del suo dibattito interno, favorendone eventuali sbocchi “socialdemocratici”, analoghi a quelli che hanno caratterizzato altri movimenti comunisti dell’Europa centro- orientale. Che nel partito sia in corso un dibattito vivace sulla politica interna e sulle interlocuzioni internazionali, testimonia anche la sostituzione alla presidenza, nel 2005, di Miroslav Grebenicek con Voitech Filip, considerato più disponibile ad aperture sul piano ideologico e politico alla locale socialdemocrazia e più flessibile nel rapporto con le forze non comuniste appartenenti al GUE. Grebenicek, al contrario, aveva sempre cercato di mediare tra le componenti che, su versanti opposti, in questi anni si sono spesso contrapposte su alcune questioni di carattere strategico: quella capeggiata da Miroslav Ransdorf, favorevole alla trasformazione del partito in una forza con caratteri- stiche simili alla Linke tedesca, partecipe a pieno titolo e non solo in qualità di osservatore alle strutture della “Sinistra Europea”, e il settore favorevole all’interlocuzione privilegiata con i partiti comunisti e a una politica di maggiore radicamento e strutturazione in quanto forza comunista, di cui è interprete Hassan Charfo, ancora recentemente responsabile della politica internazionale. I prossimi mesi probabilmente ci diranno quale strada imboccheranno i comunisti cechi. In questo contesto non è privo di significato il fatto che l’organizzazione giovanile comunista, il KSM Unione della Gioventù Comunista, vittima nel recente passato di una feroce campagna persecutoria, felicemente contrastata da un’efficace iniziativa di solidarietà internazionale, si sia sempre tendenzialmente schierata su posizioni “più di sinistra” rispetto al partito, pronunciandosi per un più stretto legame con l’insieme del movimento comunista internazionale e privilegiando l’interlocuzione con le organizzazioni giovanili comuniste europee, a cominciare da quella greca.
EX URSS
Se poi prendiamo in considerazione gli stati che sono nati in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, al contrario di quanto è avvenuto in molti paesi dell’Europa centro-orientale attraversati in questo momento da spinte reazionarie di massa, possiamo verificare che il movimento di opposizione e resistenza ai processi di restaurazione del capitalismo si è sostanziato, con maggiore o minore impatto a seconda dei paesi, nella ricostruzione di partiti che hanno inteso raccogliere l’eredità del vecchio PCUS, sciolto all’indomani del golpe eltsiniano dell’agosto 1991. I principali partiti comunisti dell’ex Unione Sovietica, fin dall’inizio dei processi di ricostituzione, hanno creato un proprio coordinamento nella cosiddetta Unione dei Partiti Comunisti, che, nel corso degli anni, è diventata sede di confronto tra forze politiche che mantengono una propria autonoma fisionomia, senza vincoli nei confronti di alcuna disciplina internazionale. Abbiamo detto che partiti comunisti si sono ricostituiti praticamente in tutte le repubbliche ex sovietiche. Quasi dovunque, queste forze partecipano, con risultati più o meno significativi, ai processi elettorali, anche in alcune repubbliche dell’Asia Centrale.
GEORGIA
Fa eccezione la Georgia, dove il cosiddetto Partito Comunista Unificato agisce in una difficilissima situazione di semi-legalità e discriminazione da parte del regime di Saakashvili.
REPUBBLICHE BALTICHE
Nelle repubbliche baltiche, aderenti alla NATO e all’Unione Euro – pea, i partiti comunisti sono tuttora al bando e i loro dirigenti sono stati per molti anni vittime di durissime persecuzioni, sfociate in lunghissimi periodi di detenzione. In Lettonia, Lituania ed Estonia, i comunisti, radicati soprattutto nelle forti minoranze etniche russe sottoposte in questo momento a un vero e proprio regime di segregazione razziale, per operare legalmente sono stati costretti a cambiare la denominazione del partito, per lo più in quella di “socialista”. Ad esempio, in Lettonia, presentandosi nelle liste di un raggruppamento eterogeneo, Alfred Rubiks, già segretario dei comunisti della Repubblica prima dello scioglimento dell’URSS, costretto per molti anni a pesanti condizioni di detenzione, è stato eletto deputato europeo, aderendo immediatamente al GUE.
BIELORUSSIA
In Bielorussia, caratterizzata dall’originale esperimento antimperialista di Lukashenko, i comunisti, tradizionalmente molto forti nella repubblica sovietica che più ha pagato in termini di vittime e distruzioni nella Seconda Guerra Mondiale, sono stati attraversati da una drammatica scissione, che ha visto contrapporsi il Partito dei Comunisti di Bielorussia, ostile a Lukashenko, al punto tale da unirsi alla più sfacciata opposizione filo-imperialista persino in iniziative sponsorizzate dalla NATO, al Partito Comunista di Bielorussia che partecipa all’amministrazione del paese, con una discreta rappresentanza parlamentare. Il Partito Comunista di Bie lo russia ha tra l’altro ospitato nel 2007 la tradizionale conferenza internazionale organizzata dalla rete “Solidnet”.
UCRAINA
C’è poi l’Ucraina, dove il Partito Comunista appare fortemente indebolito rispetto ad una fase iniziale seguita alla proclamazione dell’indipendenza, che lo aveva visto occupare uno spazio rilevante nel panorama politico del paese. Esso ha scontato probabilmente il compor- tamento assunto a partire dai primi anni 2000 di fronte agli avvenimenti che sono sfociati nella cosiddetta “rivoluzione arancione” del 2004. Il fatto di non avere operato fin dall’inizio una chiara scelta di campo a favore del settore filo-russo capeggiato da Viktor Janukovic ha alienato le simpatie di una larga parte del suo elettorato, che era con centrato soprattutto nelle regioni orientali e meridionali, abitate in maggioranza da russi e russofoni. In tempi più recenti, i comunisti sembrano aver corretto la loro linea politica, schierandosi più nettamente con Janukovic, fino a offrire il loro appoggio esterno all’attuale governo, che ha operato una netta cesura in particolare con le scelte di politica internazionale del regime arancione, interrompendo l’avvicinamento all’integrazione nelle strutture della NATO.
MOLDAVIA
Non possiamo infine tralasciare il caso della Moldavia, dove il malcontento, generato dai primi anni di massacro neoliberista ad opera delle forze nazionaliste, è sfociato, nel 2001, nella travolgente vittoria (maggioranza assoluta dei voti e 70% dei seggi) del Partito dei Co – munisti della Repubblica di Moldova. Per la prima volta, dalla fine del – l’URSS, in Europa orientale i comunisti tornavano, in modo assolutamente democratico, alla direzione dello stato, eleggendo quale presidente della repubblica il loro leader Vladimir Voronin. Da quel momento i comunisti, pur tra enor mi difficoltà e in un contesto internazionale non certo favorevole alle forze di progresso dopo la caduta del contrappeso socialista, hanno cercato di trovare una soluzione alla terribile crisi ereditata. Si sono introdotte misure tese ad assicurare una maggiore presenza regolatrice dello stato. Si è cercato di frenare la corruzione dilagante e di migliorare i servizi sociali. I mezzi finanziari a disposizione sono stati indirizzati allo sviluppo della produzione industriale e dell’agricoltura. I comunisti si sono poi sforzati di ricercare l’integrazione nel mercato ex sovietico, sapendo bene che questo rappresentava l’unico modo per garantire una ragionevole ripresa della dissanguata economia nazionale. Il conseguente avvicinamento alla Russia ha comportato anche la ricerca tenace di un’intesa con le autorità russe della Transnistria, scenario di un sanguinoso conflitto e di una secessione dalla Moldavia all’indomani dello scioglimento dell’URSS. Si è cercato anche di diversificare l’iniziativa internazionale, intessendo nuove relazioni, ad esempio attraverso la sigla di accordi commerciali con la Repubblica Popolare Cinese, e ricevendo ripetute visite dei massimi dirigenti di Pechino. Ma soprattutto, nel rispetto della Costituzione che impone la neutralità, si è conservata una posizione di principio riguardo alle pressioni tese ad integrare la repubblica nei meccanismi militari delle alleanze occidentali, a cominciare dalla NATO, pur mantenendo un atteggiamento di apertura alla collaborazione con le istituzioni occidentali, a cominciare dall’UE, di cui la stessa adesione alla “Sinistra Europea” del partito ha voluto rappresentare un passo significativo. Era scontato che il cambiamento avvenuto in Moldavia dovesse provocare reazioni in ambito occidentale, e soprattutto da parte della Romania, che ha esplicitato il suo dissenso rispetto alle scelte di riavvicinamento alla Russia. Nei mesi scorsi si è completato un vero e proprio piano di destabilizzazione, appoggiato esplicitamente dalla Romania e dalla NATO, con caratteristiche analoghe a quelle di altre “rivoluzioni colorate”. A più riprese, in questi anni, violente manifestazioni hanno sconvolto la capitale Kishinev, rivendicando la discriminazione della lingua russa, inneggiando alla “Grande Romania” e invocando l’aiuto della NATO, per “rovesciare il regime comunista”. Il piano ha avuto il suo epilogo nella contestazione di presunti brogli elettorali e nella richiesta di ripetizione della consultazione, sfociata infine nella sconfitta, per un soffio, del Partito Comunista, minacciato oggi di subire le persecuzioni riservate ai partiti fratelli di altri paesi della regione.
FEDERAZIONE RUSSA
Delle organizzazioni comuniste che si sono ricostituite sul territorio dell’ex Unione Sovietica, però, la più importante è certamente quella ricostituitasi nella Federazione Russa. Con la legalizzazione, avvenuta nel novembre 1992, si svolgeva nel gennaio 1993 il congresso straordinario che ha dato vita al Partito Comunista della Federazione Russa (PCFR).
1993. LA “DICHIARAZIONE POLITICA” DEL PCFR
La “Dichiarazione politica”, approvata alla fine del Congresso del nuovo partito, è caratterizzata da un giudizio severo, ma non liquidatorio dell’esperienza scaturita dalla Rivoluzione d’Ottobre. Le linee di fondo di questa dichiarazione verranno sostanzialmente confermate in tutti i documenti dei congressi del PCFR svolti fino ad oggi. Il partito comunista è definito “il partito che ha sollevato il popolo alla lotta per la giustizia sociale nell’ottobre del 1917, che ha guidato la creazione di una grande potenza”, il partito che “insieme al popolo” ha vinto la II guerra mondiale e ha fatto risorgere l’URSS “dalle macerie”. Allo stesso tempo, vengono denunciate le “grossolane deviazioni dai principi della costruzione del socialismo” individuate nel “dogmatismo dell’ideologia ufficiale, che si è accompagnata alla mancanza di principi dei politicanti” e nella conseguente creazione di “uno strato burocratico privilegiato sempre più rinchiuso nel proprio guscio e staccato dalla vita reale”, responsabile della “sfiducia nella forza creativa del socialismo”, dell’indifferenza, al limite “dell’abulia politica di massa negli anni della perestrojka”. La linea assunta da Gorbaciov viene definita “un tradimento”, che ha avuto come conseguenza “l’eliminazione del PCUS dall’arena politica, lo smembramento dell’URSS e l’arrivo al potere di forze politiche che hanno restaurato il capitalismo nelle sue forme più primitive”. Nella nuova difficile condizione di opposizione politica, il PCFR, pur operando “nel rispetto della Costituzione”, deve manifestare la sua “fedeltà al socialismo, alla libertà e all’uguaglianza, alla giustizia e all’umanesimo”, ispirarsi “alla teoria marxista-leninista” non dogmaticamente, ma sviluppandola “in considerazione delle lezioni della storia e dell’attualità” e basandosi “su una forte democrazia” priva di “deformazioni gerarchiche e burocratiche”, rispettosa “dei diritti dell’uomo” e “della libertà di parola e associazione di tutti i cittadini”. Nella dichiarazione, i comunisti si pronunciano per “l’esclusione dell’estremismo nazionale e religioso, di qualsiasi forma di risoluzione violenta dei contrasti tra le nazioni”, riaffermando la propria fedeltà all’internazionalismo.
ANNI ’90. SUCCESSI ELETTORALI DEL PCFR
Alcuni mesi dopo questo congresso, il PCFR affrontava la sua prima prova elettorale e, sorprendendo non pochi osservatori occidentali, riusciva, con un insperato 11% di voti, a dimostrare che la “questione comunista” non era certamente da considerarsi chiusa una volta per tutte. Uno “zoccolo duro” della società russa si dimostrava in grado di resistere all’offensiva controrivoluzionaria che in quegli anni ai più sembrava destinata a depositare definitivamente il comunismo tra le “macerie della storia”. Nel gennaio 1995 il Congresso del partito, accanto alla riaffermazione dei capisaldi ideologici contenuti nella “Dichiarazione politica” del congresso di ricostituzione, come la fedeltà al “marxismo-leninismo”, approvava una sorta di “programma minimo” – basato su principi di “economia mista”, su aperture agli esponenti della borghesia “patriottica”, su appelli all’orgoglio nazionale e alla contrapposizione dei cosiddetti “valori spirituali russi” all’invadenza culturale dell’Occidente -, che si proponeva di dare impulso ad un blocco “nazional-patriottico” in grado di travolgere un regime minato dalla crescente impopolarità. Determinante, in quell’occasione, fu certamente la posizione assunta dal leader del partito Ghennadij Zjuganov, noto per le sue posizioni ideologiche eclettiche, che cercano di conciliare le radici marxiste-leniniste del comunismo sovietico con elementi del bagaglio culturale specificamente “russo” e che individuano un filo di continuità tra le varie fasi della storia della “potenza russa”, addirittura dalle sue origini medievali, e l’esperienza sovietica uscita dalla Rivoluzione d’Ottobre. In ogni caso, c’è da riconoscere che proprio la costruzione di un ampio schieramento, che vedeva nel PCFR il fulcro della “lotta di liberazione nazionale” dalla colonizzazione occidentale, rappresentò la carta che, alla fine del 1995, permise al partito di ottenere il 22% dei voti e addirittura, in virtù dei meccanismi elettorali vigenti, di diventare la prima forza parlamentare del paese, con 157 deputati (circa il 35% del totale) acquisendo la possibilità, in ragione del meccanismo istituzionale in vigore, di far esercitare alla Duma (il parlamento) un vero e proprio potere di veto nei confronti dei decreti presidenziali, protrattosi per tutta la legislatura. Negli anni immediatamente seguenti il PCFR sembrò attenersi rigorosamente alla linea che intendeva privilegiare la “questione patriottica” rispetto alla mobilitazione attorno alle tremende questioni sociali che attanagliavano il paese, e al radicamento organizzativo tra la clas se operaia che, quotidianamen – te, veniva perdendo anche i diritti più elementari di agibilità sindacale. Quest’ultimo aspetto contribuì ad allentare in misura rilevante i legami con la base sociale che, in epoca sovietica, aveva rappresentato il serbatoio della forza organizzata dei comunisti.
AVVENTO DI PUTIN E CRISI DEL PCFR
La linea assunta dai comunisti è entrata in crisi con la presidenza di Vladimir Putin. È fuori discussione il fatto che l’avvento di Putin ha inferto un colpo al programma “nazional- patriottico” del PCFR. Sul piano ideologico, la campagna di Putin fu fin dall’inizio improntata ad una netta cesura con quelle componenti di elite della società russa che, a partire dai primi anni della “perestrojka”, avevano cercato di forzare sui processi di “occidentalizzazione” del paese, apparendo spesso agli occhi dell’opinione pubblica come una sorta di “quisling” al servizio di potenze coloniali. Putin ebbe la capacità di appropriarsi di molti degli argomenti avanzati dall’opposizione “patriottica”, conquistando credibilità tra un’opinione pubblica ormai esasperata da anni di vassallaggio coloniale. Sul piano culturale, tale processo è stato accompagnato da un’operazione di recupero dei valori “patriottici”, sostanzialmente gli stessi a cui faceva riferimento l’opposizione “nazionalpatriottica (con frequenti riferimenti anche al passato sovietico e ad alcuni aspetti della stessa esperienza staliniana), che erano stati umiliati nel decennio eltsiniano da una pratica di totale subordinazione all’Oc ci dente. Le iniziative che Putin ha assunto, in coerenza con questa linea di continuità con una tradizione impregnata di suggestioni che rimandano addirittura al dibattito che nell’ottocento aveva caratterizzato le elite intellettuali russe, hanno avuto un impatto impressionante sull’opinione pubblica del paese, con gli esiti che sono di fronte agli occhi di tutto il mondo. Ha fatto il resto la progressiva emar- ginazione dal potere di diversi esponenti del passato entourage, accompagnata dall’attuazione di una serie di misure severissime contro gli oligarchi particolarmente invisi all’opinione pubblica, che ha privato il PCFR di molti degli argomenti che avevano nutrito la sua propaganda nel periodo eltsiniano. Tutto ciò non poteva non avere conseguenze. Le elezioni del dicembre 2003 si concludevano con un grave sconfitta del PCFR, che scendeva al 12,6%. Da quel momento per i comunisti è cominciato un periodo di aspro confronto sulle ragioni della sconfitta. A mettere sotto accusa la leadership di Zjuganov fu soprattutto quella parte del Comitato Centrale, la cui personalità di spicco era rappresentata dal Segretario dell’organizzazione di Mosca, Aleksandr Kuvajev. Per questo gruppo, la causa del tracollo comunista era sostanzialmente da ricercarsi nello snaturamento delle caratteristiche di partito di classe, con il conseguente approdo ad una retorica “nazionalista” e interclassista, che rischiava di allontanare il PCFR dalle sue radici. L’assenza di saldi legami con la classe operaia avrebbe fatto si che la polemica dei comunisti russi con il potere (proprio allora impegnato nella lotta senza quartiere per il controllo delle risorse energetiche, contro alcuni potenti gruppi oligarchici), venisse percepita dalle grandi masse come sostanzialmente utile ai gruppi “liberali” che, da destra e sostenuti dall’imperialismo, attaccavano aspramente il “nuovo corso” di Putin.
UN DURO CONFRONTO POLITICO SEGNATO DA SCISSIONI
Il duro confronto venne risolto nell’estate del 2004 con l’uscita dal partito di quasi la metà dei componenti del Comitato Centrale e di molte migliaia di iscritti. L’esito della scissione è stato comunque fallimentare. La forza elettorale del PCFR ne è uscita praticamente indenne. La grave crisi organizzativa vissuta in quel momento ha portato comunque all’apertura di una fase di riflessione sul radicamento sociale dei comunisti, che ha avuto come conseguenza una rinnovata attenzione ai temi più squisitamente sociali, che hanno progressivamente ritrovato un certo spazio nell’iniziativa concreta del partito e nel rilancio della sua presenza tra la classe operaia. Da allora il partito non ha mai modificato il suo atteggiamento di dura contrapposizione verso tutte le iniziative che in materia di politica sociale ed economica, sono state di volta in volta assunte dal governo del paese. L’apparizione in Russia nel 2005 di un movimento che affermava di ispirarsi alla “rivoluzione arancio – ne” ucraina, ha aperto anch’esso un dibattito nel partito, circa l’opportunità o meno di sfruttare il coro mediatico suscitato dall’avvenimento, partecipando ad iniziative che dichiaravano di contrapporsi alla politica “antipopolare” del regime. Su iniziativa, in particolare di esponenti influenti nell’organizzazione della capitale, definiti più o meno propriamente “neotrotskisti”, il PCFR ha così aderito ad alcune delle prime azioni di questa opposizione “liberale”, sostanzialmente capeggiata da una parte della vecchia dirigenza dei tempi di Etsin. Il sempre più marcato sbilanciamento di tali iniziative su temi graditi agli interlocutori occidentali, come il sostegno aperto agli oligarchi “perseguitati”, la strumentalizzazione dell’assassinio della giornalista Politkovskaja, le simpatie manifestamente espresse nei confronti dei settori anticomunisti e antirussi più agguerriti delle vicine Ucraina e Bielorussia, la presenza in piazza del gruppo apertamente fascista dei “nazional-bolscevichi” di Eduard Limonov, l’evidente isolamento dei settori “liberali” dal grosso dell’opinione pubblica russa, hanno gradatamente indotto il PCFR a prendere apertamente le distanze. Dopo un’aspra discussione, il gruppo dei “neotrotskisti” è stato infine espulso dal partito e accusato di essere parte integrante di quell’opposizione “arancione” che, “nell’interesse della borghesia filo-occidentale”, sta attivamente operando per favorire “la completa occupazione della Russia da parte della NATO”. È nella politica estera, invece che, nelle dichiarazioni dei massimi dirigenti del PCFR è sembrata affacciarsi una qualche apertura di credito nei confronti del presidente russo almeno in materia di politica estera, con il sostegno, in sede parlamentare, nei confronti di alcune delle più significative mosse di Putin (durezza del confronto con gli USA, rafforzamento dell’alleanza strategica con la Cina, rilancio dell’iniziativa nello spazio postsovietico in contrapposizione alle pulsioni filo-atlantiche di alcuni stati, come la Georgia e l’Ucraina).
I COMUNISTI RUSSI PRINCIPALE FORZA DI OPPOSIZIONE
Al momento, il riorientamento del partito sulle tematiche di carattere sociale, unito all’accentuazione degli effetti della crisi economica mondiale che si sono fatti sentire nei settori popolari del paese, sembra aver influenzato una generale ripresa elettorale dei comunisti. Le più recenti prove elettorali testimoniano di un persistente radicamen – to del partito, che potrebbe attestarsi in questo momento sul 18%, confermando i suoi caratteri di prin cipale forza dell’opposizione. Neppure la creazione di Russia Giu – sta, un partito “socialdemocratico” alleato di Putin e Medvedev sembra rappresentare un serio elemento di concorrenza a sinistra per i comunisti, avendo questa formazione fino ad ora sottratto voti prevalentemente alle formazioni che sostengono il governo.
*Relazione presentata alla Confe renza sulle questioni internazionali, nella Festa nazionale de l’ernesto, Bologna 26-29 agosto 2010