Il 12 marzo si sono tenute le elezioni politiche in Spagna. La sinistra era all’opposizione e il governo era in mano alla destra, al Partido Popular (PP), il quale ha governato negli ultimi quattro anni della legislatura con maggioranza semplice pur contando sull’appoggio delle formazioni nazionaliste della Catalogna (CIU), delle Canarie e del Paese basco (PNV): l’appoggio di questi ultimi era comunque venuto meno da quando il PNV si era imbarcato in una alleanza di tipo nazionalistico con EH, il braccio politico dell’ETA. All’ultimo momento la sinistra aveva sottoscritto un accordo di governo tra il Partido Socialista Obrero de Espaa c(PSOE) e Izquierda Unida (IU), il raggruppamento delle sinistre unite. Nonostante le speranze generate da questo patto si è verificato ciò che appariva come la cosa più probabile, ovvero che la destra tornasse a vincere; e si è trattato di una vittoria superiore ad ogni previsione, con la conquista della maggioranza assoluta in termini che nessuno, né a sinistra né nello stesso PP, neppure immaginava. Il risultato di questa vittoria travolgente è stato che la sinistra ha perso nel complesso qualcosa come 3 milioni di voti, in quantità così distribuite:
• il PSOE perde 1.596.468 voti (con 16 deputati in meno) e Izquierda Unida perde 1.385.915, più del 50% dei suoi voti (corrispondenti a 13 deputati in meno, che passano da 21 a 8);
• il PP ha ottenuto 183 deputati (la maggioranza assoluta si ha con 176), 27 in più che nelle elezioni del 1996 e 514.339 voti più del 1996.
Tutto questo è stato avvertito dal complesso della società spagnola come un inatteso stravolgimento, ideologico oltreché politico, all’interno del corpo sociale. Scritti e discussioni hanno posto da subito, anche se sicuramente in maniera ancora inadeguata, una serie di pressanti interrogativi: la Spagna non è più di sinistra? Non si vota più su base ideologica? Si stanno cancellando, o quanto meno facendo più flessibili, le frontiere tra destra e sinistra? È stato forse il patto di governo tra PSOE e IU – con le sue possibili ripercussioni sul voto di centro – causa della pesante sconfitta della sinistra? Si è votato, in ultima analisi, ragionando su un metro economico e non politico, con le conseguenze che a questo riguardo si possono immaginare nell’ossatura democratica delle coscienze? Vero è che la sinistra è ora pervasa dalla consapevole necessità di una profonda riflessione, non solo elettorale, e all’interno del PSOE come della IU si moltiplicano gli interrogativi.
Ma partiamo, prima di tutto, da una domanda: qual era la forza del PP prima delle elezioni? Bene, tale forza si basava essenzialmente sul “buon andamento” dell’economia, buon andamento come può essere inteso nell’ambito di una società capitalista con le sue ben note – e sempre crescenti – disuguaglianze e che non è un fenomeno meramente spagnolo, bensì europeo e mondiale. Pochi anni fa una prolungata crisi economica aveva precipitato la caduta del governo di Felipe Gonzales, già minato dalla corruzione e dai crimini di Stato: gli accenni a una ripresa economica nell’ultimo semestre del governo socialista non fecero in tempo ad arrecargli alcun beneficio e a salvarlo dal deterioramento interno. Aznar ha continuato a ripetere fino alla nausea “la Spagna va bene”, frase che in verità voleva dire: l’economia va bene. L’economia capitalista, certo, ma gli effetti di una frase del genere sulla popolazione si sono fatti sentire. È vero che sono stati creati nuovi posti di lavoro, contribuendo così a ridurre la disoccupazione (che rimane però la più alta tra i Paesi dell’Unione europea), come pure sono diminuite le imposte dirette, ma è altrettanto vero che i detentori dell’economia nazionale – un’economia che si configura via via sempre più dispotica – rappresentano un gruppo sempre più ristretto, che il processo di fusioni e di privatizzazioni procede freneticamente, smantellando il settore pubblico dell’economia – soprattutto la sua parte più redditizia – e procedendo alla liquidazione della Previdenza Sociale, che la Spagna ha partecipato alla criminale aggressione contro la Jugoslavia e ha aderito docilmente, se non entusiasticamente, alla nuova dottrina della Nato. Tutte cose queste che, peraltro, avevano caratterizzato, almeno in parte, anche i precedenti governi socialisti: sulle recenti questioni della Jugoslavia e della fedeltà alla Nato, per esempio, non c’è stata sostanziale differenza di posizioni tra il PSOE e il PP (mentre su altre, come quella relativa al pericolo di privatizzazione della Previdenza Sociale, il PSOE ha operato – verso sinistra – una sostanziale correzione di rotta). Ma, in definitiva, il “buon andamento” dell’economia ha rappresentato una pacchia per il PP e gli ha permesso di vincere.
Aggiungiamo a questo un fattore secondario ma non privo di importanza, quale l’abilità politica dimostrata da Aznar e dal suo staff nel presentarsi come forza di “centro-destra”, o di “centro progressista” (espressione questa che ultimamente usa con sempre maggior frequenza, nel tentativo di scrollarsi di dosso il retaggio franchista che è all’origine del suo partito), nell’ambito di una campagna elettorale trionfalista ma, in generale, moderata nelle espressioni. Questa è l’immagine che è stata portata avanti, in linea con la realtà di una Spagna che non è più, evidentemente, quella di trenta o cinquant’anni fa, il che si ripercuote anche sulle destre e determina il loro tentativo di ancorarsi alla post-modernità della globalizzazione neoliberista, anche se, al di là di questa immagine ricercata, rimangono ciò che sono, cioè l’unione delle forze spagnole più reazionarie. Non per niente, nei giorni immediatamente successivi alle elezioni, lo Stato rappresentato da Aznar ha voluto esercitare il diritto di prelazione in occasione di una gara d’asta per l’aggiudicazione dello spartito originale dell’inno fascista spagnolo, scritto nel 1934! Così lo Stato “democratico” non si è voluto lasciar sfuggire la proprietà di “Cara al sol”, al suono del quale veniva liquidata la Repubblica spagnola, erano fucilati i difensori della democrazia ed il Paese veniva fatto precipitare in una brutale decadenza di ogni specie dalla quale solo si è cominciato a uscire decine di anni più tardi. È che, come dice a onor del vero il saggista e giornalista Ilaro Tecglen, ogni conservatore ha dentro di sé un fascista che dorme. Ma cosa è successo, e cosa sta succedendo, sull’altra sponda, sul versante della sinistra? La prima cosa che balza alla vista è che la sinistra nel suo insieme, tanto il PSOE quanto IU, è giunta alle elezioni sulla scia di una odissea di crisi ancora irrisolte, con ripercussioni innegabili a livello di consenso elettorale. Il PSOE, anche dopo le dimissioni di Felipe Gonzales da segretario generale a seguito della caduta del governo nel 1996, ha continuato a vivere sotto l’ombra lunga dell’ex leader e non ha ancora definito una nuova identità. Quando Joaquín Almunia, uomo del vecchio apparato e pupillo di Gonzales, succede a quest’ultimo alla guida del PSOE e, come prima cosa, convoca elezioni generali primarie per l’elezione diretta di un nuovo candidato alla carica di Capo del governo, assiste con sorpresa all’esplosione di un profondo desiderio di rinnovamento da tempo compresso nella base socialista e alla propria defezione, a favore di Josè Borrell, uomo del cambiamento. A partire da quel momento si registra un favore sempre crescente dei cittadini verso il PSOE, che, nei sondaggi, accorcia via via le distanze fino a trovarsi alla pari con il PP. Il PSOE aveva così la strada spianata per una eventuale rimonta elettorale, ma è a partire da quel momento che Felipe Gonzales e il vecchio gruppo dirigente hanno messo in atto un’opera tenace di logoramento e di emarginazione di Borrell. Si determina un conflitto di leadership in questi termini: chi deve essere considerato capo del partito, il segretario generale o il candidato a capo del governo? Almunia, convocando le elezioni generali per la designazione del candidato, non si era reso conto che ciò stravolgeva di fatto la natura della leadership nel partito. Se è la base che elegge il candidato, ciò che si elegge in realtà, soprattutto in un partito fondamentalmente elettoralista, è il leader. E il posto di segretario generale finisce col significare una cosa più interna, organizzativa e amministrativa; per convincersene, basta guardare i partiti democratico e repubblicano degli Stati Uniti, che è da dove spirano i venti delle primarie. Probabilmente, però, Almunia non si era neanche immaginato che avrebbe potuto perdere le primarie. Tant’è che ora il PSOE – o meglio, il gruppo che lo controlla – sembra deciso a voler togliere di mezzo l’istituto delle primarie, con il rischio che esse rappresentano. Il risultato è che Borrell è stato tenuto continuamente sotto pressione, si è vista inibita la possibilità di sfruttare l’ondata di speranze che si era sollevata nel partito e tra gli elettori e non ha avuto il coraggio di indire un congresso straordinario – tema peraltro all’ordine del giorno – fino a che, a motivo di un caso di corruzione nel quale era implicato un suo collaboratore quando lui era ministro delle Finanze, non ha dato le dimissioni. Gli è subentrato l’uomo che era già stato sconfitto alle primarie… e che ha finito con l’essere sconfitto di nuovo, stavolta da tutto il corpo elettorale! A nulla è valso il precipitoso patto di governo con Izquierda Unida, pochi giorni prima del termine per la presentazione delle candidature, per l’eventualità che la sinistra vincesse le elezioni. Con ciò il PSOE prendeva in certo qual modo le distanze da Felipe Gonzales e dal vecchio gruppo dirigente. L’accordo, benché affrettato, non mancava di precedenti vicini nel tempo. I risultati delle elezioni amministrative del 1999 – coincise con le elezioni europee – avevano determinato accordi a sinistra in molti Comuni e in due regioni autonome, Baleari e Aragona, la destra era stata scalzata dal governo (oggi in Spagna le regioni hanno propri governi e propri parlamenti, con il trasferimento di una serie importante di poteri e di attribuzioni dallo Stato agli enti locali). Pur esistendo tali precedenti, il patto di governo realizzato alla vigilia delle elezioni di marzo è risultato comunque segnato dall’improvvisazione e i suoi contenuti sono stati malamente illustrati agli elettori. Se a ciò si aggiunge una campagna elettorale tanto arruffata quanto rissosa, in un abbinamento che anziché catturare voti li allontana, abbiamo il quadro completo e comprendiamo come il voto al PSOE ha perso, in questo modo, la reputazione di “voto utile”. La sconfitta elettorale e le dimissioni irrevocabili di Joaquín Almunia da segretario generale e, ovviamente, da futuro candidato hanno fatto precipitare la crisi che già veniva covando dentro il PSOE. Le voci sulla fine del “felipismo” – ovvero lo stile politico di Felipe Gonzales e il controllo dei suoi fedelissimi sul partito – si fanno sempre più forti e si invoca la necessità di un rinnovamento profondo e dell’elezione di una direzione giovane, si parla insomma con più insistenza del bisogno di sfoderare nuove idee che però nessuno è in grado di tirar fuori. La colpa della sconfitta viene attribuita al patto con Izquierda Unida, che avrebbe fatto perdere voti dal centro della società e dello schieramento politico, anche se niente prova che il tracollo sia dovuto più all’accordo “con i comunisti” che non al reiterato e tranquillizzante messaggio della destra sul “buon andamento” dell’economia.
Sul momento, intravedo con timore una stretta, diciamo così, “rinnovatrice” nella forma e immobilista nella sostanza – o, peggio, una accentuata spinta verso le posizioni neoliberiste – non escludendo tuttavia che la permanenza per i prossimi quattro anni (come minimo) all’opposizione induca il PSOE a rivedere la propria posizione, radicalizzandola, su certe questioni. In ogni caso, per adesso, ad essere più attivi sembrano gli esponenti della vecchia guardia felipista che non la sinistra del partito e i suoi elementi rinnovatori. La questione si riduce in fondo all’opzione tra una via orientata verso una socialdemocrazia di tipo liberista (Blair, Schröeder, D’Alema) e una socialdemocrazia, diciamo più socialista, che riaffermi, adattandola al presente, la sua tradizione operaia, sociale e operaia (tipo Jospin?). Su questo verte, o dovrebbe vertere, il dibattito interno, ma la lotta per la leadership offusca i caratteri della discussione, la qual cosa non fa certo ben sperare. Per quanto riguarda Izquierda Unida la realtà è che anch’essa è approdata alle elezioni dopo un percorso di crisi e scissioni che hanno indebolito la sua immagine nella società e tra i suoi elettori. Ma una cosa è evidente: la perdita del 50% dei suoi voti non si è determinata il 12 marzo di quest’anno. Essa risale al giugno dello scorso anno, quando ci sono state contemporaneamente le elezioni per il Parlamento europeo, per le comunali e per la maggior parte delle Regioni autonome. È stato in queste elezioni che si è verificata quella grave sconfitta con l’emorragia della metà dei consensi elettorali. I successivi sondaggi mostravano una ulteriore tendenza verso il basso, fino al momento in cui la firma del patto con il PSOE ha fatto registrare la possibilità di un recupero e, sebbene alla fine questo non si è verificato, c’è chi ha sostenuto, forse non a torto, che il patto ha evitato a Izquierda Unida un affondo persino maggiore. Se nel caso del PSOE parecchi, dentro e fuori del partito, sostengono che il fallimento elettorale dovrebbe implicare il tramonto definitivo del felipismo, anche per IU succede qualcosa del genere: non sono pochi quelli che, dentro e fuori, ritengono che la fase e la politica promosse da Julio Anguita siano giunte alla retta finale. Non per nulla l’opinione corrente è che il patto con i socialisti non sarebbe stato possibile se Anguita, colpito poco tempo prima da un attacco di cuore, non fosse stato costretto per questo ai margini della direzione politica di Izquierda Unida. Francisco Frutos, da circa un anno segretario del PCE (Partido Comunista de España), la forza chiaramente maggioritaria di Izquierda Unida, si è guadagnato un considerevole prestigio in virtù dell’intelligenza, dell’energia e della prudenza con cui ha portato avanti la trattativa con il PSOE. Attualmente la gran maggioranza della direzione del PCE e di IU sembrano optare per una strategia di unità delle sinistre, per un’alleanza, fin dove possibile, con il PSOE e con il resto della sinistra in funzione anti liberista. Così come nel PSOE, la discussione rimane ancora aperta dentro tutte le componenti – dal PCE alle forze di minoranza – che compongono Izquierda Unida e sarà di estrema importanza nella preparazione del Congresso che dal quale uscirà eletto il nuovo Coordinatore generale (carica equivalente a Segretario generale, o Presidente). Due cose, in questo contesto, sembrano mostrare allo stato attuale tutta la loro debolezza: da un lato, la politica cosiddetta “delle due sponde” – in una delle quali starebbe Izquierda Unida e nell’altra si collocherebbero PP e PSOE – che ha caratterizzato IU durante la seconda parte del mandato di Julio Anguita, dall’altro l’idea del sorpasso (*): per quest’ultima, il termine italiano adoperato rimanda, con un accostamento forse non del tutto appropriato, alla situazione del PCI e al confronto con la Democrazia Cristiana intorno agli anni Ottanta e punta alla crescita elettorale di Izquierda Unida in una logica di contrapposizione classe contro classe che era quella del movimento comunista internazionale prima di Dimitrov.
In questo modo si è prodotto l’isolamento sociale di Izquierda Unida, anche all’interno del movimento operaio organizzato, la messa in mora – per il rifiuto di negoziare con il PSOE – di preziosi successi elettorali (come nel caso del Comune di Malaga, potenzialmente in mano a Izquierda Unida), la rottura con buona parte degli intellettuali progressisti e una amministrazione delle contraddizioni venutesi a creare nel seno plurale della formazione condotta all’insegna della rigidità e della goffaggine. In questo modo Izquierda Unida è rimasta pesantemente ridimensionata, riducendosi a forza extraparlamentare in Catalogna, dove da sempre il PSUC (l’organizzazione catalana del comunismo spagnolo) era invece una grande forza operaia, intellettuale, sociale ed elettorale. Aggiungiamo a questo l’idea – che una parte della società si era fatta – per la quale IU stava mettendo in atto un accordo tattico con il PP volto unicamente a indebolire il PSOE e a sottrargli influenza sociale e istituzionale (la cosiddetta “politica della pinza”). Nelle elezioni del giugno dell’anno scorso, nelle quali Izquierda Unida ha perso il 50% dei voti, i sondaggi mostravano che la maggior parte di quel milione e mezzo di voti perduti non andarono a finire nel PSOE bensì passarono all’astensione, come espressione di censura al comportamento mostrato da Izquierda Unida. Nonostante tutto questo, in quell’occasione la sensazione era che IU non fosse disposta a mettere in atto una riflessione quanto più decisa possibile sui propri errori e sulla situazione – spagnola, europea e mondiale – all’interno della quale collocare la propria azione. Si avviò una discussione più di routine che altro, priva di sbocchi positivi: tutto sembrava voler rimanere immutato. Al tempo stesso, dal giugno dell’anno scorso fino ad oggi – e malgrado la sconfitta del 12 marzo – prende sempre più forza la spinta verso un cambiamento di politica, soprattutto per ciò che riguarda le alleanze, e compare una vigorosa e salutare autocritica in merito all’evidente distanziamento dalle masse. Volendo completare il quadro, bisogna ricordare due fatti: uno, che i partiti nazionalisti, soprattutto quello basco e quello catalano, ormai non svolgeranno un ruolo così importante come prima, quando il PP aveva bisogno del loro appoggio in parlamento per rimanere al governo, pur essendo chiaro che questo non è cieco al punto da non tenersi cari questi nazionalismi così apertamente capitalisti, soprattutto quello catalano, poiché è vero che non ne ha bisogno dal punto di vista parlamentare ma sì per la sua egemonia politica e sociale. Gli accordi raggiunti con i catalani e con i parlamentari delle Canarie per l’insediamento a Capo del governo sembrano andare in questa direzione. L’altro fatto è rappresentato dalla crescita elettorale di certe piccole formazioni regionaliste (o nazionaliste) verso le quali si sono spostati i voti di IU (e forse del PSOE) in Galizia, Aragona e Andalusia. Ma torniamo alla sconfitta della sinistra o, per meglio dire, delle sinistre spagnole. In questa sconfitta e nelle peripezie di entrambi i partiti che la precedono si riflettono aspetti generali che travalicano la realtà spagnola. Ci si vede il disorientamento generale di cui oggi soffre la sinistra, e credo che a questo punto sia molto difficile negare che c’è una crisi molto grave della sinistra, al di là di questo o quel partito, e che si tratta di una crisi e di un disorientamento mondiali. Essi si manifestano nettamente, per lo meno in Europa, attraverso due fenomeni: in primo luogo, c’è l’attuale impasse del comunismo, fenomeno questo particolarmente evidente all’interno dell’Unione Europea. Ai partiti comunisti risulta duro superare l’eredità ideologica e psicologica di una fase storica ormai chiusa e trascorsa. Ciò che affermo non ha niente a che vedere, evidentemente, con l’abbandono del comunismo, con il diventare socialdemocratici o camuffarsi con gli arnesi del post-modernismo della sinistra radicale. Sia ben chiaro che mi riferisco all’essere comunisti in questa nuova fase storica, a seguito del tracollo dell’Unione Sovietica e del modello dei socialismi di Stato e del partito unico. Mi riferisco a cosa vuol dire essere comunisti agli inizi del XXI secolo, segnato dal dominio del complesso delle multinazionali e dal potere politico, tecnologico, scientifico, finanziario, economico e ideologico degli Stati Uniti, che va a braccetto con quello degli altri Paesi industrialmente più avanzati. Perché la crisi dei comunisti – e del marxismo – non sarà superata fintantoché non si pongono con la massima energia quattro interrogativi cruciali per il futuro e non si cominci a intravederne le risposte necessarie.
Le questioni da affrontare sono: primo, cosa intendiamo oggi per socialismo, per una società, alternativa a quella attuale, che poggi la sua base economica e sociale sulla realtà dello sviluppo storico presente; secondo, che percorso o quali percorsi riteniamo ci possano condurre a smantellare le attuali strutture sociali e a edificare quelle che chiameremmo socialiste; terzo, qual è l’insieme di segmenti sociali, classi, popoli che pensiamo possano essere oggettivamente interessati a questo tipo di società; quarto, quale tipo di formazione politica è il più adatto – per chiarezza di idee, per capacità organizzativa e ideologica e per il legame che esprime con la parte più attiva di questi settori – per dare impulso a questo complesso di fasce e settori sociali. Se i partiti comunisti e rivoluzionari non avanzano teoricamente su queste cruciali questioni potrebbero incorrere nel pericolo della stagnazione storica o della divisione continua. Per altro verso, siamo di fronte alla crisi della socialdemocrazia dello Stato del benessere, incerta se abbandonare il peggio della tradizione della guerra fredda, dell’anticomunismo e dell’atlantismo, memore di una fase storica prigioniera del bipolarismo nelle relazioni internazionali e della sua estensione anticomunista all’interno delle cosiddette società occidentali – siano esse il Giappone o lo Zaire, l’Europa o il Cile, l’Indonesia, le Filippine o la Spagna, l’Argentina o il Sudafrica – o difendere – il meglio della sua tradizione laica e operaia, egualitaria e progressista. Una socialdemocrazia in cui una parte non piccola dei suoi dirigenti sembrano voler capitolare di fronte al neoliberismo e cedere alle lusinghe della “terza via” clintoniana, il che equivale allo smantellamento dello stato del benessere, alle privatizzazioni, al libero mercato e all’adesione alla nuova dottrina della Nato. Non è da escludere che la sconfitta della sinistra in Spagna abbia, come conseguenza non secondaria, delle ripercussioni in ambito europeo: probabilmente ci toccherà assistere – o forse è già in atto – a una ben orchestrata macchinazione, dall’interno e dall’esterno del partito socialista, da dentro e fuori della Francia, per mettere alle corde prima e costringere alle dimissioni poi il governo delle sinistre di Jospin. In questa fase di transizione storica saprà la sinistra spagnola uscire dal tunnel e generare delle condizioni favorevoli a una politica democratica e progressista, che guardi al futuro? Sapranno i comunisti e i suoi attuali alleati di Izquierda Unida (o altri al di fuori di essa) porsi seriamente e responsabilmente quei quattro interrogativi cruciali enumerati, per approdare al secolo XXI pronti ad affrontare le nuove sfide? Sapranno legarsi, in un lavoro paziente, ai settori della società a loro più affini, ai lavoratori, agli intellettuali, agli insegnanti, ai medici, ai giovani? E in che direzione si orienterà il PSOE per superare l’attuale crisi elettorale e di sistema? Verso l’aggiornamento della sua tradizione operaia e anticapitalista in un mondo globalizzato o verso una più forte accettazione dei postulati del neoliberismo? Gli uni e gli altri sapranno, o saranno disposti, a unirsi alle grandi battaglie democratiche e di trasformazione contro la globalizzazione neoliberista e la sua tendenza a un dispotismo su scala mondiale, pronti a partecipare con determinazione alle grandi lotte di massa delle quali, presto o tardi, saremo testimoni? Poiché, una volta superata l’amarezza per una sconfitta pesante e per le sue ripercussioni sul sistema, il problema risiede nella posizione che le varie forze – rivoluzionarie o riformatrici – che intendono essere protagoniste attive del futuro sapranno darsi nei confronti delle classi sociali che intendono rappresentare e nei confronti di tutta la società. La storia dirà se i soggetti che hanno finora incarnato la tradizione della sinistra sapranno anche essere, ciascuno con la propria identità, le forze del futuro.
• in italiano nel testo
(traduzione a cura di Luciano Marasca)