Le condizioni per un mondo multipolare

1. Non sarà possibile trovare un’efficace risposta alle sfide che stanno di fronte alle società se non si comprende che la storia non è retta da un ineluttabile dispiegamento delle leggi dell’economia. Essa è invece piuttosto il prodotto delle reazioni sociali alle tendenze che quelle leggi esprimono. Le forze «anti-sistemiche» – se vogliamo chiamare in questo modo il rifiuto organizzato e coerente all’unilaterale sottomissione alle esigenze di quelle pretese leggi – fanno in verità la storia tanto quanto la logica dell’accumulazione capitalistica.
Gli interessi e gli orizzonti delle forze sociali e politiche in azione sono evidentemente diversi, e l’immagine centrale nella geometria dei loro conflitti e delle loro convergenze determina a sua volta il contenuto e pertanto il ruolo dello Stato in cui agiscono. Quest’ultimo può essere, come effettivamente è nel momento attuale, il rappresentante pressoché unilaterale degli interessi del capitale transnazionalizzato dominante (nei paesi della triade imperialistica) oppure delle forze «compradore» sue alleate subalterne (nei paesi della periferia).

In tale congiuntura la maggioranza degli Stati vede effettivamente il proprio ruolo ridotto alla sola funzione di mantenimento dell’ordine interno, mentre la superpotenza (gli Stati Uniti) esercita da sola le responsabilità di una sorta di «quasi Stato mondiale». Gli Stati Uniti dispongono in tal modo da soli di un ampio margine di autonomia, e gli altri di nessuno. Ma evidentemente lo sviluppo delle lotte sociali può portare al potere blocchi egemonici differenti, fondati su compromessi fra gli interessi sociali di cui si riconoscono la diversità. In tal caso allora lo Stato ritrova un proprio largo margine di manovra.

Va pure aggiunto che esistono «interessi nazionali» il cui riconoscimento legittima la costruzione di un ordine mondiale policentrico. Senza dubbio tali «interessi nazionali » vengono frequentemente invocati dai poteri al fine di giustificare le proprie particolari opzioni. Senza dubbio anche gli analisti di «geopolitica» hanno qualche volta la tendenza a irrigidire questi interessi come «fattori invariabili» ereditati dalla geografia e dalla storia. Questi interessi tuttavia esistono, e hanno la loro parte nel determinare la geometria delle alleanze e dei conflitti internazionali, allargando e limitando al tempo stesso i margini di manovra degli Stati.

2. I vecchi sistemi mondiali sono quasi sempre stati multipolari, anche se tale multipolarità non è mai stata, sino ad ora, veramente generale. L’egemonia è sempre stata perciò più un obiettivo coltivato dalle potenze che una realtà di fatto, e quando è esistita essa è sempre stata solo relativa e provvisoria. I protagonisti del mondo multipolare del XIX secolo (prolungatosi sino al 1945) non sono stati altro che le «potenze» dell’epoca.
Il mondo multipolare inaugurato dalla rivoluzione russa, e poi in parte imposto dai movimenti di liberazione dell’Asia e dell’Africa, era di altra natura. Il periodo di Bandoung (1955-1975) ha su questo piano permesso ai paesi asiatici e africani di impegnarsi nelle nuove vie di modelli di sviluppo autocentrati e di sganciamento, costringendo il sistema imperialista dominante ad adeguarsi a quelle nuove esigenze dei popoli del Sud.

3. La pagina del dopoguerra (1945- 1990) è stata voltata. Nel momento attuale si dispiega il progetto imperialista collettivo della triade (Stati Uniti, Unione europea, Giappone) e, al suo interno, quello dell’egemonismo degli Stati Uniti, abolendo l’autonomia dei paesi del Sud e riducendo fortemente quella dei paesi associati a Washington nella triade imperialista.
L’imperialismo collettivo della triade è il prodotto di un’evoluzione reale del sistema produttivo dei centri capitalistici, che ha generato la solidarietà degli oligopoli nazionali dei centri del sistema e che s’esprime nel loro tentativo di «gestire insieme» il mondo, a proprio profitto. Ma se «l’economia» (intesa come unilaterale espressione delle esigenze dei segmenti dominanti del capitale) avvicina i paesi della triade, la politica divide invece le loro nazioni. Certo, nel suo dispiegarsi sino a questo momento il «progetto europeo» non è stato altro che il risvolto europeo del progetto atlantico, appoggiato dagli Usa in quanto leader dell’imperialismo collettivo. Ma il recente rigetto del progetto di «Costituzione» che collocava l’Unione europea all’interno della doppia opzione neo-liberale e atlantica, riafferma la portata di un conflitto fra culture politiche che può essere in grado di fare argine sia all’atlantismo che al capitalismo liberista.

La Russia, la Cina e l’ India sono i tre avversari strategici del progetto di Washington. Benché in questi tre grandi paesi le classi dirigenti ne abbiano sempre più coscienza, esse sembrano tuttavia credere di poter «manovrare» senza urtare direttamente l’amministrazione degli Stati Uniti, e anche «mettere a profitto l’amicizia degli Stati Uniti» in quei conflitti che li oppongono gli uni agli altri. Un riavvicinamento «eurasiatico » (Europa, Russia, Cina e India), che allora coinvolgerebbe certamente l’insieme dei restanti paesi dell’Asia e dell’Africa e metterebbe sotto scacco il progetto di Washington di controllo militare del pianeta, è certamente augurabile. Ma siamo ancora lontani, in questa prospettiva, dal poter vedere l’affermazione di dinamiche capaci di porre termine alla scelta atlantica dell’Europa.

I paesi del Sud possono svolgere un ruolo attivo nella necessaria sconfitta dei progetti militari degli Stati Uniti? I popoli aggrediti sono, nel momento attuale, gli avversari più attivi capaci di contrastare le ambizioni di Washington, ma stenta ad affermarsi, per diverse ragioni, una solidarietà dei popoli del Nord verso la loro sacrosanta lotta.
Le classi dirigenti del Sud non hanno più propri progetti, come accadeva invece all’epoca di Bandoung (1955-1975). Senza dubbio le classi dirigenti dei paesi cosiddetti «emergenti» perseguono degli obiettivi che esse sembrano definire ognuno per sé, e per la realizzazione dei quali i loro Stati si adoperano. Tali obiettivi si potrebbero riassumere nella massimizzazione della crescita all’interno del sistema della mondializzazione. Questi paesi credono di disporre di un potere di contrattazione che permetta loro di trarre un miglior profitto da questa strategia «in proprio », piuttosto che dal ricorso ad un «fronte comune» costruito con i paesi più deboli del loro. Ma i vantaggi che essi possono ottenere dalla situazione contingente sono particolari e settoriali e non rimettono in causa l’architettura generale del sistema. Essi non rappresentano dunque un’alternativa, e non conferiscono a questo progetto illusorio di costruzione di un «capitalismo nazionale» la consistenza che caratterizza un autentico progetto alternativo di società. I paesi del Sud più vulnerabili (il «Quarto mondo») non hanno nemmeno propri progetti di natura analoga e gli eventuali progetti sostitutivi (i fondamentalismi religiosi o etnici) non meritano questa qualifica. Così è il Nord a prendere autonomamente l’iniziativa di avanzare «per essi» (ma si dovrebbe dire «contro di essi») i propri progetti, come nel caso degli «accordi di associazione e/o di collaborazione economica» dell’Unione europea con i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, del «dialogo euro-mediterraneo » o dei progetti USA-Israele riguardanti il «grande Medio Oriente», che sanciscono forme di dominio “neo-coloniale”.

4. Nel momento attuale il solo progetto statunitense di controllo del pianeta occupa la scena. Non vi sono progetti alternativi miranti a limitare il suo dispiegamento: l’Unione europea rimane impantanata nelle sabbie mobili del mondialismo liberista e atlantico, il Sud non si presenta più come un fronte comune di resistenza all’imperialismo, la Cina si limita a guadagnare tempo per proteggere il proprio progetto.
Le sfide alle quali la costruzione di un autentico mondo multipolare deve far fronte sono dunque più serie di quanto s’immaginino numerosi movimenti «altermondisti». E sono molteplici. Nell’immediato si tratta di far fallire il progetto militare di Washington. È la condizione decisiva affinché rimangano aperti i necessari margini di libertà, senza i quali qualsiasi progetto sociale e democratico e qualsiasi progresso nella direzione della costruzione multipolare rimarranno estremamente vulnerabili. Poiché il progetto degli Stati Uniti è smisurato, esso è senza dubbio destinato a fallire, ma sicuramente a un prezzo umano terribile.
L’autentico mondo multipolare non diventerà una realtà finché non saranno soddisfatte le quattro seguenti condizioni:
1. che l’Europa abbia davvero fatto dei passi avanti sulla via di un’«altra Europa» sociale (e dunque impegnata nella lunga transizione al socialismo mondiale), e che essa abbia dato l’avvio al proprio sganciamento rispetto al proprio passato e presente imperialista;
2. che in Cina la via del «socialismo di mercato» si affermi e prevalga sulle tendenze che puntano alla costruzione di un «capitalismo nazionale », impossibile da stabilizzare poiché esso escluderebbe le maggioranze operaie e contadine;
3. che i paesi del Sud (popoli e Stati) siano giunti alla ricostruzione di un «fronte comune», condizione a sua volta affinché dei margini di manovra permettano alle classi popolari non solo d’imporre delle «concessioni » a proprio favore, ma anche di trasformare la natura dei poteri in atto, sostituendo ai blocchi dominanti di borghesia compradora dei blocchi nazionali, popolari e democratici;
4. che sul piano della riorganizzazione del diritto nazionale e internazionale si sia proceduto nella direzione di regole capaci di conciliare il rispetto delle sovranità nazionali (progredendo dalla sovranità degli Stati a quella dei popoli) con quello di tutti i diritti individuali e collettivi, politici e sociali.