L’attuale fase dell’imperialismo

1. Mondializzazione neoliberista e nuovi assetti economici produttivi

Oggi è la cosiddetta globalizzazione neoliberista che si manifesta in uno specifico ambito di rappresentazione del modo di produzione capitalistico: attraverso la divisione internazionale del lavoro, ossia la distribuzione della fase della catena della produzione in diversi paesi, le filiere produttive internazionali quindi, i flussi di scambio, la finanziarizzazione dell’economia e la cosiddetta interdipendenza tra i diversi paesi, che altro non è che un nuovo modello e processo anche di concorrenza tra loro. Ma la cosiddetta globalizzazione neoliberista è un tentativo del capitale di risolvere la crisi di accumulazione che si presenta con tutta la sua forza già dagli anni ‘70, determinando così la struttura e le dinamiche anche dell’attuale modo di presentarsi dell’imperialismo. I paesi imperialisti si trovano a dover rispondere ancor più ai processi del capitale finanziario internazionale, che più di ieri è mezzo per manifestare il carattere mondiale del capitalismo con la sua ricerca del sovraprofitto.
Ecco perché l’analisi di Marx del modo di produzione capitalistico, con la spiegazione scientifica dello sfruttamento e delle crisi, e l’impianto teorico di Lenin sugli elementi caratterizzanti dell’imperialismo, sono pienamente validi e coerenti per spiegare l’attuale fase dello sviluppo capitalistico e dei conflitti interimperialistici.
Le nuove tecnologie di comunicazione fanno perdere alle singole organizzazioni della produzione una parte della loro specificità e le relazioni ormai intervengono non più tra singoli Stati ma tra aree geoeconomiche. Ciò va sempre più determinando una forte caratterizzazione del nomadismo localizzativo internazionale delle imprese, che anche attraverso le filiere produttive internazionali sviluppa forme di occupazione a basso salario e basse normative e garanzie, a precarietà e sempre maggiore differenza di salario e reddito tra i lavoratori stessi (intellettuali e specializzati, manuali e ripetitivi) oltre che disoccupazione strutturale.
La rivoluzione informatica e la diffusione di nuove forme di organizzazione del lavoro non derivano da una situazione di salute del capitalismo, ma da una sua crisi: è un modo per rilanciare il saggio di profitto con un incremento di produttività del lavoro e la creazione di nuovi mercati.
Mentre fino agli anni ‘70 Keynes e la pianificazione economica hanno influenzato l’economia, dagli anni ‘80 e ‘90 il monetarismo ha dominato e con esso “il mercato senza vincoli”. L’accumulazione flessibile (così chiamata da David Harvey) si confronta direttamente con le rigidità del fordismo; si tratta della flessibilità dei processi produttivi, dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei modelli di consumo; determina dei cambiamenti nel processo disuguale di sviluppo, fra settori e fra regioni geografiche, con un aumento vertiginoso nel settore dei servizi e la nascita di industrie in regioni sottosviluppate.
L’aumento di competitività, dell’automazione, la crescita del capitale costante e la diminuzione di quello variabile fanno sì che la contraddizione che alimenta la caduta del saggio del profitto tenda a riproporsi su scala allargata e le spinte alla mondializzazione si fanno più potenti. Ne segue che sempre più grande risulta essere la massa di capitale che non trova sufficiente remunerazione nei normali processi produttivi e si sposta verso la speculazione finanziaria. Non sembrano, quindi, assolutamente superate le condizioni che definiscono secondo Lenin l’imperialismo. Si è quindi in presenza delle condizioni tipiche dell’imperialismo anche nel cosiddetto nuovo regime di accumulazione con al centro il paradigma della flessibilità.
Il postfordismo vive in quelle aree e settori più avanzati incentrati in fasi di produzione ad alto valore aggiunto, forte presenza di diverse tipologie di servizi in ambienti economico-produttivi fortemente terziarizzati, uso massiccio del capitale intangibile con messa diretta a produzione delle risorse legate ai processi comunicativi. Si ha così una particolare realizzazione di dinamiche di accumulazione caratterizzate anche fortemente dal capitale immateriale e da quella che Lenin definisce “fusione del capitale bancario con il capitale industriale, e il formarsi, sulla base di questo «capitale finanziario», di una oligarchia finanziaria”.
Ed infatti le ripetute crisi finanziarie che hanno caratterizzato questi ultimi 20 anni (crisi asiatica, crisi dei paesi sudamericani, ecc.) hanno rivelato quanto sia vulnerabile il mercato dei capitali, che è ancora più accentuato dalla unificazione internazionale. Nel decennio tra il 1980 e il 1990 si è verificato un aumento intenso delle transazioni internazionali; la stasi economica dovuta alla sovrapproduzione, ed anche al sottoconsumo, hanno provocato un minore sfruttamento delle capacità produttive e una diminuzione degli utili delle imprese, che hanno iniziato a far affluire i propri capitali all’estero, in particolare verso la speculazione finanziaria internazionale. È questo che Lenin appunto definiva “La grande importanza acquisita dall’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci”.
Nel mercato produttivo, ad esempio, le imprese sono passate da una struttura produttiva orizzontale ad una struttura di tipo verticale, con la conseguente segmentazione e concentrazione della produzione e del capitale.
Il luogo in cui si effettua la produzione è determinato dal costo del lavoro, dalla specializzazione dei lavoratori, dalle infrastrutture.Non è più la postazione geografica legata allo sfruttamento delle risorse materiali ad influenzare la nascita e lo sviluppo degli insediamenti produttivi, ma i fattori economici, sociali, politici legati alle dinamiche del costo del lavoro e ai processi di creazione dei monopoli. Questo è ciò che Lenin descriveva come: “Concentrazione della produzione e del capitale, che raggiunge un tale livello di sviluppo da creare i monopoli con ruolo decisivo nella vita economica”.
Nel mercato finanziario, invece, molto più impressionante è stata la globalizzazione realizzata in questi anni ed è sicuramente in questo senso che si è meglio evidenziata e realizzata una delle condizioni esplicitate da Lenin nella definizione dell’imperialismo. La differenza tra l’aumento delle esportazioni di merci, la crescita e la sua movimentazione dei capitali è stata sorprendente: basti pensare che dal 1964 al 1992 la produzione nei paesi a “capitalismo avanzato” è cresciuta del 9%, le esportazioni del 12%, mentre i prestiti internazionali sono cresciuti del 23%. Ogni giorno oltre 1.500 miliardi di dollari sono spostati da un punto all’altro del pianeta attraverso le speculazioni finanziarie.
Le grandi imprese industriali che fino a pochi anni fa erano collocate tra le prime dieci imprese del mondo, oggi sono state sostituite dalle imprese finanziarie (come ad esempio i grandi Fondi pensione degli USA e del Giappone). E i capitali si spostano prevalentemente tra Europa, USA e Giappone mentre solo il 15% dei trasferimenti si attua nei mercati emergenti. Sono oggi le valute l’oggetto delle speculazioni finanziarie e non più, come accadeva negli anni ‘80, le oscillazioni dei prezzi delle merci; solo nel 1999 il valore complessivo di tutte le attività finanziarie dei principali paesi capitalisti è stato stimato pari al 360% del Prodotto Interno Lordo della stessa area. Il controllo delle valute e del capitale finanziario permette di determinare le quotazioni dei cambi e quindi di accumulare profitti sempre più alti; questo però provoca solo un “fittizio” movimento del plusvalore tra capitali e non reale, ossia determinato dalle merci.

2. L’imperialismo è ancora centrale nell’attuale configurazione della competizione globale

In questo contesto gli strumenti della politica keynesiana e postkeynesiana diventano inefficaci, dal momento che viene a mancare quello spazio economico chiuso che ha la possibilità di controllare i movimenti di merci e di moneta alle frontiere. Si attua, così, un trasferimento di una parte della sovranità nazionale ad organismi mondiali quali NAFTA, MERCOSUR, l’ASEAN, ALCA, il WTO e il Fondo Monetario Internazionale. Ed è anche per questo che nasce l’Unione Europea e spinge per un suo rapido rafforzamento non solo in qualità di area economico-commerciale ma di vera e propria area valutaria.
La logica di un mercato mondializzato che oltre a non avere alcun riguardo verso i diritti umani, l’ambiente e la qualità della vita, flessibilizza e precarizza il vivere sociale, allarga le masse di estrema povertà e di nuovi miserabili, ma al contempo accentua, e non diminuisce, la competizione globale fra poli geopolitici e geoeconomici, tra aree valutarie, riacutizzando i termini del conflitto interimperialistico.
Le potenze imperialiste come Francia, Inghilterra e USA hanno sostituito il dominio politico con il dominio economico basato sulla base di nuovi rapporti commerciali e finanziari di dipendenza. Il capitalismo ha necessità di questo neocolonialismo; le potenze occidentali hanno infatti accettato la decolonizzazione politica del Terzo Mondo negli anni ‘50-’70 solo perché erano sicuri di poter mantenere la propria egemonia economica sui mercati internazionali. La globalizzazione neoliberista, ossia l’internazionalizzazione dell’economia, condiziona il mercato finanziario, produttivo e monetario, assumendo, quindi, ormai le caratteristiche di competizione globale. La crisi di sovrapproduzione di capitali e merci, la finanziarizzazione dell’economia, l’abbattimento di tutto ciò che si oppone alla massima circolazione dei capitali prima e poi agli investimenti e, quindi, complessivamente allo sfruttamento dei mercati attraverso il rafforzamento di monopoli e la concentrazione del capitale, costituiscono il ritratto della attuale fase dell’imperialismo. Pertanto la competizione globale rappresenta il nuovo sistema di sfruttamento tecnologico, scientifico, economico e sociale su scala mondiale, che evidenzia il modo attuale di presentarsi della divisione internazionale del lavoro e delle diseguaglianze tra le classi, in un ambito di conflitti interimperialistici economico-finanziari-commerciali e guerreggiati.
Il processo di mondializzazione neoliberista trasferisce i poteri dello Stato nazionale verso le istituzioni sovranazionali, verso le comunità locali e verso l’autoregolazione del mercato trasnazionale, ma ciò non comporta lo smantellamento degli Stati nazionali stessi, con i loro poteri e le loro contraddizioni interne e soprattutto esterne verso gli organismi sovranazionali e le entità polari di natura geoeconomica e geopolitica.
Ma essendo alla ricerca di “stabilità” politico-economica e di sempre nuove aree di intervento, il capitale internazionale nelle sue diverse configurazioni ha comunque bisogno di rigenerare investimenti produttivi che siano funzionali ed abbiano il loro sbocco e la loro forza nell’imperialismo a connotati fortemente militari attivi.
Infatti per mantenere un ruolo egemone gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra hanno imposto la loro egemonia perseguendo tre obiettivi politico-militari principali: il primo è stato di controllare la potenza dell’Unione Sovietica; il secondo è stato quello di ostacolare le trasformazioni politiche e sociali nei paesi più poveri e in quelli a medio livello di sviluppo, come l’America Latina; e il terzo di mantenere uno stretto controllo sui paesi occidentali alleati.
Il primo obiettivo è stato raggiunto con la caduta del Muro di Berlino. È sorto però a questo punto un altro problema; i paesi dell’ex blocco sovietico infatti hanno iniziato a sviluppare i loro rapporti commerciali soprattutto con l’Unione Europea, andando a determinare una vera area valutaria imperniata sull’euro.
Per quanto riguarda il secondo obiettivo, ossia l’ostacolare lo sviluppo dei paesi del Terzo Mondo, si può dire che lo scopo in prima istanza sia stato raggiunto: questi paesi, infatti, sono controllati attraverso i loro enormi debiti dagli organismi internazionali, come il FMI e la Banca Mondiale, nei quali dominano gli Stati Uniti. I paesi del Terzo Mondo non sono in alcun modo integrati nel nuovo sistema produttivo globalizzato, salvo alcune eccezioni. E anche il mito dei “nuovi mercati emergenti” deve essere sfatato, perché i fatti lo contraddicono. Uno studio effettuato dal Financial Times dimostra che tra le prime 500 grandi imprese del mondo solo 26, ossia il 5% del totale, sono da imputarsi ai paesi emergenti, cioè America Latina, Asia, Africa e Medio Oriente. Da allora molte di queste imprese, affossate dalle crisi economiche, sono state poi rilevate da paesi europei o dagli USA, divenendo consociate dei grandi gruppi economici europei e statunitensi. Ma se è chiaro quale sia stato il ruolo dell’imperialismo statunitense in queste aree, è anche vero che alcune contraddizioni, in particolare in America Latina, stanno venendo a maturazione. Alcuni paesi, oltre Cuba, stanno caratterizzandosi attraverso governi e movimenti d’opposizione fortemente antimperialisti (ad esempio Venezuela, Colombia, Brasile) e in tutta l’America Latina cresce il dissenso organizzato contro la politica e i dettami dell’economia statunitense, si veda ad esempio l’ampio schieramento contro l’ALCA. Il Sud America non è più il “tranquillo cortile di casa USA” e difficilmente in quell’area l’imperialismo statunitense potrà risolvere pacificamente le proprie contraddizioni, non fosse altro perché anche in tale area l’interesse imperialista europeo si fa sempre più insistente.
Il terzo obiettivo, ossia quello di mantenere sotto controllo i paesi occidentali alleati, si è andato a scontrare con la costituzione del nuovo polo europeo, che attraverso l’Unione Europea e la costituzione della moneta unica si oppone all’imperialismo USA. Così sorgono veri e propri conflitti di interesse economico tra i due poli, in quanto l’ipotesi imperialista europea ha bisogno dei suoi spazi di sopravvivenza, a partire dalle mire espansionistiche dell’asse franco-tedesco. La costruzione di un’Europa economica ha posto seri problemi agli USA, che si sono trovati a dover affrontare un nuovo e ben costituito polo a forti connotati imperialistici, anche se la mancanza di una piena costruzione politica e di una specifica e articolata forza militare centrale lo ha in qualche modo indebolito .

3. La competizione USA-UE

La contraddizione determinata dal perseguimento dei tre precedenti obiettivi fa sì che gli USA temano oggi sempre più lo sviluppo economico dell’Europa, perché sentono che potrebbe intaccare la supremazia militare, economica, valutaria e ideologica americana in tutto l’Occidente. Oggi, infatti, l’Europa non è più un’area dipendente; la nuova situazione economica dell’Est europeo da un lato e la crisi asiatica dall’altro hanno rafforzato il polo economico europeo. Già a partire dalla stessa costruzione dell’Europa di Maastricht si è dato il via alla determinazione concreta di un tentativo per creare una nuova egemonia europea in settori strategici come le nuove tecnologie, le telecomunicazioni, banche, assicurazioni.
E la nuova posizione europea nell’iniziativa bellica (basta analizzare la posizione di Francia e Germania nella guerra all’Iraq) è da considerarsi come un tentativo da parte del polo europeo di riequilibrare con la propria ascesa economica lo strapotere militare statunitense e di limitarne il predominio in tutte le diverse configurazioni espansionistiche e di egemonia unilaterale. In questo quadro va inserito poi l’imperialismo britannico, che si pone al centro dei due poli sfruttando le loro contraddizioni per rafforzare la propria posizione. Ma il polo imperialista europeo ha ancora forti limitazioni, dovute soprattutto al fatto che fino ad ora si è avuta una centralizzazione economica ma è andata avanti più lentamente quella politica e soprattutto quella sul terreno militare.
A prescindere dai conflitti di interessi, l’Europa dell’euro è, comunque, una scelta nell’ambito della logica spartitoria imperialista diretta dai principi di superamento della globalizzazione e della connessa fase imperiale unipolare, cioè di quella fase di “superimperialismo” USA che ha caratterizzato metà degli anni ‘80 e i primi anni ‘90. Comunque, fin dal suo nascere l’ipotesi dell’Europa unita comincia a rapportarsi nei confronti del polo USA per poter servire progetti differenti, se non opposti. Infatti c’è da domandarsi se la guerra all’Iraq è stata dichiarata per combattere il “terrorismo internazionale”, per trovare le armi chimiche, per mantenere il controllo sul petrolio, oppure se occorre cercare i veri motivi in un altro ambito? È possibile pensare che dietro l’invasione dell’Iraq ci sia in realtà il timore degli USA che il loro predominio sul mondo possa esser offuscato dall’UE e dalla sua moneta, l’euro?
Le dinamiche geoeconomiche e geopolitiche dell’attuale modo di presentarsi della competizione globale indicano con chiarezza che ci si trova davanti ad un quadro diverso da quelli finora prospettati; ossia il timore che i paesi produttori di petrolio utilizzino per i loro scambi l’euro al posto del dollaro. Se si guarda indietro negli anni, si deve ricordare che già le crisi petrolifere del 1973 e del 1979 sono state utilizzate dagli USA per fiaccare l’allora “Serpente Monetario Europeo”; ed ora la guerra all’Afghanistan, all’Iraq.
Le tensioni tra Europa e Stati Uniti sul rapporto di cambio tra dollaro ed euro, e nella fase attuale sulla strategia da seguire nella guerra all’Iraq e nel cosiddetto dopoguerra, mostrano come sia sempre più pressante la competizione tra i due poli. Se con la guerra all’Iraq si manifesta in tutta la sua complessità il conflitto interimperialistico USA-UE, questo era esploso già con l’avvento dell’euro, togliendo il monopolio al dollaro nelle relazioni internazionali, con forte capacità attrattiva dei capitali internazionali e con l’inglobamento dei mercati dell’Est europeo e tendenzialmente con la forte ambizione espansionistica nell’Eurasia allargata.
L’ipotesi euro continua, comunque, a prendere consistenza e a profilarsi come strumento di guerra commerciale; pertanto gli USA cercano di fare il possibile per soffocarla, per impedirne l’affermazione come superpotenza concorrente. Gli USA, dunque, temono una moneta destinata a favorire le esportazioni europee e, nel tempo, a minacciare il rango del biglietto verde come valuta di riserva mondiale.
Il grande mercato europeo può offrire prospettive di sviluppo neoliberiste in alternativa ad un polo imperialista anglo-statunitense, che nelle aree dell’Europa Centro-Orientale, dell’Africa mediterranea e di molti paesi dell’Asia Centrale ha sempre meno voce in capitolo.
Anche in America Latina la situazione volge al cambiamento: in Venezuela (quarto produttore mondiale di petrolio) è stata manifestata la possibilità di passare all’euro come controvalore delle forniture di petrolio; ci sono almeno dieci paesi latino-americani oltre a Cuba che hanno cominciato a concludere accordi di baratto, e indeboliscono così ancora di più la moneta americana.
A questo quadro va aggiunto il ruolo di alcuni paesi europei (Francia e Germania), che per la prima volta hanno posto un fermo rifiuto e una netta opposizione alla politica USA; c’è poi la Russia, che ha dichiarato di voler sostituire l’euro con gran parte dei dollari delle proprie riserve monetarie; ed infine la Cina che tende sempre più ad operare in sintonia con l’Unione Europea.
Uno dei pilastri dell’economia americana consisteva nel controllare le esportazioni di due grandi potenze: Germania e Giappone. Con questa defezione della Germania è sorto un serio problema per gli USA. Ed allora cosa resta da fare agli USA: la guerra infinita!
Tra i due maggiori poli imperialisti si è scatenata la “guerra” per controllare i Balcani, l’Europa dell’Est, l’Eurasia, compresi il Medio Oriente e l’Asia Centrale, territori fondamentali per i nuovi equilibri internazionali e per contrastare una crisi economica di accumulazione e sovrapproduzione sempre più a carattere strutturale.
Ecco realizzarsi la condizione fondamentale posta da Lenin, di cui si diceva in precedenza: l’imperialismo oggi si esplicita compiutamente attraverso il dominio del mondo da parte dei diversi poli, delle diverse aree valutarie, configgenti tra loro.
Si può immaginare uno scenario del XXI secolo in cui da un lato vi sono gli Stati Uniti e il Giappone (che è costretto a seguire gli USA a causa della propria debolezza economica che perdura ormai da anni) e dall’altro l’Europa con al seguito i paesi dell’Est, compresa la Russia e gran parte dell’Eurasia.
È questa l’Europa che va inserita nel quadro del nuovo imperialismo, in cui sempre più si vanno rafforzando settori strategici dell’economia, e si va caratterizzando autonomamente attraverso le dinamiche del capitale finanziario e dei grandi monopoli.

4. Imperialismo, crisi economica e la “variabile” strutturale della guerra

Il ruolo centrale dell’Europa può emergere in tempi molto rapidi, anche perché da anni vi è un forte squilibrio nell’economia americana tra impegno militare e spesa economica. Mentre gli altri poli geoeconomici, rappresentati dal Giappone, o meglio dalla variabile asiatica, e dall’UE, hanno infatti privilegiato un avanzamento nel campo economico, gli USA, invece, sono sempre più sottoposti a pressioni dovute alle scelte di investimenti militari che portano ad accrescere sempre di più il rapporto tra spesa militare e PIL; questo perché solo attraverso l’economia di guerra gli USA sperano di uscire da una crisi di accumulazione senza precedenti.
È con tali premesse che gli USA passano nei confronti dell’UE dalla guerra economica anche alla guerra guerreggiata, vedi la guerra in Jugoslavia, poi in Afghanistan e poi in Iraq, sfruttando il fatto che in Europa va avanti la centralizzazione economica ma manca del tutto quella politica, e quindi, militare, contando per questo anche sul ruolo di “guastatore europeo” della Gran Bretagna.
Se globalizzazione, intesa come logica unipolare d’impero, c’è stata, questa ha esaurito le sue funzioni fra la fine degli anni ’80 e quasi la metà degli anni ’90. La recessione e la decadenza del “superimperialismo” USA è di molto precedente al drammatico attentato dell’11 settembre. Lo sfaldamento dell’impero unipolare a guida USA, la fine delle forme specifiche della globalizzazione, stavano già avvenendo da diversi anni prima dell’11 settembre 2001. Già da tempo si vedevano gli USA in forte difficoltà sul piano politico-economico, entrando in una vera e propria recessione dopo circa 10 anni di crescita economica forzata e drogata. Va comunque detto che l’economia degli USA presenta chiari segni di debolezza, in quanto pur essendo altalenante il mercato finanziario vi è una crescente stagnazione dei settori tradizionali, e la distribuzione del reddito è peggiorata in questi ultimi anni.
L’attuale guerra all’Iraq è costata agli USA circa 80 miliardi di dollari e fino ad ora non si è avuta nessuna ripresa dell’economia statunitense; per ridurre il deficit potrebbe essere necessaria una svalutazione progressiva del dollaro, anche se questo non risulterebbe di facile attuazione dal momento che gli USA sono ormai dipendenti da un alto tasso di importazioni.
Si aggiunge poi che molti investitori del Medio Oriente non ritengono ormai più sicuro fare affari negli USA vista la sempre più precaria situazione internazionale; gli USA hanno un deficit di 500 miliardi di dollari e necessitano di 1,3 miliardi di dollari al giorno per mantenere il proprio livello di vita. È questa la realtà dell’economia americana.
Anche sul piano politico-militare la loro egemonia è messa in discussione dalle mire di affermazione e di espansione geoeconomica del polo dell’UE (vedi situazione nei Balcani fino all’Asia Centrale, espansione economica dell’UE nell’Europa Centro-Orientale, gestione della guerra e del dopoguerra in Iraq, costituzione di un esercito del tutto autonomo all’interno dell’UE e le contraddizioni operative e strategiche fra paesi UE e USA nella gestione della ridefinizione delle gerarchie NATO e anche di altri organismi economici e politici-militari internazionali ).
Il peso assunto dall’UE in relazione agli altri paesi del mondo, e in particolare la crisi del modello unipolare a guida americana, è stato sicuramente il motivo dell’allargamento delle aree di influenza e di rilancio delle cosiddette politiche di “stabilità geoeconomica” in un quadro internazionale di competizione economica, politica e militare. Allargamento che si esplica come controllo mondiale sottoposto ad una egemonia politico-militare degli USA rispetto all’UE, egemonia che però non ha più l’esclusività anche sul piano economico. E si arriva così ad una guerra di dominio interimperialista in una fase aperta della competizione globale fra poli imperialisti.

5. Le prospettive imperialiste

La fine del “dominio unipolare” vede ormai uno scontro aperto in particolare fra due maggiori poli imperialisti che cercano di estendere il dominio al mondo intero, destabilizzando in particolare quelle aree ad interesse strategico, in particolare l’Europa Centro-Orientale, l’area asiatica dell’ex Unione Sovietica, allargando l’ambito di intervento fino all’Asia centrale al fine di comprimere le ambizioni di superpotenza della Russia e l’eventuale costruzione del temibilissimo polo russo-cinese-indiano. L’obiettivo primario della competizione globale fra poli è quello di imporre, con le buone o con le cattive, la dottrina di dominio basata sull’instabilità permanente imposta con la “stabilità politico-economica internazionale”, la stabilità imperialista; dopodiché si tireranno i conti interni per la supremazia di uno dei due poli, l’UE o gli USA.
La via di uscita per la gestione della crisi è quella di marciare secondo i parametri del sostenimento della domanda e del dominio capitalistico attraverso una sorta di “maccartismo globalizzato” e di una nuova fase keynesiana. Cioè sviluppare ancora una volta un keynesismo militare come tentativo di risolvere, o almeno di gestire, la crisi. Per questo l’economia di guerra e la guerra guerreggiata dovranno avere carattere strutturale, cioè ampio respiro e lunga durata, con drammatiche ricadute anche sul movimento dei lavoratori dei paesi a capitalismo maturo (con i tagli al sistema pensionistico, alla sanità e allo Stato sociale e con un nuovo specifico attacco ai diritti civili, sociali e sindacali).
E nel conflitto interimperialistico assume una valenza centrale anche la guerra ideologica contro chi da sempre lotta per il socialismo come unica alternativa alla barbarie capitalista. E Cuba è un riferimento fondamentale per i popoli dell’Ameri-ca Latina, per tutti gli anticapitalisti e per tutti gli antimperialisti nel mondo. Oggi la difesa di Cuba è quella della propria indipendenza , della propria sovranità e dal chiaro tentativo dei terroristi interni di aprire un nuovo fronte di guerra guerreggiata da parte dell’imperialismo USA.
È infatti chiaro che da sempre, per evitare i rischi di una recessione o per uscirne quando il capitalismo è in fase di crisi, lo strumento capace di risolvere i problemi è l’allargamento dei fronti di guerra per consentire di rilanciare la produzione, spendere per produzioni belliche di massa e di aumentare l’intervento pubblico per produzioni di massa (armi e produzioni ad esse collegate), rilanciando così a forti ritmi i processi di accumulazione capitalistica.
Le spese militari USA ammontano oggi a circa 400 miliardi di dollari, cioè più di tutti gli altri principali paesi e più del triplo delle spese militari dell’intera UE (115 miliardi di dollari).
Il Sole 24 ore in un articolo del 24 gennaio ha mostrato in un grafico che le curve dell’andamento dell’oro e dei cambi euro-dollaro coincidono quasi negli ultimi quattro mesi (negli anni ’70 erano stati il prezzo dell’oro e quello del petrolio a crescere, con la conseguente svalutazione del dollaro nei confronti dell’oro); considerato che l’euro è una moneta ancora troppo giovane per poterla ancorare saldamente all’oro, è altrettanto chiaro che il dollaro vive sul debito con l’estero e l’euro ha invece i conti economici in ordine.
Una diminuzione delle spese militari negli USA comporterebbe oggi una profonda crisi dell’intero sistema economico americano e aggraverebbe la già forte crisi economica, arrivando a livelli forse peggiori di quella del ’29 (crisi risolta anche allora con la crescita degli armamenti nel corso della seconda guerra mondiale e anche dopo).
Ma attualmente per il “superimperialismo” unipolare statunitense non c’è spazio, non c’è il contesto economico adatto, esistendo la forte concorrenza di altri poli, e la potenza militare USA, per quanto predominante, non è sufficiente né capace di imporsi, anzi evidenzia maggiormente le contraddizioni interimperialistiche. L’UE non può vedere soffocate le proprie mire espansionistiche; la Cina, la Russia, ma anche l’India e l’Iran, non possono accettare una presenza di lungo periodo in Asia con insediamenti militari a finalità di conquista economica da parte degli USA.
Il principale modo per mantenere l’egemonia è per gli USA, quindi, lo strumento militare. È importante notare che le oltre trecento ispezioni in Iraq non hanno dimostrato alcuna prova sulla presenza delle cosiddette armi di sterminio di massa e nessun collegamento con Al Quaeda. Ed allora perché la guerra? Non si tratta forse del timore che l’OPEC passi dal dollaro-standard all’euro-standard? Il governo di Saddam ha in realtà decretato la propria condanna alla fine del 2000, quando ha deciso di convertire in euro la riserva in dollari depositata all’ONU (nel fondo Oil for Food).
Ed è lecito allora domandarsi: se anche altri paesi dell’OPEC (Iran, ecc.) decidessero di passare all’euro potrebbero essere i prossimi paesi a rischiare l’invasione?
L’Iran nel 2002 ha sostituito gran parte delle proprie riserve in euro e sembra quasi sicuro il pagamento in euro anche degli scambi del petrolio; questo cambiamento permetterà di instaurare nuovi rapporti con l’Unione Europea. Sarà allora l’Iran il prossimo obiettivo della “guerra giusta al terrorismo”?
Ma la guerra e l’ipotesi forzata del keynesimo militare sono oggi in grado di risolvere la profonda crisi economica USA, che si associa ad una crisi di egemonia politica, culturale e di civiltà? E la crisi è solo americana o siamo in presenza di una crisi a carattere strutturale del capitalismo, proprio nei processi di accumulazione internazionale e nelle modalità quantitative e qualitative di crescita del modo di produzione capitalistico così come oggi si presenta nelle sue diverse modalità di espressione?
È con tali domande, con tali scenari di mutamento di fase, di conflittualità accesa fra area del dollaro e area dell’euro, con attenzione sempre alla variabile asiatica (Cina, Russia, Iran, India) con forti mire espansionistiche sull’Eurasia e in Asia centrale e in America Latina, che nell’immediato futuro saremo chiamati a fare i conti, in un contesto in cui la competizione globale assumerà sempre più forti connotati politico-strategici di conflitto interimperialistico.