L’Argentina e il “neoliberismo periferico”

Nel 1975 l’Argentina aveva 25 milioni di abitanti, 3 milioni dei quali vivevano in povertà, per lo più nelle province dell’estremo nord del Paese. Oggi gli abitanti sono 37 milioni e i poveri superano i 14 milioni, oltre un terzo. È questo il dato macroeconomico che meglio fotografa il risultato devastante delle politiche neoliberali attuate dall’amministrazione Menem tra il 1989 e il 1999 e continuate fino al dicembre 2002 dal governo di De la Rua. Politiche dettate dal Fondo Monetario Internazionale che “guida” da anni le finanze di un’Argentina gravata dal macigno del debito estero, inizialmente contratto dai militari durante la dittatura del 1976-1983, ereditato ed accresciuto dai governi successivi. Per pagare questo debito, sono stati sacrificati decenni di conquiste sociali ed è stato dilapidato il patrimonio dello Stato con programmi di riduzione della spesa sociale e privatizzazioni selvagge. Ma ciò che oggi è crollato in Argentina è soprattutto il modello economico, sociale e culturale del “neoliberismo periferico”, cioè quella dottrina economica ideata nell’Universita di Chicago da Milton Fridman, e applicata oltre che dal Cile di Pinochet, dagli USA di Reagan e dalla Gran Bretagna della Thatcher. In tessuti democratici deboli, come quello dell’Argentina dopo la dittatura, ha provocato praticamente la dissoluzione dello Stato a favore dei grandi gruppi economico-finanziari, scaricando il costo della ristrutturazione dell’economia sulle fasce più deboli della popolazione.
La svolta neoliberale inizia in Argentina nel 1989, quando la credibilità del governo Alfonsín precipita dopo il fallimento di un piano economico (Plan Austral, 1985) che avrebbe dovuto rilanciare il paese. Per un insieme di circostanze, non ultimo il boicottaggio realizzato da potenti gruppi economici, si scatenò un processo di iperinflazione che esplose raggiungendo il 3090% annuo nel 1989, poco prima delle elezioni presidenziali. In questo clima di emergenza economica vinsero le elezioni i neo-peronisti di Carlos Menem, che si insediò alla Casa Rosada con l’appoggio delle istituzioni finanziarie internazionali sei mesi prima dei tempi previsti per l’impossibilità oggettiva di Alfonsín di governare una situazione sfuggitagli di mano. Il super-ministro dell’economia scelto da Menem, Domingo Cavallo, applicò senza trovare opposizioni consistenti un radicale piano di privatizzazioni e di austerità suggerito dal Fondo Monetario Internazione, in totale contraddizione con i principi corporativi e nazionalistici del peronismo classico. La moneta ridivenne il peso, e nel 1992 venne stabilita la sua parità con il dollaro (1 peso = 1 USD). Vennero privatizzate in modo scriteriato e in un clima di corruzione generalizzata ferrovie, televisioni, autostrade, telefoni, fonti energetiche, trasporti, industrie di Stato, e tutto ciò che trovava un acquirente. Dall’estero cominciarono a piovere investimenti per miliardi di dollari grazie alle garanzie fornite dallo stato sul rimpatrio dei profitti smisurati che venivano garantiti nei contratti, e altrettanti ne rientrarono di quelli portati fuori dal paese durante gli anni precedenti. L’inflazione calò prontamente al 172% nel 1991, al 17,5% nel 1992 e al 4% nel 1994, per scomparire totalmente fino al 2001.
Il “Piano Cavallo” ebbe però una pesante ricaduta sugli strati più poveri della popolazione. Il calo dei trasferimenti di denaro verso le province del nord, già misere, provocò periodiche ribellioni dei dipendenti pubblici provinciali; la disoccupazione aumentò, raggiungendo quota 14% (da sommare a un 12% di sottoccupati); la privatizzazione di buona parte della sanità, dell’educazione e del sistema previdenziale sbarrò ai più poveri l’accesso a questi servizi. Gli impiegati pubblici, i cui stipendi persero più di due terzi del loro potere d’acquisto in pochi anni, arrivarono vicini alla soglia di povertà, e la classe media, un tempo numerosa, venne dichiarata in via di estinzione.
Nel maggio 1994, malgrado si iniziassero a manifestare apertamente i guasti provocati del modello economico, Menem viene rieletto con il 50% dei voti, ma la riforma economica comincia a mostrare il suo lato debole: la disoccupazione tocca la percentuale record del 19% della popolazione attiva, e 45.000 piccole imprese chiudono i battenti in seguito alla diminuzione dei consumi e all’aumento delle imposte. Nelle province la situazione economica diventa incandescente: disordini si succedono a Tucumán, Córdoba, Tierra del Fuego, Santiago del Estero, Río Negro. La stella politica del super ministro Domingo Cavallo comincia a declinare, ma Menem mantiene immutata la sua politica economica sulla via della privatizzazione ad oltranza delle proprietà dello Stato, la deregolamentazione del lavoro e l’eliminazione del sistema pensionistico e sanitario. Questa politica si svolse assieme ad un incondizionato appoggio alla politica estera degli Stati Uniti e ad un progressivo rallentamento del processo di unificazione, nell’ambito del Mercosur, con il Brasile.
Verso la metà del suo secondo mandato, la popolarità di Menem comincia a scendere, come conseguenza delle innumerevoli denunce di corruzione e di connivenza tra uomini vicini al potere e diverse forme di criminalità organizzata. L’inizio della fine del decennio menemista si ha nell’ottobre ‘97 con la sconfitta del suo partito nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento e del governo di alcune province. Il crescente sentimento di ripudio verso tale gestione del potere venne sfruttata dalle opposizioni, che nel settembre 1997 creano un’alleanza di centro-sinistra (“Alianza”) formata dall’antico Partito Radicale (UCR) e dal FREPASO (Fronte per un paese solidale), che vince le elezioni presidenziali portando Fernando De la Rua alla Casa Rosada nel 1999.
Il paese che ereditano è reduce da una profonda “cura” neoliberale che ha sì stabilizzato l’economia con l’ancoraggio del peso al dollaro, ma che ha prodotto disoccupazione, precariato e lavoro informale (soprattutto vendita ambulante). Il valore reale del salario precipita in media attorno ai 250 U$ al mese e quello delle pensioni a 200 U$, mentre il costo della vita si impenna superando i livelli dei paesi europei considerando la parità del peso con il dollaro. I dati che più chiaramente illustrano la “riuscita” del modello neoliberale sono forse quelli che riguardano la distribuzione della ricchezza e della sua interfaccia, il tasso di criminalità. Nella città di Buenos Aires, il 20% della popolazione più ricca percepiva nel 1991 il 65% del reddito prodotto, mentre il 20% più povero solo il 4%. Nel 1999 ricevevano rispettivamente il 68,6% e l’1,9%. Nel contempo saliva vertiginosamente la delinquenza: si passava dalle 80 persone con atti delinquenziali ogni 10.000 abitanti nel 1980 alle 172 nel 1990 e alle 220 nel 1998. Anche i dati macroeconomici confermano il fallimento del modello economico menemista: nonostante lo Stato abbia incassato enormi cifre provenienti dalle privatizzazioni, il debito estero ha raggiunto i 140 miliardi di dollari e la bilancia dei pagamenti con l’estero, tradizionalmente in attivo, comincia a chiudere in rosso dal 1999. Finiti i fondi provenienti dalle privatizzazioni, il grande paese sudamericano è entrato nel nuovo millennio con circa metà della sua popolazione impoverita o in via di impoverimento, con uno Stato ridotto al lumicino, con un’esposizione finanziaria internazionale di grandi dimensioni e con scarse possibilità di esportare le sue materie prime.
Come conseguenza della riluttanza del governo di de La Rua a prendere misure radicali, l’Alleanza si spacca perdendo la sua ala sinistra, e nelle elezioni parziali del maggio 2001 viene sconfitta dal peronismo. La rottura definitiva nella compagine governativa si consuma con l’offerta del dicastero economico al padre della parità peso-dollaro, Domingo Cavallo, con poteri straordinari. Ma né Cavallo, né de la Rua hanno il coraggio, complice anche il Fondo Monetario, di svalutare il peso per ridare ossigeno all’economia aumentando le esportazioni. La parità dollaro-peso rimaneva ancora il fulcro della politica economica di Cavallo, anche dopo la scomparsa dell’inflazione, strangolando le esportazioni diventate troppo care e non più competitive da quando il dollaro ha cominciato a galoppare in seguito alla crescita economica degli Stati Uniti. È così che l’Argentina ha visto ridotto il suo peso come esportatrice di materie prime, perdendo soprattutto il mercato brasiliano, che fino a cinque anni prima assorbiva il 70% dell’export di Buenos Aires. La recessione dell’economia internazionale e le scadenze implacabili del pagamento del debito estero hanno fatto il resto. Alla popolazione sono stati ancora imposti sacrifici, che non sono bastati però a ridurre il peso del debito estero sull’economia argentina: l’ultima carta del ministro dell’Economia è stata quella di ridurre progressivamente gli stipendi agli impiegati statali, di togliere ogni sovvenzione agli agricoltori e di sospendere il pagamento delle tredicesime ai pensionati. Quando la nave cominciava ad affondare, l’ultima trovata di Cavallo ha portato il paese al baratro: i conti correnti vengono bloccati a pochi giorni dalle feste natalizie e dall’inizio delle vacanze estive per evitare la fuga di capitali, e alla gente viene permesso di prelevare soltanto fino a 250 dollari la settimana. Misura inutile, perché quando il blocco dei conti diventa operativo, sono già usciti dal paese 100 miliardi di dollari. Cominciano i primi saccheggi nella periferia di Buenos Aires e viene dichiarato lo stato d’assedio in tutto il paese.
A tutto questo la popolazione delle città ha detto basta in diversi modi: i più poveri saccheggiando supermercati e spacci alimentari, i ceti medi inscenando una vasta manifestazione di protesta scandita dal suono di pentole, mestoli e coperchi, in violazione dello stato d’assedio dichiarato dal governo. Come prima conseguenza del sollevamento sono state accettate a tempo record le “dimissioni” di Domingo Cavallo, osannato fino a poco tempo prima dalla stampa economica internazionale, seguito dopo poche ore dall’intero gabinetto e infine da de la Rua stesso, che ha dovuto fuggire dalla Casa Rosada in elicottero, assediato dai manifestanti. Sono seguiti giorni di rabbia collettiva che hanno bruciato in poche ore tre presidenti provvisori, fino alla nomina del peronista Duhalde, ex-vicepresidente di Menem, poi diventato suo nemico, a capo di un governo di unità nazionale formato anche da radicali, indipendenti, con l’appoggio esterno di alcuni parlamentari del Frepaso, per gestire la crisi fino al 2003. Impresa ardua e dai risultati incerti, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di convincere il Fondo Monetario Internazionale e le compagnie multinazionali che hanno investito in Argentina ad accettare condizioni di pagamento del debito che tengano in considerazione la gravissima situazione sociale. Il default, cioè la bancarotta del paese e la conseguente svalutazione della moneta, potrebbero essere a questo punto il male minore, dato che il rischio imminente è quello di una guerra civile. La prima guerra civile tra “inclusi” (i ceti minoritari che si sono arricchiti con il modello economico applicato dagli organismi finanziari internazionali) ed “esclusi”, cioè tutti gli altri. Una guerra tra ricchi e poveri ai tempi della globalizzazione e del governo mondiale dell’economia, con la classe politica che troppo a lungo ha delegato il potere agli economisti e che adesso guarda attonita la piazza in fiamme senza sapere come uscirne. È uno scontro che oggi infiamma Buenos Aires, ma che potrebbe anticipare altri e simili scenari mondiali.

La festa delle privatizzazioni
Il processo di privatizzazione delle aziende di Stato argentine durante gli anni ’90 è ormai materia di studio universitario per l’insieme di improvvisazione, mancanza di senso dello Stato e livello di corruzione dei governanti che lo hanno gestito. Sommato ovviamente alle enormi complicità delle imprese straniere che vi hanno partecipato, mosse più da una logica di “rapina” che da un desiderio di aprire nuovi mercati. I settori prioritari interessati sono stati quelli dell’energia (petrolio, gas naturale e produzione di elettricità), trasporti (aeroporti, strade, porti, treni, compagnie aeree), comunicazioni (telefoni) e banche. Vincono le diverse gare imprese francesi, statunitensi, tedesche, italiane e soprattutto spagnole. L’efficace battuta dello scrittore Eduardo Galeano riassume così il momento ”privatizzazioni: transazione attraverso la quale lo stato argentino passa ad essere proprietà dello stato spagnolo”. Lo Stato non regolamenta più le tariffe, che aumentano seguendo il corso del dollaro e dell’inflazione degli Stati Uniti (sic!), si interrompono gli investimenti, si perde il controllo su materie prime strategiche come il petrolio, non vengono più erogati servizi se non redditizi (vedi smantellamento delle linee secondarie delle ferrovie) e soprattutto vengono estromessi dalla gestione dalle aziende i lavoratori e si moltiplicano i licenziamenti. L’incasso dello Stato viene quasi esclusivamente utilizzato per il rimborso di quote del debito estero, detenute dagli stessi paesi di provenienza delle aziende interessate. Il costo sociale di questa ondata di svendita del patrimonio nazionale si può riassumere nel dato della perdita di posti di lavoro nelle sei principali aziende privatizzate: -75.500, il 54% in meno di occupati rispetto alla gestione statale.

Il fardello del debito estero
Il debito estero argentino esplode, come nel resto del mondo, a partire degli anni ’70, quando l’enorme massa dei petrodollari provenienti dal boom dei prezzi OPEP del 1973 si riversa nelle banche che “soffrono” di eccessiva liquidità e stimolano i paesi in “via di sviluppo” ad indebitarsi per, appunto, “svilupparsi”. Quando i militari golpisti di Videla prendono il potere nel 1976, l’Argentina deve 8 miliardi di dollari, quando scappano dopo la sconfitta nella guerra delle Malvinas, si lasciano dietro un debito di 45 miliardi di dollari. Come erano stati spesi? Dieci miliardi in acquisti di armi, altri cinque versati nei loro conti privati in Svizzera, dieci ancora per opere faraoniche (strade, stadi di calcio, aeroporti) da sfoggiare durante i Mondiali di calcio del ’78, e poi la trovata dell’ultima ora: viene rilevato dallo Stato il debito che i grandi gruppi economici privati argentini avevano contratto all’estero. La motivazione dell’operazione, costata 5 miliardi di dollari del 1981, fu quella di ricompensare coloro che li avevano sostenuto durante gli anni dei desaparecidos. L’idea geniale era venuta ad un giovane funzionario della Banca Centrale che avrebbe fatto carriera, Domingo Cavallo. La palla di neve del debito una volta finita la liquidità delle banche e aumentati sia il valore del dollaro, sia i tassi di interesse, diventa valanga negli anni del menemismo, che eredita 65 miliardi di debito, che diventano 145 nel 1999. Questo salto del debito è legato anche all’utilizzo del credito internazionale (compresi i famigerati bot argentini venduti a manbassa in Italia) per sostenere la parità peso-dollaro e per finanziare il deficit di bilancio delle province gestite dai governatori peronisti. Soprattutto la provincia di Buenos Aires è infatti responsabile di oltre il 50% del debito estero “menemista”. Il fondo Monetario Internazionale in questi anni ha sostenuto questa politica senza muovere critiche di sorta, e anzi pubblicizzando in tutto il mondo il “modello argentino” gestito dal loro fiduciario Cavallo. Qualcuno a Washington ha creduto troppo a lungo che la popolazione avrebbe resistito all’infinito senza ribellarsi all’impoverimento provocato dai piani di austerità. Oggi gli argentini, che nel 1975 dovevano al sistema finanziario internazionale 320 dollari pro capite, nascono con un debito di 3.800 dollari a persona che non intendono però più onorare a costo di far la fame.