L’Afghanistan e la cattiva coscienza

Dopo essere stato al centro dell’attenzione internazionale, dalla fine degli anni ’70 ai primi del decennio scorso, l’Afghanistan era tornato nell’oblio proprio dei paesi marginali rispetto la gerarchia internazionale esistente.
La pesante cortina del disinteresse veniva, raramente, sollevata da qualche notizia relativa le più oscurantiste misure antifemminili prese dai nuovi padroni di Kabul, i così detti “Talebani”.
L’emblematica distruzione dei monumentali Budda di Bamyan ha riportato questo disgraziato paese all’onore delle cronache internazionali.
Da tutta questa vicenda emerge, in realtà, la cattiva coscienza dell’opinione liberale, quella ufficialmente legata al complesso di valori e di principi che compongono il concetto stesso, ideologico-politico, d’ “occidente”.
Così come risalta l’ipocrisia, la subal ternità di grandissima parte della sinistra, da quella compatibile a buona parte della stessa, presunta, “alternativa”.
L’esecrazione, le dichiarazioni di scandalo, le prese di posizione di condanna nei confronti dei Talebani si sprecano; ma chi sono in realtà questi bruti, blasfemi oscurantisti che usano impropriamente il Corano, l’Islam come coperture per le proprie nefandezze, intendendo con quest’ultime non solo lo sfregio al patrimonio artistico monumentale della civilizzazione umana, ma anche, ed io aggiungo soprattutto, la violenza sistematica contro persone e beni, la liquidazione fisica degli avversari e dei prigionieri, il rozzo razzismo contro vari gruppi etnici e religiosi ( per esempio, gli Hazarah, etnia d’origine mongola, musulmana di rito sciita invece che sunnita, come, ufficialmente, si proclamano i Talebani), per non parlare della sorte riservata a tutti coloro che osano manifestarsi non credenti e/o magari comunisti.
Sono gli amici, anzi gli “eroi” di quegli stessi che oggi si scandalizzano e strepitano contro l’estremismo terrorista islamico, mentre nei decenni scorsi erano impegnati a cantare le lodi dei valorosi, intrepidi
“freedom soldiers” di reganiana memoria.
Titolo generosamente distribuito, allora, a tutta le peggior feccia dell’umanità: dai narcotrafficanti dell’Indocina, ai bracconieri e banditi dell’ UNITA angolana, dai seviziatori contrabbandieri di cocaina “Contras” nicaraguensi, ai vari bombaroli, made in U$A/NATO, di casa nostra, ecc… tutti impegnati nella crociata anticomunista.
Pochi, forse, ricorderanno le immagini televisive dell’ assassinio, il 27 settembre 1996 a Kabul, del compagno Najybullha e di suo fratello minore, trasmesse da quasi tutte le grandi reti internazionali; l’uccisione cioè dell’ultimo leader del Partito Democratico Popolare Afgano (PDPA), già capo dello stato dopo la sostituzione (non cruen-
ta!) del suo predecessore Babrak Karmal.
Allora nessuno protestò, nessuno esecrò quelle immagini che violavano ogni principio giuridico ed umano, non ci furono interventi del Segretario delle Nazioni Unite (sog
getto che aveva ufficialmente la custodia di Najybullha e della sua famiglia), i governi tacquero, Am nesty International non protestò, il Papa, già impegnato a riesumare vecchi arnesi del nazifascismo dell’Europa orientale e della Spagna franchista da beatificare successivamente non espresse parola all’ Angelus domenicale, né espressero parola i vari campioni, nostrani e non, dei così detti “diritti umani”.

Vale allora la pena ricordare la recente storia di questo paese, per lungo tempo noto solo agli appassionati di geografia e/o di letteratura inglese, nonché, più recentemente, a quelle schiere di giovani della borghesia nord americana ed europea che, dalla seconda metà degli anni sessanta, si recavano in Oriente inseguendo i propri sogni alternativi entro i quali risolvere le tradizionali, problematiche esistenziali.
L’Afghanistan è un paese di circa 650.000 kmq ( cioè come la Francia più 1/3 dell’Italia ) situato al confine fra Medio oriente e sub continente indiano. L’imponente catena montuosa dell’Hindukusch lo divide trasversalmente, rendendo particolarmente difficili le comunicazioni fra nord e sud. La bellezza dei paesaggi contrasta con l’asprezza della morfologia, da cui derivano i basilari condizionamenti climatici per tutto ciò che si trova a vivere in quei territori.
Per secoli le popolazioni locali ( essenzialmente di ceppo iranico con infiltrazioni mongole), in maggioranza nomadi e seminomadi, hanno integrato le scarse risorse naturali (coltivazione di cereali, frutta, verdure, prodotti della pastorizia) con la pratica dell’esproprio, più o meno violento, delle comunità contadine sedentarie della valle dell’Indo.
La relativa unificazione del paese avviene sotto la guida dell’Emiro Abdul Rhaman, sopravissuto alle lotte di poteri fra i clan e alle pressioni dei colonialismi inglese, egemone nel sub-continente indiano, e russo, definitivamente insediatosi nell’Asia centrale dalla seconda metà dell’ottocento. Con la sua morte (1901, lo stesso anno della regina Vittoria, imperatrice d’India) si apre anche per l’Afghanistan il periodo che potremo definire della modernizzazione.
Esponenti dell’elite culturale, influenzati dal modernismo progressista di matrice turco-ottomana, in alleanza con i settori illuminati della corte del nuovo Emiro Habybullha, iniziano ad introdurre i primi elementi di dinamizzazione economico-culturale; nel giro di pochi anni si inaugurano scuole superiori, sia maschili che femminili (sul modello britannico dei Colleges), centrali idro-elettriche (la prima nel 1906), si sviluppano i pochi opifici esistenti allo scopo di migliorare gli approvvigionamenti per le forze armate, si inviano studenti all’estero, si consolida la regolare pubblicazione di giornali e periodici. Queste innovazioni, di per sé importanti, non scalfiscano la misera, tradizionale vita delle masse rurali, cioè dell’oltre 90% della popolazione. I forti contrasti inter-imperialisti daranno all’Afghanistan insperate opportunità; infatti, scoppiata la prima guerra mondiale (1914), gruppi di ufficiali tedeschi, astro-ungarici e turchi-ottomani giungeranno a Kabul per spingere il paese contro le rivali potenze dell’Intesa (Gran Bretagna e Russia) confinanti a nord e a sud con l’Emirato. I ristretti circoli progressisti, ampliatisi fra gli studenti delle scuole superiori e fra i quadri dello stato, daranno vita alla prima, moderna organizzazione politica, quella dei “Giovani afghani” e fra di loro vi è Amanhullah, possibile erede dell’Emiro.
Agli inizi del 1919 verrà assassinato Habybullha, aprendo così la strada del potere ai settori nazionalisti progressisti che riusciranno ad imporre al vertice Amanhullah. Il rifiuto della Gran Bretagna d’uniformarsi a quanto, unilateralmente, deciso dal recentissimo governo sovietico, cioè la rinuncia ad ogni diritto e pretesa sul paese, riconoscendone de jure l’indipendenza e la sovranità condurrà alla terza guerra anglo-afghana, breve e violentissima. Gli inglesi infatti utilizzeranno tutti i più moderni mezzi bellici: autoblindo, aerei (verranno bombardate diverse città afghane, compresa Kabul) lanciafiamme, pallottole esplosive, ma il valore degli afghani unito alle difficoltà del terreno e soprattutto allo stato di agitazione delle popolazioni suddite di Londra (dall’Egitto all’India, dall’Irlanda al Somaliland), nonché il timore di alimentare l’influenza sovietica, convincerà la Gran Bretagna a stipulare la Pace di Rawalpindi (agosto 1919), con la quale l’Afghanistan ottiene il pieno riconoscimento della propria identità statuale.
Gli anni successivi saranno particolarmente contraddittori: da una parte Amanhullah radicalizzerà il proprio orientamento modernista, impegnandosi a contrastare l’influenza del clero reazionario, delle gerarchie tribali ecc… dall’altro, manifesterà una profonda incapacità a legarsi, organicamente, a qualsivoglia strato sociale di massa, con l’ulteriore, deprecabile, volontà di rafforzare l’autorità, il potere personale, finendo così per alienarsi anche simpatie nei settori progressisti.
L’isolamento conseguente, unito all’azione sovversiva dei servizi inglesi, ne determinerà il rovesciamento nel 1929. Il successore, Nader Khan, con un passato di giovane progressista e di eroe della guerra d’Indipendenza (aprile-agosto 1919; fu lui che nel Paktya, a Host, mise in grave difficoltà la potente armata britannica) riequilibrò e consolidò la direzione dello stato, liquidando Bacha Sakhao ( il “venditore d’acqua”, figura simile al Fra Diavolo del settecento meridionale italiano), bloccò lo straripamento del clero conservatore e reazionario, limitò il risorgente tribalismo e, soprattutto, riannodò le relazioni con la Gran Bretagna senza indebolire quelle con l’URSS. Tale politica , in buona parte derivata dai forti condizionamenti ambientali e internazionali, significò anche una dura repressione contro gli ambienti progressisti più esposti (studenti, intellettuali, quadri delle forze armate, ecc..), e proprio da questi ambienti maturò l’attentato che doveva sopprimere Nader Khan nel 1933.
Il figlio Zahyr Schà successe al padre pur dovendo sottostare alla pesante tutela degli zii paterni, che diressero, di fatto, la politica afghana fino al 1953, anno in cui emerse un’altra forte personalità, quella di Dahud Sardar Khan, cugino del re.
Nel 1963 Zahyr riuscì ad allontanare Dahud dalla carica di Primo ministro aprendo una nuova tappa della così detta modernizzazione.
Una nuova Costituzione venne promulgata. Con essa si tendeva ad uniformare le istituzioni al modello liberal-parlamentare; gli esperti francesi che curarono la stesura della nuova carta fondamentale disegnarono, per questo ancora arretrato paese, un quadro di riferimento giuridico-costituzionale da moderno stato nazionale costituzionale.
Nel 1965 si tennero le prime elezioni politiche della storia afgana. I 200 deputati eletti risultarono in massima parte notabili locali, proprietari terrieri, funzionari governativi, qualche intellettuale. I partiti, menzionati nell’atto costituzionale ma di fatto illegali in quanto assente ogni legge attuativa della norma relativa la libertà d’associazione politica, risultarono praticamente assenti. Ma proprio in quello stesso anno nasceva, clandestinamente, il Partito Democratico Popolare Afgano (gennaio 1965): associava circa 600 militanti e il Congresso costitutivo venne tenuto da 27 delegati fra i quali la dottoressa Anhayta Ratebzad, eletta nell’organismo dirigente massimo del partito composto di 7 membri.
In quelle prime elezioni il PDPA riuscì a far eleggere 4 dei suoi appartenenti (fra i quali Babrak Karmal e Anhayta Ratebzad), nelle sucesive elezioni del 1969, il “Partito” riuscì a mantenersi presente con 2 eletti (fra i quali B. Karmal).
La seconda metà degli anni ’60 fu perciò il periodo del così detto riformismo liberal-progressista; tuttavia il paese reale restava estremamente arretrato socialmente, fragile economicamente, inadeguato politicamente.
Tale verità emerse drammaticamente nel 1972/73 quando una grave siccità colpì l’Afghanistan determinando una vera e propria carestia. Gli aiuti internazionali giunsero copiosi, ma l’inefficienza dello stato e soprattutto la dilagante corruzione vanificarono gli effetti della solidarietà internazionale, determinando così la morte di decine di migliaia di persone per denutrizione e malnutrizione (una stima fissa a 2/300.000 morti su 15/16.000.000 di abitanti residenti).
L’accumularsi delle contraddizioni portò alla definitiva crisi del regime monarchico, con la conseguente nascita della prima Repubblica afgana (luglio 1973). Protagonista di questa “rivoluzione”, tutta interna alla classe dirigente tradizionale, fu l’ex primo ministro Daud. Il ruolo del PDPA non è mai stato precisato, ma certamente esso fu fra i soggetti più attivi che appoggiarono il cambio istituzionale.
Va tenuto conto che nel 1967 si era consumata la pratica divisione del PDPA in due distinte e rivali organizzazioni: il KHALQ (popolo) e il PARCHAM (bandiera). Le differenze ideologico-programmatiche non sono chiaramente note, anche perché oltre all’assenza di documentazione ufficiale, la divisione deve essersi basata, realmente, più su fattori inerenti a questioni etnico-tribali che ideologico-politiche. Il Khalq risulterà infatti più interno all’etnia Pastho, maggioritaria nel complesso panorama delle nazionalità esistenti in questo paese, oltre una ventina, mentre il Parcham risulterà costituito da gruppi etnici quali i tagychi, baluci, usbechi, hazara, ecc.. e con insediamento relativamente più urbano.
La collaborazione fra il nazional-progressista repubblicano Daud e le forze filo-comuniste fu concreto e reale per i primi anni, e del resto Mosca non nascose la propria soddisfazione e simpatia per il nuovo ordine instauratosi a Kabul. Ma già nel 1977 l’equilibrio entrava in crisi, sia per l’attivismo concorrenziale dei filo-comunisti, soprattutto fra studenti e giovani ufficiali delle forze armate, sia per l’opposto attivismo dei servizi iraniani che tentavano d’attrarre l’Afghanistan nella sfera d’influenza dell’impero dello Schà, utilizzando anche le grandi risorse finanziarie derivate dal boom petrolifero. In tale contesto si determina l’assassinio del prestigioso dirigente rivoluzionario M. Kayber (primi di aprile 1978), già molto probabilmente impegnato nell’opera di ricomposizione unitaria delle due fazioni filo-comuniste.
La reazione all’assassinio fu grande, oltre 25.000 risultarono i partecipanti alla manifestazione di protesta.
La reazione del governo non si fece attendere, Daud ordinò l’arresto dell’intero gruppo dirigente del PDPA. È in questo contesto di radicalizzazione dello scontro che matura l’insurrezione dei reparti militari influenzati dal PDPA. Il 27 aprile 1978 reparti corazzati e unità aeree insorgono ed occupano i centri nevralgici del potere, liberando tutti i prigionieri politici.
Nasce così la Repubblica Democratica Afgana. Il Consiglio Rivoluzionario Supremo e il nuovo governo guidati da N. Mohamed Taraki, già leader del riunificato partito, avviano il paese sulla strada di una radicale trasformazione economico-sociale. Il programma del nuovo regime è sintetizzato nei primissimi decreti emanati dai nuovi organi rivoluzionari: riforma agraria, alfabetizzazione, emancipazione femminile, incremento della produzione industriale, sviluppo dei servizi sociali e soprattutto quelli sanitari, cooperazione con i paesi socialisti e con quelli non allineati. La fotografia del nuovo gruppo dirigente, apparsa pochi giorni dopo la vittoriosa insurrezione sul “Kabul Times”, visualizza l’equilibrio esistente fra le due anime del PDPA. Seguono Taraki, in ordine gerarchico, B. Karmal (Parcham), A. Amin (Khalq), A. Ratebzad (P), A. Khysmhand (P), M. Najibullah (P), M. Watanjar (K), nel complesso dei 25 maggiori esponenti del nuovo regime, 13 risulteranno del Khalq e 12 del Parcham.
Questo equilibrio avrà breve durata. Già nell’agosto 1978 si determinerà una prima, vistosa, rottura nel gruppo dirigente: i maggiori esponenti dell’ala Parcham saranno allontanati dalle loro responsabilità e dal paese, destinandoli a ricoprire la carica d’ambasciatori in vari paesi esteri. Di lì a poco altri esponenti del partito verranno arrestati come effetto dell’affermarsi sempre più della figura di A. Amin, che nel settembre 1979 liquiderà lo stesso Taraky accentrando in se tutti i poteri.
L’instabilità interna al regime, accompagnata dall’acutizzarsi dello scontro di classe e dal sempre maggiore intervento indiretto delle potenze imperialiste, USA e Gran Bretagna in primo luogo, porteranno il paese in uno stato di crisi sempre più evidente. Il pericolo di una guerra civile interna al PDPA convincerà Mosca ad intervenire direttamente e il 27 dicembre del 1979 un corpo di spedizione sovietico coadiuvato da alcuni reparti afgani rovescerà il regime di Amin riportando al vertice dello stato B. Karmal, fino ad allora praticamente in esilio a Praga.
La successiva storia del paese è contrassegnata dal sempre maggiore intervento delle forze imperialiste, che con centinaia di milioni di dollari di. finanziamenti riusciranno ad alimentare una vera e propria guerra non dichiarata allo stato afghano.
L’epilogo del conflitto non sarà determinato dalla forza congiunta dell’imperialismo e della reazione interna, bensì dal crollo ideologico-politico dell’URSS e con essa della comunità socialista internazionale.
Si è parlato, a sproposito, dell’Afghanistan come del Vietnam sovietico. In realtà le due vicende sono totalmente diverse e non solo per i contenuti di classe e i progetti perseguiti, ma anche per il peso dello sforzo economico e bellico manifestatosi. In Vietnam gli USA ebbero circa 60.000 fra morti e dispersi e oltre 370.000 feriti e mutilati, l’URSS in 10 anni contabilizzò meno di 13.500 morti e 35.000 feriti. A tali riferimenti quantitativi va aggiunto che l’Afghanistan aveva continuità territoriale con l’URSS stessa, sviluppando un comune confine per circa 2.000 km. La realtà è invece che con l’Afghanistan si manifestò la crisi di un’ipotesi strategica alternativa al dominio capitalistico mondiale.
Non è indifferente sottolineare e ricordare che il regime rivoluzionario afgano negli anni ’80 aveva conosciuto un suo effettivo, reale consolidamento e rafforzamento; il PDPA da 18.000 iscritti del 1978 aveva raggiunto i 240.000 aderenti nel 1986, le stesse forze armate afghane furono in grado, ben dopo il ritiro del contingente sovietico (mai superiore ai 115.000 effettivi) conclusosi il 15 febbraio 1989, sulla base degli accordi sovieto-statunitensi di Ginevra, di riportare notevoli successi contro le forze reazionarie (battaglia di Jalalabad: 6 marzo/ 8 luglio 1989) e che il crollo del regime fu dovuto esclusivamente al venir meno di ogni possibilità di ricevere rifornimenti bellici ed alimentari con la definitiva dissoluzione dell’URSS (1991).
La tragedia afghana dimostra certamente il limite di una cultura politica, quella tardo terzo-internazionalista. troppo legata a schemi e modelli rigidi di riferimento.
Purtuttavia proprio i successivi sviluppi al venir meno di quella realtà dimostrano come la sconfitta del movimento comunista novecentesco abbia rappresentato un enorme indebolimento di tutte le forze legate al progresso della civilizzazione umana.
Non si tratta, evidentemente, di rimpiangere ciò che non esiste più, ma di partire da una seria, onesta analisi critica del passato, che niente deve concedere alla propaganda di chi attualmente appare vincente, per ricostruire una teoria ed una prassi rivoluzionaria adeguata agli immani ostacoli oggi frapposti dall’imperialismo al progresso, all’emancipazione dell’umanità.

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