L’occasione offerta da L’Ernesto di tornare a discutere delle pagine che Lenin ha dedicato a L’estremismo, malattia infantile del comunismo (1), per chi oggi è impegnato a ricostruire un punto di vista, una politica, un partito comunisti, non è certamente solo quella di un esercizio di analisi testuale. Si guarda al passato per attrezzarsi a meglio comprendere il presente; si cerca nella riflessione di un grande dirigente del movimento operaio, che ha agito nel vivo di eventi di dimensione planetaria, la risorsa necessaria per volgersi alla costruzione del futuro. Questo è evidente. Ma, proprio per questo, occorre guardarsi dalla tentazione di operare accostamenti meccanici, estrapolazioni ad uso e consumo della battaglia politica corrente: magari per ‘dimostrare’, come è accaduto in tempi recenti, che era sbagliata l’uscita da una maggioranza di governo.
In un certo senso, le letture – specie se il loro oggetto ha a che vedere con la politica – non sono mai neutre, sono sempre di parte: ma ciò non esime dalla ricerca della solidità e dell’attendibilità delle valutazioni, così come dalla fatica della ricostruzione storica.
La rivoluzione sociale all’ordine del giorno
La prima edizione in lingua russa del testo in questione vede la luce nel giugno del 1920, dunque a quasi tre anni dalla vittoriosa rivoluzione bolscevica e alla vigilia del secondo congresso del Komintern. Ancor prima della considerazione degli obiettivi politici immediati di questo scritto – riconducibili alla polemica nei confronti di posizioni considerate “estremistiche”, allora presenti all’interno del movimento operaio internazionale – è essenziale la collocazione di esso nel più generale contesto storico, quello appunto dei primi due decenni del secolo appena trascorso.
Nell’ottica dello scontro di classe, il carattere fondamentale di questo periodo è l’attualità della rivoluzione sociale: il secolo muove i suoi primi passi annunciando “anni di preparazione della rivoluzione”. Delle mille scintille, non è dato sapere quale deflagrerà in incendio. Quel che si sa è che – prima o poi, attraverso improvvisi assopimenti e brusche riprese – l’incendio infine si produrrà: “Dappertutto si sente l’approssimarsi della grande tempesta; in tutte le classi è fermento e preparazione” (p. 534). Beninteso, tutto ciò non sta solamente nelle convinzioni dei dirigenti bolscevichi, ma è parte di un clima generale. Ad esempio, Kautsky (moderato sostenitore di un’ “attesa inerte”, lo stesso che poi rinnegherà la rivoluzione in nome della “difesa della patria” tedesca) non ha difficoltà a sostenere in uno scritto del 1909 (La via al potere) che “l’era delle rivoluzioni è cominciata”, avendo peraltro in precedenza già riconosciuto con sorprendente preveggenza che “il centro rivoluzionario si sposta da Occidente a Oriente” e che, precisamente, “si trasferisce in Russia” (Gli slavi e la rivoluzione, 1902).
Dobbiamo dunque convertire il nostro sguardo di fine millennio per cogliere l’assoluta originalità di quella temperie storica, segnata com’è da un evento senza precedenti e di portata mondiale: l’incontro – appunto originale, per nulla scontato – di un impianto teorico rivoluzionario, il marxismo, con un elemento reale e sempre più vitale della società capitalistica, il proletariato (o, almeno, con la parte più cosciente di esso). L’organizzazione operaia, forte della prospettiva aperta dai “nuovi princìpi”, cresce e si rafforza giorno dopo giorno. Proliferano leghe e associazioni operaie, iniziano a consolidarsi quei “primi germi dell’unità di classe” che sono i sindacati, facendo passare per la prima volta milioni di lavoratori dalla disorganizzazione e dalla dispersione alle più semplici forme associative e rivendicative; sempre di più il ricorso allo sciopero materializza l’antagonismo di classe. Già all’inizio del secolo, in Russia, gli scioperi acquistano un’intensità senza precedenti, caratterizzandosi per l’elevato numero di partecipanti e i contenuti sempre più direttamente politici: nel solo primo mese del 1905 – riferisce Lenin – il numero degli scioperanti arriva a superare di dieci volte il numero medio annuo del decennio precedente; e nel resto dell’anno la percentuale continua ad aumentare. È il prologo, la “prova generale” del 1917.
In questa fase, la storia mostra di procedere “con rapidità prodigiosa” e la tensione prerivoluzionaria aumenta ciclicamente al contestuale approfondirsi della crisi sociale, economica e politica della borghesia: la quale sempre meno sembra in grado di assolvere la sua funzione progressiva e universalistica e sempre più decade, nella realtà storicamente data e per così dire nella coscienza del tempo, a classe di oppressori. Due avvenimenti catalizzano e potenziano tutti gli elementi del suddetto quadro: la guerra interimperialistica e la rivoluzione sovietica dell’ottobre del ‘17. La prima guerra mondiale – come è stato unanimemente riconosciuto – rappresenta uno degli eventi più atroci nella storia del mondo contemporaneo: essa procura “indicibili sofferenze” in particolare al proletariato e ai contadini, ridotti a carne da macello dalla macchina bellica, “estenua i popoli” ma soprattutto “apre loro gli occhi alla verità, rivelando che decine di milioni di uomini sono uccisi o resi invalidi per decidere se debbano essere i predoni inglesi o quelli tedeschi a saccheggiare il maggior numero di paesi” (p. 594). Dentro queste sofferenze, nel precipitare delle condizioni di vita delle grandi masse, nel deteriorarsi del ruolo di mediazione e dell’immagine delle istituzioni democratico-borghesi, ridotte a comitati di guerra e a esecutrici brutali di ordini nell’interesse delle classi dominanti, i bolscevichi in Russia guidano l’insurrezione, vincono e amplificano per tutta l’Europa due parole d’ordine cruciali: pace e soviet.
Teoria rivoluzionaria ed esperienza delle masse
Qui occorre saper discernere una delle più significative lezioni del testo di Lenin. Ha certo un valore intrinseco – per ciò che attiene alla chiarezza concettuale di una riflessione politica – il discutere di modelli sociali o di forme istituzionali, nonché della loro desiderabilità, a prescindere dalla considerazione delle condizioni di una loro effettiva realizzazione. Ma, quando si ha a che fare con l’azione politica, con le urgenze delle decisioni di fase, non si può fare a meno di commisurare la giustezza del progetto all’ esperienza che di tale progetto hanno le grandi masse: “Una giusta teoria rivoluzionaria (…) non è un dogma, perché si costituisce in modo definitivo solo in stretta connessione con la pratica di un movimento veramente di massa e veramente rivoluzionario” (p. 533). Chi fosse propenso a considerare la concezione leniniana della politica semplicemente come una variante di giacobinismo, tendente a identificare il processo rivoluzionario con la presa del potere da parte di un gruppo illuminato e ristretto, dovrebbe riflettere su siffatti passaggi: “Senza un cambiamento delle opinioni della maggioranza della classe operaia la rivoluzione è impossibile; e questo cambiamento è un prodotto dell’esperienza politica delle masse, non è mai il risultato della sola propaganda” (p. 582).
Lenin insiste su questo. In una parte del mondo si è storicamente concretizzata una forma diversa di organizzazione sociale. Un’idea alternativa (di società, di gestione statuale, di modo di produzione) ha messo radici nella concreta vita di un popolo, rappresentando uno scandalo per i poteri dominanti e, ad un tempo, un esempio per altri popoli. Da quel momento, c’è la certezza che quello presente non è l’unico mondo in cui si possa realisticamente vivere. Ciò che, all’indomani dell’esperienza della Comune di Parigi, Marx ed Engels avevano constatato – e cioè la possibilità concreta del superamento di una società caratterizzata dallo sfruttamento di classe e organizzata attorno allo stato borghese – trova ulteriore conferma nel vivo dell’esperienza storica: la repubblica democratico-borghese, le cui libertà continuano a non attenuare bensì a sancire profonde differenziazioni economiche, può cedere il campo ad una forma nuova e superiore di organizzazione sociale e istituzionale.
Questo si intende quando si dice che con la rivoluzione sovietica è avvenuto “qualcosa di essenziale”, che ha posto “inevitabilmente” all’ordine del giorno “l’estensione della rivoluzione” (p. 538). Di questo è convinto l’intero gruppo dirigente bolscevico: la fase storica culminata nella guerra imperialista ha contribuito a mostrare il lato unilaterale, di classe della democrazia parlamentare democratico-borghese – circoscrivendola come “pregiudizio”, riducendola sotto gli occhi di milioni di proletari a “involucro politico del capitalismo” – e, nel contempo, ha contrapposto i soviet (espressione dell’”interesse dell’immensa maggioranza del popolo”) a quella vecchia forma, ad un sistema istituzionale la cui dialettica non può debordare al di fuori dei supremi interessi della classe sfruttatrice.
Precisamente la non comprensione di questo scarto storico è imputata da Lenin ai dirigenti della seconda Internazionale: i quali hanno creduto di poter gestire l’ordinario, senza accorgersi che “le vecchie forme” stavano esplodendo, “perché il nuovo contenuto, radicalmente antiproletario e reazionario, aveva assunto in esse dimensioni smisurate” (p. 597). Né ora vedono, dopo l’”ottobre”, che nulla è più come prima; che anche l’avversario è cambiato, ha paura del contagio e reagisce scompostamente: i giornali di mezzo mondo inveiscono contro l’orrore bolscevico, in America si imprigionano migliaia di persone per sospetto bolscevismo, ricche associazioni inglesi finanziano contro di esso una sconfinata letteratura, in Francia i toni delle campagne elettorali si fanno furibondi. Tutto questo “oltrepassare il limite” è musica per le orecchie rivoluzionarie: “Ormai non riescono più a passare sotto silenzio, a soffocare il bolscevismo” (p. 595).
L’antidogmatismo di Lenin
L’Estremismo pone in rilievo un ulteriore fondamentale carattere dell’ispirazione leniniana: la ferma determinazione con cui è perseguito un obiettivo politico non è per essa affatto antitetica, è anzi strettamente connessa con un acuto senso della peculiarità delle condizioni in cui ci si trova ad operare. La conoscenza profonda, minuziosa delle caratteristiche della fase storica, delle forze che sono in campo, del particolare contesto sociale, geo-politico, culturale entro cui le scelte politiche sono compiute, costituisce la conditio sine qua non dell’efficacia pratica e della determinazione con cui le suddette scelte sono attuate. Conoscenza generale e cura del particolare, capacità analitica e forza immaginativa, teoria e azione fanno parte di una medesima attitudine. In tal senso, per Lenin, la politica è insieme scienza ed arte: “(…) la politica è una scienza e un’arte che non cadono dal cielo, che non si danno senza fatica” (p. 579). Essa è insomma una pratica difficile, che comporta un continuo lavoro di “decifrazione” e, proprio per questo, richiede come qualità prioritaria la capacità di “discernimento”: “È una stoltezza compilare una ricetta o regola generale (…) valida per tutti i casi. Bisogna avere la testa sulle spalle per orientarsi in ogni singolo caso” (p. 569). Dunque “cognizioni”, “esperienza”, “sensibilità politica”: non esistono scorciatoie. Una scorciatoia, sempre a portata di mano, è appunto lo schematismo: esso è il limite capitale tanto dell’”opportunismo” di destra (che ripete giaculatorie, astratti princìpi senza sapere o volere cogliere la peculiarità e l’opportunità del momento), quanto del “rivoluzionarismo piccolo-borghese” (insofferente alle difficoltà, all’articolazione tattica che la situazione reale impone). Entrambi agiscono, mossi da uno schema: in nome di esso, gli uni rinunciano all’obiettivo, gli altri lo perdono per precipitazione e semplificante superficialità.
Nessuno più di Lenin è consapevole delle enormi difficoltà dell’impresa rivoluzionaria. Non si tratta solo della forza del capitale internazionale, della “solidità dei legami internazionali della borghesia”: c’è da sconfiggere “la forza dell’abitudine”, la consistenza (materiale, ideologica) degli istituti storici vigenti. A tal fine, occorre cogliere “un momento di slancio eccezionale e di straordinaria tensione di tutte le facoltà umane” (p. 591). Ed è necessario saper sfruttare – nel momento in cui si presentano – tutte le condizioni favorevoli, tenere conto delle “particolarità concrete” che caratterizzano la lotta “in ogni singolo paese, in conformità con i tratti originali della sua economia, della sua politica, della sua cultura, della sua composizione nazionale (…), delle sue colonie, delle sue divisioni religiose ecc.” (p. 588). Così, la Russia del ‘17 ha goduto di una situazione storicamente originale, dell’esistenza di determinate specifiche condizioni. Lenin le enumera: il collegamento tra i sommovimenti interni e la guerra, le contraddizioni interimperialistiche, la possibilità di sostenere una lunga guerra civile in un paese sconfinato e dotato di pessimi mezzi di comunicazione, l’esistenza di un movimento rivoluzionario seppure di carattere democratico-borghese tra i contadini. A tali condizioni va aggiunta, per così dire dal lato della soggettività rivoluzionaria, la costituzione in Russia di un “pensiero d’avanguardia”, nutrito per decenni dall’emigrazione imposta dallo zarismo e quindi fecondato da ricchi legami internazionali, attento alle vicende e alla cultura europea e americana. Tutto ciò – osserva Lenin – rende conto del fatto che sia stato più facile per la Russia iniziare la rivoluzione socialista di quanto non possa esserlo per l’Europa Occidentale: ma “sarà per la Russia più difficile che per i paesi europei continuarla e condurla a termine” (p. 565). Osservazione lungimirante, poiché così – a quanto pare – è stato.
C’è compromesso e compromesso
Entro questa attitudine antidogmatica e nell’arduo contesto post-rivoluzionario si inquadra la polemica leniniana nei confronti dell’”estremismo di sinistra”. Come detto, in una certa misura, esso è il prodotto speculare del vizio opposto: l’opportunismo di destra. Con questo condivide il limite dello schematismo. E nasce sulla base dell’incomprensione di un’acquisizione fondamentale: la storia non procede secondo un percorso lineare e per questo, a seconda della congiuntura che si presenta, bisogna avere la determinazione necessaria per andare all’offensiva ma anche, all’occorrenza, la lucidità per sapersi ritirare. “I partiti rivoluzionari (…) hanno imparato a condurre l’offensiva. Si tratta ora di capire che questa scienza deve essere integrata da un’altra scienza, che insegna come ritirarsi in buon ordine” (p. 536). Quando le difficoltà si fanno sovrastanti, è bene guardarsi dai “rivoluzionari a parole” e adottare tutte le misure atte a potersi ritirare “con maggior ordine, con minori perdite per il proprio esercito, conservandone meglio il nucleo, con scissioni minori (per profondità e insanabilità), con una minore demoralizzazione e una maggiore capacità di riprendere il lavoro nel modo più ampio, giusto ed energico” (p. 536).
E occorre saper praticare l’arte del compromesso. Non c’è in materia una ricetta buona per tutte le occasioni, che consenta di dire: ‘Mai una rottura!’ o, al contrario, ‘Nessun compromesso!’. In ogni caso, lanciare semplicemente invettive non risolve le situazioni intricate. Bisogna saper discernere, valutare caso per caso, individuare ogni volta – dentro “le questioni pratiche della politica, quali si pongono in ogni singolo momento o in un momento storico specifico” (p. 570) – il confine mobile, mai dato una volta per tutte, tra opportunismo e marxismo rivoluzionario: su un tale terreno scabro è esercizio sterile procedere a colpi di affermazioni di principio. C’è compromesso e compromesso. Così come c’è differenza tra chi si è reso complice del massacro imperialista contro i proletari, accettando (come hanno fatto in Russia menscevichi e socialisti-rivoluzionari) la logica della guerra, e chi all’opposto ha prima preparato e attuato il rovesciamento della propria borghesia imperialista, cercando nel contempo di mettere sabbia nell’ingranaggio bellico, ma successivamente, per la propria sopravvivenza e nell’interesse dei proletari, ha dovuto sottoscrivere una tregua caratterizzata da pesanti condizioni (come è accaduto ai bolscevichi nel marzo del 1918, quando hanno firmato a Brest-Litovsk il trattato di pace separata, accettando il diktat austro-tedesco).
Sul filo dei suddetti ragionamenti, Lenin polemizza con chi, all’interno del Comintern, lancia le parole d’ordine: ‘Fuori dai sindacati reazionari!’ e ‘Fuori dai parlamenti borghesi!’. Ancora un volta, va tenuto presente il contesto. Alla fine del secondo decennio del secolo, milioni di operai in tutta Europa trovano nei sindacati la più elementare e progressiva forma di organizzazione del conflitto di classe. In questo contesto, i sindacati esprimono di fatto “lo sviluppo della coscienza di classe e della tendenza all’organizzazione propria delle masse proletarie” (p.557): ciò è documentato dalla crescita esponenziale del numero degli iscritti. Di contro, essi cominciano già a manifestare certi “tratti reazionari”, una certa “angustia corporativa”, una “tendenza all’apoliticismo” e all’”opportunismo professionale”. E quel che è peggio – soprattutto nei paesi dell’Europa Occidentale – hanno selezionato leader e gruppi dirigenti che sono espressione di “un’aristocrazia operaia corporativa, gretta, interessata, asservita all’imperialismo” (p. 555). Lenin riconosce che in tali paesi è molto più difficile la lotta politica contro le suddette degenerazioni; e tuttavia insiste che questa lotta va condotta senza il minimo tentennamento, ma dentro i sindacati, “là dove sono le masse” (p. 557). Le difficoltà, gli intrighi, le discriminazioni non devono demoralizzare e interrompere il paziente lavoro di smascheramento dei vertici sciovinisti: è necessario conquistare la simpatia, il sostegno delle masse, non abbandonarle all’influenza dei capi reazionari; contendere a questi ultimi palmo a palmo le leve dell’organizzazione, anche contrapponendo furbizia ad angherie, non “cavarsela saltando oltre” con le esclamazioni di sdegno e magari creando “forme inventate di organizzazione operaia” del tutto “nuove, pure, escogitate da comunisti molto simpatici” (p. 553).
All stesso modo, Lenin non risparmia critiche a chi sottovaluta o addirittura intende azzerare la battaglia parlamentare. A dispetto delle semplificazioni dei loro avversari, i bolscevichi – all’indomani della rivoluzione democratico-borghese del febbraio del 1917 – non hanno “incitato a rovesciare il governo”, ma hanno chiarito “l’impossibilità di rovesciarlo senza operare mutamenti nella composizione e nell’indirizzo dei soviet”, dichiarando ufficialmente “che una repubblica borghese con un’Assemblea costituente è migliore di una repubblica borghese senza Assemblea costituente (ma che tuttavia la repubblica sovietica operaia e contadina è migliore di qualsiasi repubblica parlamentare democratico-borghese)” (p. 538). Nel corso della lotta condotta per anni contro lo zarismo, essi non hanno mancato di promuovere accordi con le forze del liberalismo, né si sono sottratti a stringere intese anche con alleati esitanti o poco fidati, pur di orientare in senso progressivo le oscillazioni della piccola borghesia, superare la diffidenza delle grandi masse proletarie, accelerare in esse – nella loro esperienza – il processo di comprensione, la capacità di distinguere tra chi nella competizione istituzionale sta dalla loro parte e chi no. “Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare, non di abbassare, il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere” (p. 574): anche qui, dunque, c’è modo e modo di stare nelle istituzioni, di chiedere o non chiedere svolte, di operare o non operare rotture.
Nella polemica leniniana nei confronti dell’”estremismo” vanno distinti due diversi atteggiamenti. Il primo, pur non consentendo un’attenuazione della fermezza della critica, rimane – vorrei dire – benevolo. È un errore anche dei rivoluzionari più generosi (“soprattutto se giovani”) quello di scambiare “il loro desiderio, la loro posizione ideale e politica, per una realtà oggettiva” (p. 560): è il limite dell’entusiasmo dello spirito rivoluzionario. Tale sentimento è comprensibile, perfino necessario; ma sarebbe assolutamente pernicioso cedere ad esso quando si deve “determinare in che modo si debba lottare”, quando l’intelligenza tattica richiede un’analisi accurata, “un calcolo preciso e rigorosamente oggettivo di tutte le forze di classe dello stato in questione” (p. 565). Minimizzare l’importanza della tappa intermedia, trascurare la costruzione del passaggio tattico non affretta il conseguimento dell’obiettivo: al contrario, mette in mostra tutta l’ingenuità di chi – come argutamente notava F. Engels – porta “come argomento teorico la propria impazienza”.
Il secondo atteggiamento, viceversa, punta il dito sul carattere socialmente regressivo di certo “rivoluzionarismo piccolo-borghese”. Il riferimento è, nel merito, al ribellismo del piccolo proprietario inferocito per la crisi capitalistica e il peggioramento delle proprie condizioni di vita, ma “incapace di manifestare tenacia, spirito organizzativo, disciplina e fermezza” (p. 539). Lenin prende qui di mira l’inconsistenza pseudo-rivoluzionaria della piccola borghesia, “la sua sterilità, la sua proprietà di trasformarsi rapidamente in docilità, apatia, fantasticheria, in folle passione per questa o quella corrente borghese alla moda” (p. 539). Nel configurare tali connotazioni psico-sociologiche, egli ha anche in mente la loro concretizzazione politica attuata in Russia dai socialisti rivoluzionari (in particolare, l’accettazione da parte di questo gruppo politico del terrorismo individuale) nonchè, all’interno del movimento comunista internazionale, le posizioni anarco-sindacaliste ad esempio propugnate in Germania da Karl Erler, che arriva a dichiarare l’inutilità e il carattere borghese dei partiti politici. Su quest’ultimo punto la critica si fa particolarmente aspra. Il partito del proletariato, in quanto massima espressione organizzativa della classe, costituisce l’unico argine in grado di impedire che, nelle diverse fasi di una lotta lunga e dura, abbiano libero corso e prendano spontaneamente il sopravvento la “mancanza di carattere”, “l’individualismo”, “l’alternarsi di entusiasmo e depressione”. Privarsi di un tale formidabile strumento “equivale a disarmare completamente il proletariato a vantaggio della borghesia. (…) Equivale appunto a quella dispersione, a quell’incostanza, a quell’incapacità di tener duro, di essere uniti, di coordinare le azioni, che sono proprie della piccola borghesia e che perderanno fatalmente ogni movimento rivoluzionario del proletariato se saranno trattate con indulgenza” (p. 549). Detto per inciso, il pensiero di Lenin è qui del tutto estraneo ad una concezione grettamente disciplinare dell’organizzazione di partito. Beninteso, la disciplina, la responsabilizzazione sono assolutamente necessarie per la sua tenuta. Ma esse sono funzione di due elementi essenziali: l’adesione convinta dei militanti ad una linea politica (dunque, un’abnegazione che viene dalla cognizione condivisa degli obiettivi) e il consenso offerto alla giusta strategia dalle grandi masse. In definitiva, un partito rivoluzionario tiene, se sorretto dalla sua strategia e dalla capacità “di collegarsi, avvicinarsi, unirsi fino a un certo punto e, se si vuole, fondersi con la più grande massa dei lavoratori, dei proletari anzitutto, ma anche con la massa lavoratrice non proletaria” (p. 533).
Per concludere: noi, oggi
La fine del secolo fa arrivare sino a noi come echi lontani “gli anni della rivoluzione” di cui abbiamo parlato, ponendoci all’opposto davanti alla realtà della Grande Restaurazione del “dopo ‘89”: tale profondità storica consente, per contrasto, di delineare con maggior nettezza la congiuntura odierna. Colpisce la diversità – per molti versi, l’antiteticità – delle condizioni storiche. A quello che allora si configurava come compito di finalizzazione di un movimento ascendente si sostituisce oggi l’impegno per la rifondazione di una prospettiva comunista. Anche noi infatti siamo testimoni di eventi di portata planetaria: i quali, però, stanno conducendo l’umanità nella direzione contraria a quella da noi auspicata. Se gettiamo un sommario sguardo al campo delle forze che storicamente hanno fatto riferimento al movimento operaio, constatiamo che in pochi anni si sono prodotti il tracollo del cosiddetto ‘socialismo reale’ (dissoltosi nello spazio di un mattino, come un involucro privo di contenuto), la mutazione della sinistra occidentale (con l’abbandono di una collocazione di classe e l’approdo sulla sponda liberale), la trasformazione del sindacato (anch’esso passato dal conflitto alla cogestione). Contestualmente, abbiamo assistito al dispiegamento sovranazionale dei più classici e selvaggi dispositivi del modo di produzione capitalistico, all’estensione senza precedenti del lavoro salariato e dei rapporti di sfruttamento, al regredire di conquiste storiche del movimento operaio (quale il sistema di tutele dello “stato sociale”), all’involuzione degli istituti della democrazia partecipata. La cosiddetta globalizzazione ha marciato irreversibilmente, agendo su leve potenti. Sul terreno dell’organizzazione produttiva, due in particolare: 1) la destrutturazione e la delocalizzazione degli apparati produttivi “fordisti” – in concomitanza con l’affermarsi delle nuove tecnologie e con l’incontrastato potenziamento della libera circolazione dei capitali – ad inseguire un costo del lavoro incomparabilmente più basso e con l’effetto del ricatto sulla forza-lavoro “interna”, precarizzata e piegata all’ideologia della libertà d’impresa; 2) un poderoso processo di privatizzazione, con l’apertura – simultanea e coordinata a livello internazionale – all’accumulazione di capitale di settori precedentemente pubblici, finalizzata al sostegno dei margini di profitto e sostenuta dall’ideologia della superiorità del modello privatistico.
Tutto ciò non deve però far pensare che il quadro sia compatto e pacificato. In effetti, cambia la dimensione delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, rese ancora più acute nel momento stesso in cui si rafforza il dominio dei padroni del mondo unipolare, amplificate fino ad investire la stessa prospettiva globale, le sorti stesse del pianeta. A questo proposito dobbiamo recuperare la lezione centrale della pagina leniniana, di natura squisitamente metodologica. Essa consiste nell’invito a prendere sul serio l’inedita peculiarità della congiuntura capitalistica, a sviluppare al di là degli schemi e delle letture rituali lo spessore analitico necessario per confrontarsi a tutto campo con la nuova dimensione dei problemi e la natura delle forze in campo. È da questa “analisi concreta della situazione concreta” che possono scaturire idee-forza e respiro strategico: in tale percezione del particolare deve immergersi il generale progetto di ricostruzione di un partito comunista, il quale fa tutt’uno con l’idea di una trasformazione profonda della società attuale, dei suoi meccanismi di produzione e distribuzione della ricchezza.
In questo senso, gli attuali limiti di Rifondazione Comunista, le difficoltà con cui è stata chiamata a confrontarsi non devono far sottovalutare quella che rimane nonostante tutto una sua potenzialità, connaturata alla sua fisionomia e implicata nella scommessa politica che sin dall’inizio essa rappresenta: precisamente, la messa a valore di quello che chiamerei un atteggiamento sperimentale rigoroso, che per un verso non celebri liturgie e – per altro verso – non indulga a civettare con le mode. Un tale atteggiamento – di seria riflessione sul proprio passato e di attenta indagine del presente – rappresenta oltre tutto una strada obbligata all’indomani dell’‘89, per chi voglia ricostruire le risorse, riaccumulare le forze per tornare a porre all’ordine del giorno la possibilità del cambiamento. In effetti, vi sono due modi di far deperire una pratica di trasformazione del reale. Uno esplicito, dichiarato e teorizzato: i cedimenti della sinistra moderata all’ideologia dominante liberal-liberista sono, nel merito, caso esemplare. Un secondo modo è inespresso, non dichiarato né teorizzato: in questo caso, ci si accomoda dentro un impianto di nozioni e riferimenti teorici ereditati dal passato e che finiscono per costituire la cornice formale di comportamenti di segno opposto. Qui restano i nomi, i simboli, le asserzioni di principio; ma mutano le pratiche, le scelte di breve e medio periodo, i comportamenti politici. L’orizzonte strategico sfuma in dottrinarismo e, contestualmente, la politica diventa tatticismo. In definitiva, i comportamenti adottati si separano dai concetti proclamati: non è forse questo l’imbuto in cui si sono cacciati i nostri ex compagni del PdCI?
D’altra parte, proprio l’irrobustimento analitico del progetto comunista può evitare i gravi errori della reazione “estremistica” al moderatismo, che – oggi come ieri – si presenta assumendo prevalentemente e variamente le forme di un ritorno dell’ispirazione anarchica: spontaneismo individualistico, insofferenza per gli assetti politici organizzati (che trasforma la giusta critica all’involuzione burocratica in attacco alla forma partito tout court), anti-istituzionalismo di principio, localismo (vissuto come positivo e mitico effetto di ritorno della stessa globalizzazione). Allo stesso modo, un tale consolidamento del progetto rende possibile esprimere, con la necessaria lucidità e con minori sofferenze, “la capacità di realizzare tutti i compromessi pratici necessari, di manovrare e patteggiare, di procedere a zig-zag, di ritirarsi” (p. 591). Quando questi mezzi sono i soli per poter tornare ad avanzare.
NOTA
1) Le citazioni del testo di Lenin sono tratte da V. I. LENIN, Opere scelte, Edizioni “Progress”, Mosca 1971.